Il gilet pieno di munizioni, bombe a mano, coltelli, gancetti. Il lanciarazzi tirato dietro per la tracolla, come un sacchetto della spesa. Il fucile in spalla, il trucco facciale, l’aria da mo’ sono fatti vostri: è il momento clou di Commando.
Si stanno per affrontare il colonnello John Matrix e un piccolo esercito. Cioè due piccoli eserciti. Matrix ne uscirà naturalmente vincitore, con un paio di graffietti da giardinaggio, lasciandosi alle spalle un bodycount da film di guerra.
La sua guerra, perché se c’è una cosa che il cinema anni ’80 ci ha insegnato è che non si rompono le balle ai personaggi di Arnold Schwarzenegger.
Nossignore.
Rewind: un’oretta e spicci prima, ci viene presentato il colonnello Matrix attraverso un intenso primo piano di un suo bicipite sudato. Poi gli scarponi, di nuovo il bicipite enorme e infine la faccia con quel mascellone, su un tappeto di musica al sintetizzatore che pulsa in sottofondo.
Piccola parentesi: l’autore di quel soundtrack, il superprolifico James Horner, porterà a casa dodici anni dopo due Oscar con le musiche di quella nave che affonda, lì. Fine parentesi, torniamo a Matrix, che se ne va in giro con un tronco gigantesco in spalla.
Si è lasciato alle spalle la sua vita da membro di un qualche corpo d’elite alle prese con missioni sotto copertura per l’esercito USA, vuole starsene in santa pace con sua figlia Jenny in quel cottage. A leccare un cono gelato, dar da mangiare ai daini, pescare le trote. Che fine abbia fatto la madre di Jenny non è dato saperlo, così come non è dato sapere praticamente nient’altro sui personaggi e le loro motivazioni.
Il suo ex compagno d’armi Bennett vuole Matrix morto, il dittatore deposto del solito paese centro o sudamericano inventato, Val Verde, vuole che Matrix uccida il nuovo presidente per tornare al potere. Al cinema d’azione anni 80 non serve altro, ai suoi spettatori men che meno. Sono altri tempi, la gente davanti a un action hero che fa il suo mestiere non sta a rompere le palle su Internet.
Certo, è altamente improbabile che un uomo sopravviva lanciandosi dal carrello di un aereo al decollo giusto perché è atterrato in un acquitrino profondo venti centimetri, ma fondamentalmente a) non esisteva Internet, b) era più importante divertirsi che stare a cercare i buchi logici pure nelle puntate di Peppa Pig.
Sì, non c’era manco Peppa Pig, nell’85, ma ci siamo capiti.
Non che quello sia peraltro l’unico numero pazzesco che il colonnello di Arnoldone tira fuori in Commando. In meno di un’ora e mezza di pellicola, lo vediamo sradicare sedili e sollevare sulla testa cabine telefoniche (con un tizio dentro), spezzare a mani nude catene d’acciaio e uscire senza un graffio da un frontale contro un palo alla guida di un’auto senza airbag, cinture e probabilmente pure con l’assicurazione scaduta.
Declinazione hollywoodiana anni 80 di Maciste e gli altri peplum che imperversavano a Cinecittà qualche decennio prima, o se vogliamo super-eroe da action movie, che resta immobile davanti a migliaia di proiettili esplosi verso la sua rocciosa figura da una banda di nemici ipovedenti. Arnoldone contro tutti, un A-Team di un solo uomo. Ma con una mira decisamente migliore.
Non sai cosa possa pensare oggi di Commando un millennial che in qualche modo, per una qualche ragione, sia riuscito a non vederlo prima in vita sua. Con l’occhio magari smaliziato da duecento film e videogiochi che Commando l’hanno fagocitato e riproposto in tutte le salse.
Non sai se sia possibile, per questo giovane figlio del nuovo millennio, apprezzare quale concentrato del genere action degli anni 80, e per esteso della cultura pop del decennio, il tutto strizzato in meno di 90 minuti, sia Commando.
Come Rambo, ma senza quel minimo di riflessione sociale, senza la tristezza di Rambo per il suo povero protagonista incompreso, reduce dal Vietnam con l’unica sfiga di non aver trovato impiego in un telefilm poliziesco o d’azione, come il 99% dei reduci dal Vietnam finiti in TV o al cinema in quegli anni.
Matrix ammazza la gente e fa battute a favore di camera, in mezzo ai poster dei Duran Duran, ai cattivi con un orologio digitale Casio al polso, alle pareti in vetrocemento, alle battute su Boy George, alla gente che studia karate o parla dell’invasione di auto giapponesi. E quando gli servono le armi per la sua piccola guerra, sa che c’è un outlet di articoli sportivi con un arsenale da terza guerra mondiale nel retrobottega.
Perché sì.
Diretto da Mark L. Lester (Classe 1999) e scritto, tra gli altri, da un tale Joseph Loeb III che diverrà in seguito un noto autore di fumetti firmandosi solo Jeph Loeb, Commando è anche, si diceva, un generatore automatico di risposte one-liner, di quelle su cui Schwarzy ha costruito praticamente una carriera.
Prima che nell’ultimo atto a parlare siano quasi solo i proiettili e i gemiti di morte dei soldati di Val Verde che volano giù al rallentatore dai parapetti, Commando è tutto un fuoco di fila di (riusciti) one-liner per far ghignare lo spettatore.
La prima volta al cinema o la ventesima che lo vedevi in TV, faceva lo stesso.
Sottovento? Dovrei fiutarli come un cane? Io l’ho fatto.
Non disturbate il mio amico: è stanco morto
Che ne hai fatto di quello?”. “L’ho lasciato andare.
Questo berretto verde ti farà a pezzi!”. “I berretti verdi me li mangio a colazione.
E così via, fino alla fine, fino al generale Kirby che chiede a Matrix: “Hai lasciato qualcosa per noi?”, quando arrivano i Nostri, ma clamorosamente in ritardo per non rubare la scena al protagonista. “Solo cadaveri”, gli risponde John. Una serie di Ba-dum Tss così energica da farne venire fuori un concerto di Tullio De Piscopo.
Il resto del cast è un mix di volti noti, attori già visti in altri film action o che sarebbero apparsi di nuovo al fianco del futuro Governatore della California. Come l’attore e regista Bill Duke, che qui è Cooke e che due anni più tardi sarebbe diventato il Mac di Predator.
Come quel mito d’uomo che è Vernon Wells, qui tamarro d’antologia con la canotta traforata su maglietta nera, il baffo a spazzola e gli stessi occhi spiritati del suo selvaggio postapocalittico Wez (Mad Max 2, 1981).
Alla fine del film, prima di quello scontro all’arma bianca piuttosto fiacco, rinuncia all’unico vantaggio che ha su Matrix, come ogni villain scemo che (non) si rispetti. “Avevi la pressione troppo alta, Bennett”. Toh, beccati l’ultimo one-liner del film, pirla.
E poi c’è il dittatore deposto, Dan Hedaya (I soliti sospetti, La famiglia Addams e un miliardo di altri film), e c’è la protagonista femminile Cindy (Rae Dawn Chong, La guerra del fuoco, Il colore viola), che nella versione italiana del film dà del lei a Matrix – ricambiata – fino all’ultimo secondo.
Magari alla fine ce n’è per costruire una nuova famiglia, ma prima le buone maniere. Tenga, grazie, si figuri, dopo di lei.
C’è pure quella sagoma di David Patric Kelly, qui sgherro elegante come un narcotrafficante di Miami, che un posto nella storia del cinema se l’era già ritagliato anni prima, praticamente all’esordio, con delle bottigliette vuote e quel “Guerrieri, giochiamo a fare la guerra?” (I guerrieri della notte, Walter Hill, 1979).
Poi si sarebbe fatto conoscere da un’altra generazione di spettatori con film come Il Corvo e K-Pax, e serie TV come The Blacklist e… Gossip Girl. Già. Il suo one-liner? Un “Bravo, sei divertente e simpatico, per questo ti ammazzerò per ultimo” di Matrix, cui segue, inevitabile, un “Ti ho mentito”, mezzo secondo prima di lasciarlo precipitare nel vuoto.
Ma il premio Va’ chi c’è! è tutto per Bill Paxton, in una particina da uomo radar, roba di una manciata di secondi, prima che l’idrovolante di John e Cindy scompaia dalla sua strumentazione.
“Game over man, game over”: solo un anno dopo, la storia del cinema avrebbe fatto spazio anche lui. Ah, quasi dimenticavo: Jenny, la figlia tredicenne di Matrix, amante di Boy George?
È Alyssa Milano, una decina di anni abbondante prima di Melrose Place e Streghe.