In un periodo storico in cui il cinema hollywoodiano non ha più idee, il regista e produttore Timur Bekmambetov porta al cinema Ben-Hur, adattamento dell’omonimo romanzo del 1880 di Lew Wallace, conosciuto sopratutto per il celebre film del 1959 di William Wyler con Charlton Heston.

A distanza di quasi sessant’anni, il russo  Timur Bekmambetov, regista del film Abraham Lincoln: Vampire Hunter e produttore di pellicole come UnfriendedHardcore!, si cimenta nell’ardua, e folle, impresa di riportare al cinema un classico che ha fatto la storia del genere kolossal, Ben-Hur.

 

 

Bekmambetov segue in linea di massima le tracce guida di trama poste da Wyler che, a sua volta, aveva tratto dal romanzo di Wyler, apportando alcune modifiche.

Sia Giuda Ben-Hur (Jack Huston) che sua madre Naomi (Ayelet Zurer) e sua sorella Tirzah (Sofia Black D’Elia) vengono, ingiustamente, accusati di aver tradito Roma e arrestati. Solo Esther (Nazanin Boniadi), moglie di Giuda, riesce a scappare.

In questo caso, però, non è una tegola a cadere sotto il passaggio del governatore Valerio Grato, ma è una freccia scoccata da un ragazzo zelota, al quale Giuda aveva prestato soccorso e rifugio in seguito a uno scontro contro i romani, ai danni di un Ponzio Pilato (Pilou Asbæk) in versione Pacey Witter con la barba.

 

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Ad aggravare il senso di frustrazione di Giuda è il silenzio di Messala.

Ad aggravare il senso di frustrazione di Giuda è il silenzio di Messala (Toby Kebbell), suo fratello adottivo romano con il quale ha condiviso l’infanzia. Il tradimento di Messala, in bilico tra l’amore e l’orgoglio, non costerà la condanna di Giuda a schiavo sulle navi romane ma la vita a Naomi e Tirzah.

Dopo quattro anni di schiavitù, Giuda riesce finalmente a liberarsi grazie a un violentissimo scontro con una nave nemica greca. Naufragato in terra sconosciuta, viene salvato e riportato a Gerusalemme dallo sceicco Ilderim (Morgan Freeman in versione Predator) in cambio di aiuto con i suoi cavalli. Ilderim, infatti, guadagna attraverso le corse di bighe nei circhi romani.

Qui Giuda non solo potrà scoprire cosa sia realmente accaduto alla sua famiglia, ma anche prendersi la meritata giustizia contro Messala.

Partiamo dal presupposto che Ben-Hur è tutto meno che un kolossal e, soprattutto, non è il remake del magnifico film di William Wyler.

Il Ben-Hur di Timur Bekmambetov è un bromance drama, di quelli meno riusciti, frutto di una traduzione dei blockbuster degli ultimi vent’anni. Una contaminazione di tematiche del genere epic, e non solo, proposte in chiave sempre più moderna e supportata da tecnologie avanzate.

Poter adoperare una go-pro su una biga durante l’avvincente gara nel circo o girare in soggettiva la drammatica scena della distruzione della nave romana su cui Giuda è prigioniero, non salvano una pellicola dalla sua mancanza totale di prospettiva, profondità ed emozione.

 

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Nel 1959 Ben-Hur era il frutto di una nuova Hollywood.

Nel 1959 Ben-Hur era il frutto di una nuova Hollywood, volta soprattutto alla spettacolarizzazione del cinema attraverso tutti i suoi mezzi possibili: dalla scenografia alle comparse, dagli effetti speciali alla campagna pubblicitaria. Film dalla sceneggiatura corposa con risultati finali superanti le tre ore di proiezione. Puro intrattenimento di spessore, elemento ormai tralasciato dalla maggior parte delle produzioni, che aveva trovato le sue origini già nei primissimi anni del novecento, non a caso, con il Ben-Hur di Sidney Olcott.

Un anno più tardi arriverà anche Stanley Kubrick con il suo Spartacus interpretato da un giovane e prestante Kirk Douglas (si, il papà del nostro Michael) e Exodus di Otto Preminger con Paul Newman, entrambi scritti da un maestro della sceneggiatura, Dalton Trumbo.

Pellicole immense, pluri-candidate e premiate. Basta semplicemente pensare che Ben-Hur è tra i film col maggior numero di Oscars vinti (undici) mantenendo il record come film unico fino al 1997 con l’arrivo del Titanic di James Cameron, al quale si è poi affiancato nel 2003 Peter Jackson con Il Signore degli Anelli – Il ritorno del Re.

 

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Lo stesso fattore della spettacolarità con Timur Bekmambetov viene meno. C’è una violenta freddezza nelle immagini che scorrono senza riuscire a trasmettere nulla. Un disco rotto che va avanti nel suo giro, senza sapere se qualcuno lo stia realmente ascoltando o meno.

La maestosità delle immagini passa in secondo piano, in particolar modo quando viene ostentato un uso massiccio, e piuttosto inutile, di effetti speciali posticci. Ben-Hur è un continuo gridare al “guarda che posso fare”, senza però riuscire a sfiorare minimamente lo spettatore.

Ben-Hur ci prova. Cerca di entrare in contatto con il suo pubblico. Prova a forzare la mano sulle, così dette, scene strappalacrime, ma rimane solo polvere. Usa un tono solenne quando la vendetta è forte nell’aria, un tono di forte disperazione nei momenti di più cruenta sofferenza e violenza, ma arrivato a metà strada si blocca. Un continuo provare senza mai arrivare.

 

 

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Perfino una sequenza di alta emotività, come può essere la crocifissione di Gesù (Rodrigo Santoro che, ragionando come una quindicenne in piena fase ormonale, è l’unico elemento salvabile) e che, come Mel Gibson ha mostrato con The Passion, riesce a coinvolgere credenti e non credenti, diventa un cliché privo di anima, di solennità e cura dell’immagine.

Timur Bekmambetov gioca moltissimo sulla tematica della fratellanza.

Timur Bekmambetov gioca moltissimo sulla tematica della fratellanza, di questo profondo amore fraterno reso impuro dagli ideali, dalla diversità di due popoli, dal fanatismo del patriottismo, provando perfino a muovere una velata critica nei confronti della società moderna, raschiando la superficie fino all’imbarazzo.

Tutto ciò che rimane sono personaggi usati come marionette. Un ammasso di bicipiti, parole scontate e scene senza senso, dove passiamo da Il Gladiatore e Cast Away, da Pirati dei Caraibi a Titanic, senza disprezzare il recente Hardcore! tanto voluto da Bekmambetov.

 

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Unico vero pregio è la narrazione piuttosto ritmata.

Unico vero pregio è la narrazione piuttosto ritmata. Le due ore di pellicola scorrono, nonostante tutto, piuttosto facilmente. Purtroppo è impossibile, sconvolti e imbarazzati, non restare perplessi dal folle caos entro il quale è prigioniero.

La mancanza più grave del Ben-Hur di Timur Bekmambetov è il rispetto nei confronti di una grande pellicola di cui porta il nome. Definire questa pellicola un remake è un affronto non solo nei confronto di Wyler ma dello stesso cinema. Sfoggio inutile di finanze che, con profonda tristezza, rappresentano l’ombra di una Hollywood non più brillante, povera di idee e di amore per il cinema.

Una Hollywood adagiata da troppi anni sugli allori dei suoi successi e che adesso paga amaramente i suoi sbagli. Ben-Hur è la perfetta sintesi del cinema 2.0. Un cinema che non ama inventarsi, stupire ed emozionare come ha sempre fatto. Un cinema usurato da grandi produttori senza un briciolo di passione per le storie. Un cinema salvato solo dall’indipendente e che ancora è in grado di farci sognare.

 

Ben-Hur sarà in tutte le sale cinematografiche italiane dal 29 Settembre.