Ne basterebbe uno per accedere al Mito. Ma i respiri rochi, profondi, biomeccanici, quell’afflato viscerale che eruttando dalla macchina pare ricordarci il residuato umano che vi si annida, sono due, forse tre.
Al solo sentirli, quei tre soffi artificiali, e ben inteso senza vederne la sorgente – non subito, non ancora – quelli della sala, di respiri, si bloccano in un secondo. E tutti insieme. Perché la potenza pur affannosa dei primi soverchia i secondi. Anche se sono milioni e in tutte le sale del mondo.
Così Rogue One introduce Lord Darth Vader e in un amen tace i distratti, aumenta i battiti cardiaci, increspa la pelle (d’oca) degli spettatori di ogni terra emersa. Così, con due soffi e in uno dei climax meglio congegnati degli ultimi 20 anni, Gareth Edwards ci riporta al cospetto del Signore Oscuro, noi miseri mortali: gli è bastato un movimento di camera che dal cosmo era passato a inquadrare una piramide eretta fra cascate di lava.
Ricordandoci, ancora e inconsciamente, la genesi dell’(anti)eroe e dove l’avessimo lasciato – esanime – nell’episodio precedente. Ma non solo: la potenza di Vader aveva già titillato la nostra memoria attraverso la macchina respiratoria al petto di Saw Gerrera, sorta di Vader ribelle, suo omologo ma all’estremo opposto dell’ideologia intergalattica.
A quel punto, con una sequenza dall’efficacia schiacciante, aveva proseguito nella rievocazione (resurrezione) del Mito: un piano d’ambientazione sulla sala di Vader, come immerso nel liquido amniotico, e un campo/controcampo sulla sua testa nuda, senza maschera, lacerata, innestata di pezzi meccanici.
Dulcis in fundo, ma proprio in fundo, eccola dopo uno stacco la sua sagoma, la sagoma, nera e in controluce, una delle ombre più famose degli ultimi 50 anni – e per inciso, la più proficua di tutto l’universo lucasiano.
In poco meno di due minuti, è un saggio di epica, mitologia, generazione di senso ed emozioni. E una messinscena perfetta.
Non scopro certo io il legame profondo, quasi debitorio, fra l’universo di George Lucas e la mitologia classica, la conoscenza approfondita di papà George delle opere di mitografia comparata di Joseph Campbell – imprescindibile per il fan vero la lettura/visione di The Power of the Myth.
Appunto, roba nota. Poi però c’è da tradurre la teoria in cinema. C’è da far sgorgare il Mito affinché il mondo lo veda e se ne abbeveri.
E se nella trilogia classica, in mano a registi diversi, il gioco era riuscito con una potenza senza pari nella storia del cinema, anche al demiurgo George il meccanismo era sfuggito nei prequel. E nemmeno a J. J. Abrams – maestro indiscusso del teaser, della fomentazione dell’hype, dell’ipertesto – la fonte sacra era stata di facile accesso. Anzi, nonostante gli Han Solo settantenni, i Chewbacca feriti, nonostante il Millenium Falcon, Luke Skywalker e tutto il nécessaire, al regista di “Missione impossibile” l’impresa era riuscita sì e no il tempo di un lampo – sul successo dell’operazione di marketing, invece, apriremmo tutt’altro capitolo, ma un’altra volta.
Privo del fardello del predecessore, con un budget diverso, senza 30 anni di attesa sul groppone e per uno spin-off che è tutto tranne che uno spin-off – ma un frammento anche cruciale della storia maestra -, a Gareth Edwards il miracolo è riuscito.
Per 5, 6 minuti, non di più. Ma per rimanere nell’eternità pare non serva tramutare l’acqua in vino un mese di fila.
Come se Rogue One fosse tutto lì, poi.
No, certo che no. E certo che dopo una quarantina di minuti iniziali scomposti, fuori ritmo, a tratti noiosi e in realtà poco capaci di farci empatizzare con i suoi protagonisti, il film decolla. In senso letterale, offrendo una seconda parte densa, serrata, colma di rimandi non solo alla saga – la gara di “scova l’intruso” potrebbe andare da Quella sporca dozzina o da I quattro dell’oca selvaggia fino a Bastardi senza gloria e Fury; soprattutto Rogue One è capace di offrire allo sguardo le migliori sequenze di combattimento spaziale degli ultimi anni – le “semi soggettive” dagli X-Wing, i voli radenti sul portale galattico, le panoramiche dall’interno delle astronavi.
Ma nulla a che vedere con il volgare sfoggio di potenza (cinematografica) di cui sopra.
E per sottolineare non sia stato un caso, Edwards lo ripete: nella sequenza finale – per certi versi già nota, trattandosi del raccordo fra il suo film e l’incipit culto di episodio IV – torna alla magia carismatica di Vader.
Introdotto ancora con la sua ombra, con la spada e, ovvio, dal suo respiro, il fu Anakin Skywalker esplode il suo strapotere bellico sugli inferiori, li spazza via – letteralmente – come non esistessero. E poi osserva, ricordandoci dove tutto era partito, la Corvetta Corelliana della principessa Leia allontanarsi verso una fuga impossibile.
Lui, resuscitato e ormai immortale, sfida le profondità del cosmo. Meglio, guarda noi. Ricaduti per sempre nel potere circolare e fondativo di una narrazione che è lì per darci senso. Ben inteso, per darne alla nostra vita di tutti i giorni. E non sto esagerando.
Serve altro?
Sarebbe bastato anche solo un respiro. E invece ne abbiamo avuti due. Forse tre. Eterni.