Quello di Gareth Edwards è un nome che negli ultimi mesi è legato a doppia mandata all’apprezzato spin-off di Star Wars, Rogue One, e preceduto un paio d’anni prima dal remake, campione di incassi, Godzilla. Prima di questi due lavori vi è però la piccola opera con la quale il regista inglese nel 2010 ha firmato il suo debutto nel mondo cinematografico: Monsters. Alla luce del recente successo di Edwards, riscopriamo una pellicola all’insegna della genuinità, quella vera.

Prima della sua uscita sul grande schermo, attorno a Rogue One: A Star Wars Story aleggiava un’aria un po’ di sospetto, scettica. La produzione era stata affidata ad un regista giovane, Gareth Edwards, classe 1975, bella promessa del cinema con alle spalle solamente altri due lungometraggi, un film amatoriale del 2010 ed il blockbuster campione al botteghino Godzilla.

A distanza di qualche mese, sappiamo tutti come è andata, con i fan per la maggior parte piacevolmente riuniti nel lodare il nostalgico (ma quasi per nulla fandomico) Rogue One, dopo i pareri e le opinioni discordanti che avevano avvolto Episodio VII di J.J. Abrams.

Sin da quella produzione indipendente del 2010, però, si potevano scorgere le doti genuine dell’allora trentacinquenne Edwards.

Monsters, questo il titolo del film, può essere racchiuso al meglio proprio da questa parola, genuinità.

Ad un primo impatto, il titolo non lascia molto alla fantasia, richiamando (all’apparenza) in modo estremamente semplice e diretto quello che sarà l’effettivo contenuto della pellicola. Probabilmente, però, proprio per questa ragione, veicola lo spettatore verso un determinato stato d’animo e di preparazione per ciò che accadrà su schermo differente da quello che prende nel corso dell’effettivo sviluppo nei circa 90 minuti di girato.

 

 

 

 

 

Monsters, al di là del generico titolo, va a toccare delle corde atipiche, scostandosi dalla categoria dalla quale trae ispirazione ed esplorando velatamente dimensioni sottostanti alle mastodontiche figure delle creature messe in scena.

Edwards coglie a piene mani da un bacino che in quegli anni andava lentamente riempiendosi e tornando di moda, quello appunto dei monster movie. Nel 2008 usciva nei cinema Cloverfield, diretto da Matt Reeves e prodotto da J.J. Abrams, che rappresenterà il crack che darà il definitivo via a nuove produzioni del genere e che spronerà Hollywood ad investire nuovamente, ed in modo molto deciso, su film come, appunto, Godzilla del 2014.

La figura dell’alieno muta (ultima conferma con Arrival di Villeneuve), spostandosi sulle tentacolari e titaniche figure di creature insettoidi o, come nel caso di Monsters, seppioidi.

Bisogna dire fin da subito che in questa pellicola, però, i mostri non si vedono poi molto.

Questo perché è un mix estremamente particolare quello al quale Edwards tenta di approcciarsi. Un’alchimia delicata che è un misto tra oculate scelte di sceneggiatura ed esigenze di budget.

 

 

Peculiarità che aggiunge valore alla pellicola è infatti quella di poggiarsi su di un very very low budget, che a stento arriva al mezzo milione di dollari statunitensi.

E’ ancor più d’impatto se si pensa a quella che è la dimensione effettiva della troupe, chiamata a muoversi a bordo di un furgoncino tra vari paesi del Centro America, e comprendente in modo stabile solamente sette membri, compresi lo stesso Edwards (che ha curato scenografia, fotografia ed effetti visivi lavorando dal suo computer) ed i due attori principali, Whitney Able e Scoot McNairy.

I due attori, che fino ad allora avevano lavorato nella televisione, sono chiamati ad una importante prestazione, vista anche la parziale assenza di uno script completo e definito, fatto dovuto alla limitatezza dei fondi.

I protagonisti si rivelano abili nei ruoli nei quali devono calarsi, dimostrandosi spontanei e (anche qui) genuini nell’improvvisazione delle battute e nel riempimento di quei vuoti di copione che facilmente avrebbero potuto far traballare la solidità della trama ultima del film.

Andrew Kauden e Samantha Wynden si incontrano per forza degli eventi, in Messico. Andrew è un reporter all’apparenza aspro e distaccato, cinicamente alla ricerca dello scoop e della giusta foto che potrebbe permettergli di fare il salto di qualità nella testata per la quale lavora. Samantha è la figlia del capo della testata di lui, lontana dagli Stati Uniti per motivi che non vengono mai realmente spiegati, ma che possiamo intuire lungo il corso della pellicola.

 

 

I due sono costretti a viaggiare assieme attraverso quella che è stata denominata la Zona Contaminata.

I due sono costretti a viaggiare assieme attraverso quella che è stata denominata la Zona Contaminata, un territorio off-limits delimitato da titaniche mura che segnano il confine con gli USA.

Come recita la tagline del film, sei anni prima degli eventi narrati, una sonda della Nasa si è schiantata al rientro da una missione spaziale, liberando campioni di vita aliena e dando il via a quella che è l’attuale contaminazione.

Il viaggio per tornare a casa è impervio e pericoloso, nell’aspro cuore della Zona abitata dalle mortali creature e dove le forze armate statunitensi compiono raid chimici nel tentativo di sterminare le forme aliene.

Il tema del confinamento e del contenimento strizza inevitabilmente l’occhio a District 9 di Blomkamp, uscito un anno prima nelle sale. La critica sociale in Monsters è sicuramente presente, ma assume una portata differente, meno marcata e più delineante il contesto che si staglia vivido sullo sfondo, che a sua volta, però, si ricollega all’anima pulsante del film.

Edwards sceglie per il suo primo lungometraggio un approccio che resta saldo ad una cultura lontana dal blockbuster, avvolgendo il film in una patina rustica e semplice che si rivela efficace nel riconoscere Monsters come figlio del mondo underground.

 

 

 

 

Di azione, in fin dei conti, ce ne è poca; il regista inglese opta per una costruzione narrativa che si incentri principalmente sulle figure dei due protagonisti, Samantha ed Andrew, sul loro rapportarsi ad un’esperienza tragica che li vede costretti ad unirsi, e scoprirsi, nel tentativo di raggiungere la salvezza.

Il rapporto che matura tra i due è impiantato su uno sfondo di tensione e di costante pericolo, dove l’alieno si rivela per lo più attraverso manifestazioni sonore che provengono dalle profondità della giungla, lontane ma mai davvero così distanti.

Quando i mostri appaiono non sono comunque loro i protagonisti delle scene (che richiamano con forza i Jurassic Park spielberghiani), che li vedono inquadrati a stento, in modo confuso, per volontà di regia e probabilmente anche per necessità di produzione.

Tecnicamente Monsters è un lavoro eccezionale, se si considera da quali e quanti mezzi è stato partorito. Gli effetti speciali non sono molti, e certamente non limpidi come le controparti ad alto budget, ma ciò passa in secondo piano se ci si sofferma a pensare che sono stati elaborati da un’unica persona sul suo computer. Il resto lo fa sempre Edwards, che con la macchina da presa riesce appieno nell’imprimere il senso da lui voluto e cercato, evocando attraverso la forza delle immagini l’anima profonda di Monsters.

Un’anima che non necessita di visualizzare il mostro, o meglio, non può ancora focalizzarlo e metterlo a fuoco in modo distinto, così come vorrebbe fare Andrew con la sua macchina fotografica.

Monsters levita un gradino sopra gli alieni, il Messico, gli Stati Uniti, le mura e la distruzione. Attinge da questi per sviluppare un arco narrativo indubbiamente non perfetto, per le evidenti carenze di mezzi, ma che si rivela in grado di condurre ad uno scioglimento finale che concede un allargamento di quel titolo che in origine appariva generico e forse un po’ troppo asettico.

 

 

 

 

Così come da intenzione dello stesso Edwards, di voler creare «qualcosa come un Lost in Translation che incontra La guerra dei mondi», Monsters si caratterizza come un viaggio che rappresenta una sospensione dalla realtà quotidiana, pregiudizievole e timorosa. Un viaggio la cui reale meta non è il superamento del confine fisico, bensì di quello morale e sentimentale, che conduce all’accettazione dell’altro ed alla sua completa comprensione.

La figura degli alieni si mescola a quella dei protagonisti, che si scoprono, davvero, in un finale dal fortissimo impatto visivo ed emotivo, dove la semplicità non cede alla retorica, bensì, ancora una volta, alla genuinità.

Monsters è una pellicola atipica, che fa molto con molto poco. Il lavoro di Edwards si discosta in parte dai suoi fratelli più grandi e maggiori esponenti del genere, ma che per questa stessa ragione lo fa rimanere una piccola perla che varrebbe la pena riscoprire anche oggi, a distanza di sette anni.

 

 

 

Pubblicato originariamente su Il Menterrante il 16/5/17