In questo approfondimento ripercorriamo insieme la parabola discendente di una delle saghe più controverse del mondo dei videogiochi: Assassin’s Creed.
Assassin’s Creed è la saga videoludica attualmente più nota e longeva della software house francese Ubisoft. Conta all’attivo nove capitoli principali usciti per PC e console, e altrettanti spin-off sulle più svariate piattaforme, oltre ad un numero crescente di materiale legato alla saga in diversi rami dell’intrattenimento, dai libri ai fumetti al cinema.
Si tratta di un franchise di enorme successo la cui fortuna ha però subito una forte battuta d’arresto negli ultimi anni, tanto che la serializzazione annuale da essere molto attesa e desiderata dal pubblico, ha finito con l’annoiare e con l’essere fortemente criticata. Durante lo scorso anno, dunque, la software house ha deciso di concedersi una pausa dalla ormai annuale produzione di un titolo canonico della serie, in virtù di una remastered dei capitoli più famosi della scorsa generazione di console (la Assassin’s Creed: The Ezio Collection) e dell’uscita nelle sale del lungometraggio con Michael Fassbender e Marion Cotillard.
Di fronte ad una produzione tanto generosa, che nel suo anno più scarno vede comunque un film e la remaster di tre videogiochi, verrebbe da chiedersi perché nell’introduzione si parli di parabola discendente. Il motivo è presto detto: nessuna saga come quella degli assassini di Ubisoft incarna meglio la volubile e assai rischiosa condizione di chi ha cercato di accontentare tutti.
Spesso si finisce col non rendere felice nessuno, e bastano pochi errori per vanificare tutto ciò che di buono era stato costruito nel tempo. Ma con calma affronteremo i vari passaggi del destino di Assassin’s Creed e delle possibilità di “redenzione” per una saga che è passata, letteralmente, dalle stelle alle stalle.
In principio fu Altair
Correva l’anno 2007, la nuova generazione di console era ai suoi primi anni di vita e aveva traghettato i videogiocatori nella magia dell’alta definizione, avvicinando ancora una volta nuova utenza al medium videoludico e offrendo come mai prima di allora esperienze che, rispetto a quanto c’era prima, lasciavano letteralmente a bocca aperta.
Il 2007 è stato l’anno di The Elder Scrolls IV: Oblivion, di Call of Duty 4: Modern Warfare, di BioShock e di Halo 3, ma anche e soprattutto l’anno di Assassin’s Creed. Chi ha vissuto quel momento ricorderà bene la mastodontica macchina del marketing che la software house francese aveva attivato per pubblicizzare il gioco: tutti volevano giocarci.
E quando l’hype è così alto, il rischio di fallire è sempre dietro l’angolo.
Quel primo gioco che ci metteva nei panni di Desmond Miles, alle prese con una storia più grande di lui, con l’eterna lotta tra Templari e Assassini ancora nei giorni nostri, e del suo antenato Altaïr Ibn-La’Ahad nell’affascinante contesto della Terza crociata nella Terra Santa, poneva le basi di una narrazione misteriosa e coinvolgente declinata in un gameplay come non si era ancora mai visto. Intere città esplorabili in lungo e in largo, arrampicandosi sui tetti di ogni abitazione, in cima ad ogni torre, attraversando a piedi o a cavallo lunghe tratte e offriva un sistema di combattimento divertente che permetteva al giocatore di affrontare l’azione di gioco sia in mischia che, soprattutto, con furtività e astuzia.
Certo il primo titolo non era esente da difetti, che furono fortemente criticati dagli addetti ai lavori proprio a causa dell’enorme macchina dell’hype generata attorno al gioco per mesi. Tutto sommato però, Assassin’s Creed era riuscito ad ottenere il risultato desiderato.
Dall’Italia con furore
Ogni difetto riscontrato nel primo capitolo è stato corretto con Assassin’s Creed II, da cui si è poi delineata un’intera trilogia legata al carismatico personaggio di Ezio Auditore che (lo si può affermare con un po’ di amor di patria) ha avuto tanto successo anche grazie all’uso di location quali le magnifiche città italiane di Firenze, Venezia e Roma durante il Rinascimento.
Se lo scorso anno è stata riproposta una remastered proprio di questa trilogia un motivo c’è, ed è estremamente semplice: in quel periodo la saga ha raggiunto il punto più alto sia in termini artistici che di vero e proprio amore da parte del pubblico.
Location incredibili e personaggi carismatici, legati sempre più a doppio filo con una fanta-storia che ci vede interagire con i Medici, con Leonardo Da Vinci, Niccolò Macchiavelli e molti altri ancora in un contesto verosimile e ben ricostruito sono stati i punti di forza di questi capitoli che in più hanno affinato il gameplay, migliorato il migliorabile e introdotto anche una modalità online a suo tempo molto apprezzata con Assassin’s Creed: Brotherhood.
La formula vincente era però nel doppio binario narrativo. Nel presente infatti continuavamo ad impersonare Desmond Miles nella sua lotta contro l’Abstergo Industries (i moderni Templari) e a veder crescere il suo personaggio man mano che riviveva i ricordi di Ezio nell’Animus. La sceneggiatura delle fasi nel presente era tanto curata quanto quella delle fasi nel passato e, da un certo punto di vista, ancor più fitta di intrighi e misteri. Ovvio che i fan della saga desiderassero un gioco all’anno, finito ogni capitolo ti ritrovavi con un cliffhanger tale da non vedere l’ora di iniziare quello successivo! Ma qui inizia a porsi un serio problema per la software house: concludere la serie seguendo la sceneggiatura originale e rinunciare a una gallina dalle uova d’oro che può produrre ancora tanti, tantissimi utili, oppure continuare con la serializzazione annuale pur sacrificando una coerenza narrativa?
La scelta sbagliata
Probabilmente se potesse tornare indietro, anche Ubisoft non rifarebbe la stessa scelta in merito alle sorti dei suoi Assassini. Se con la trilogia di Ezio Auditore la parabola della serie non ha fatto che crescere, il momento di stasi arriva con Assassin’s Creed III. Qui abbiamo per quanto riguarda il passato un cambiamento netto e di personaggi, e di ambientazioni: dall’Europa Rinascimentale ci ritroviamo in Nord America a metà ‘700 e conosciamo così un altro ramo della discendenza di Desmond che si rivelerà particolarmente importante per la battaglia tra Assassini e Templari, ovvero la famiglia Kenway, di cui in questo capitolo in particolare vestiremo i panni di Connor.
Questo capitolo è stato, secondo chi vi scrive, ingiustamente criticato a causa del paragone inevitabile tra i personaggi di Ezio e Connor, da cui quest’ultimo esce inevitabilmente sconfitto. In termini di gameplay però la formula è stata ulteriormente perfezionata ed arricchita anche dalle fasi navali, offrendo una mappa grande ma non dispersiva e un buon numero di missioni secondarie. Inoltre la trama nel presente progredisce in modo sempre più incalzante, svelando tanti misteri e appagando il giocatore come mai prima. A questo punto però la scelta fatale, pagata a caro prezzo dalla serie.
La progressione della trama nel presente per la quasi totalità del gioco lascia supporre che stia per arrivare la conclusione del cerchio, ma non volendo rinunciare a un franchise che si vendeva praticamente da solo, la sceneggiatura di Assassin’s Creed III viene stravolta e sul finale ci propone la morte del protagonista, Desmond Miles, vanificando con essa un’intera timeline narrativa sapientemente lavorata nell’arco di ben cinque giochi.
La parabola discendente inizia qui.
Spinti dall’uscita cross-gen in molti acquistarono Assassin’s Creed IV: Black Flag in cui ci si ritrova ad avere una trama nel presente poco più che di contorno all’avventura marittima di un personaggio comunque ben riuscito, il pirata e Assassino Edward Kenway. Il pubblico iniziava però già ad avvertire il brand come pesante, inutilmente serializzato. Ormai quasi il Call of Duty degli action/adventure, divenuto l’ombra di se stesso e schiavo del soldo facile.
Esperimenti decisamente più criticati e mal riusciti furono poi i successivi Assassin’s Creed: Rogue (esclusiva per PlayStation 3 e Xbox 360) e Assassin’s Creed: Unity (esclusiva PlayStation 4 e Xbox One) in cui ormai la trama del presente è affrontata in prima persona da un non meglio definito protagonista che rivive i ricordi degli antenati di Desmond nell’Animus tramite uno strano collegamento col cadavere di quest’ultimo. Uno stratagemma che ha finito per stancare in molti che non hanno nemmeno dato una possibilità all’ultimo capitolo Assassin’s Creed Sydicate, che ci porta in una suggestiva Londra nei panni dell’Assassino Jacob Frye affiancato dalla sorella Evie Frye.
Syndicate, pur mantenendo ormai la narrazione nel presente come totalmente accessoria, è forse il migliore come equilibrio narrativo nel passato e gameplay degli Assassin’s Creed usciti dopo Assassin’s Creed III. Anche dal punto di vista tecnico sono state superate tutte le incertezze e i bug presenti in Unity e da un punto di vista tecnico è sicuramente il più bel titolo finora creato per la saga, eppure il meno venduto e apprezzato dal pubblico.
I wanna be (a) Rockstar
Spesso i videogiocatori dimenticano che oltre ad essere a tutti gli effetti una forma d’arte oltre che d’intrattenimento, i videogiochi sono prima di tutto un’industria. La suscettibilità commerciale che oggigiorno permea il mondo dei videogiochi ha di fatto suddiviso anche il panorama dello sviuppo tra tripla A e indie, non esistono più vie di mezzo. Non c’è niente di male a voler guadagnare il più possibile da un videogioco, e una delle software house che più di tutte ha improntato un modello commerciale funzionale in tal senso è Rockstar con la serie Grand Theft Auto (basti pensare che dalla sua uscita ad oggi GTA V non smette di comparire nella top ten dei titoli più venduti, ogni anno, su tutte le piattaforme).
Ubisoft ha cercato di trasformare Assassin’s Creed nel proprio GTA, seguendo in un certo senso anche gli stilemi di quest’ultimo: mappe open world enormi interamente esplorabili, una moltitudine di missioni e obiettivi secondari a intermezzare una narrazione mai troppo incalzante, integrazione dell’online e persino di un sistema di microtransazioni. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, e non ha decisamente premiato la serie degli Assassini.
Non ha premiato in quanto questa è diventata famosa per un gameplay ricco, non barocco, ma soprattutto per la sua narrazione. Per il suo doppio binario narrativo, come dicevamo in partenza, tra presente e passato, dove tutto era funzionale a un racconto unitario. Ormai le storie narrate invece possono essere decontestualizzate totalmente dalle vicende iniziali di Desmond, non tolgono nè aggiungono più nulla.
O muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo.
Mi permetto di citare Harvey Dent con questa frase che cala a pennello per la situazione di Assassin’s Creed, una serie tanto amata agli inizi quanto odiata ora. Probabilmente la cosa migliore sarebbe stata concludere la sceneggiatura originale con un gioco diverso da quel che poi è stato Assassin’s Creed III, ma ormai indietro non si torna.
Ma una possibilità di redenzione c’è. Una possibilità, per questa serie, di uscire dal pantano in cui ormai si trova. I videogiocatori hanno la memoria corta e questo anno di assenza può essere solo un fattore positivo per fare tabula rasa del bene e del male accumulato fin qui. Se all’E3 2017 (dove sicuramente Ubisoft presenterà il nuovo capitolo) vedremo un trailer o magari anche una sequenza di gameplay di un gioco fortemente incentrato sulla narrazione, con un nuovo protagonista nel presente a cui dare un volto, un nome, una storia, allora ci sarà ancora spazio per la lotta tra Assassini e Templari. Ci sarà spazio per niente di più di una nuova trilogia che concluda finalmente questa serie in modo degno.
La tendenza di cui parlavamo poc’anzi, quella di emulare il modello Rockstar Games, è di certo pensata non solo su valutazioni di profitto economico, ma anche per intercettare le nuove tendenze del gaming e accontentare ciò che i giocatori evidentemente vogliono. Ma così facendo la serie ha finito per il non guadagnare quell’utenza e per perdere l’affetto di quella che invece l’aveva sostenuta per il suo modello.
I veri capolavori non nascono quando si da al pubblico ciò che vuole, ma quando gli si da ciò di cui ha bisogno.