Il piccolo John spinse con tutte le sue forze la porta della locanda “La Prua Spezzata”, di fretta, come se la fredda serata invernale lo stesse inseguendo.
Subito dopo essersi chiuso la grande porta di legno dietro le spalle, venne accolto dal calore dei focolari e delle candele sui tavoli legnosi, appiccicati e impregnati d’alcol. Nell’aria calda aleggiavano aromi di spezie, salvia, ramerino e carne cotta, mentre il vociferare delle persone faceva da sottofondo ad un gruppo di musicisti, posizionati sopra una piccola pedana in legno in un angolo della sala, adibita proprio agli artisti.
Sulle pareti rustiche trovavano posto fiaccole e candelabri, stendardi di chissà quale casata e bandiere di luoghi lontani penzolavano dal soffitto e, sulle colonne dell’edificio, alcune mappe ingiallite di qualche compagnia mercantile o di qualche avventuriero, davano il giusto tocco all’ambiente, frequentato di solito da marinai e pescatori.
Il bancone dell’oste era segnato dall’usura e dallo strofinamento dei boccali e degli stracci; dietro di esso, trovavano spazio le botti della birra arrivata da lontano che i clienti sembravano apprezzare; John osservava il locandiere versarla nei boccali, era un liquido molto scuro e schiumoso, e dalle risate dei presenti e dai gesti innaturali che ogni tanto compivano, sembrava proprio essere qualcosa di forte.
La banda stava suonando pezzi allegri e spensierati; la cantante era una donna di quasi quarant’anni, molto bella; aveva la pelle chiara e i capelli rossi, il volto punteggiato di lentiggini e gli occhi verdi. Indossava una camicetta bianca con piccole fantasie ricamate e una gonna verde scura con ricami gialli, non indossava scarpe e batteva i piedi nudi sulla pedana, facendo risuonare i piccoli sonagli e i bracciali che portava ai polsi e alle caviglie. La sua voce e il suo volto, trasportavano i presenti in viaggi immaginari tra isole sconosciute e mari sconfinati e, guardandola, insieme agli altri suoi compagni, si capiva che aveva viaggiato il mondo.
Gli altri tre membri del gruppo erano uomini leggermente più grandi della donna; anche loro indossavano camicie bianche e calzoni scuri, avevano la pelle ricoperta di tatuaggi e i loro capelli, lunghi e neri, erano raccolti da elastici di fortuna e bandane sgualcite. Suonavano una fisarmonica, un violino e due piccoli tamburelli in pelle d’animale e sembravano far divertire anche l’oste, che vedeva entrare sempre più persone nel locale, attratti proprio dalla spensieratezza che trasmetteva quella banda.
I loro testi parlavano di marinai leggendari o ubriaconi e di spedizioni miracolose in angoli di mondo sperduti; i presenti gradivano lo spettacolo a tal punto da accompagnare il ritmo delle ballate, battendo i boccali di legno sui tavoli e pestando i piedi sul suolo come faceva la donna.
John si sentiva a suo agio; il calore della stanza, la giovialità delle persone e la bellezza della cantante, lo avvolsero in un abbraccio immaginario che sembrò portarlo lontano, via da quella città decadente, dal suo quartiere formato da case tutte uguali e annerite dal fumo dei camini, da quelle persone scialbe che non vedevano oltre il proprio naso e disprezzavano casa loro senza rendersi conto che, proprio loro, erano la rovina di quella città un tempo famosa e rispettata da tutto il paese.
Nonostante la giovane età, John sentiva come un malessere interiore nel rimanere segregato in quella città; più pensava alla sua vita qualche anno dopo e più non riusciva a vedersi tutto il giorno al cantiere navale come il padre, e neanche dietro al bancone di una locanda frequentata da persone che, invece, viaggiavano per il mare e vivevano avventure di ogni sorta. Allo stesso tempo non desiderava neanche fare il sottoposto di nessuno ne eseguire gli ordini; più cresceva e più si rendeva conto di somigliare molto alla madre, uno spirito libero che abbandonò tutto, suo figlio compreso, e salpò per chissà dove, rubando una piccola nave nella notte.
Per assurdo, John pensava di poterla raggiungere, di salire su di una barca qualsiasi legata giù al molo, togliere la cima e sparire nel nulla, abbracciando l’orizzonte e seguendo le tracce impercettibili che lasciava nelle lettere che gli spediva. John non biasimava sua madre, fosse stato in lei avrebbe fatto lo stesso; che razza di vita era aspettare ogni giorno il proprio marito che, una volta a casa, non salutava neanche e se ne andava a bere per tornare poi a tarda notte ubriaco fradicio? No! c’era di meglio nella vita, c’era un mondo da scoprire, avventure da vivere, e l’unica cosa che forse rimproverava alla madre, era di non averlo portato con se.
D’un tratto, i musicisti si fermarono, facendo continuare solo il violino che, con un miscuglio di leggerezza e malinconia, attaccò una melodia lenta; tutta la locanda tacque, i presenti lasciarono i boccali e fermando i piedi, mentre la donna si sedette su un piccolo panchetto appena sotto la pedana, come se volesse arrivare dritta al cuore di tutti quelli che aveva davanti e colmare la distanza tra l’artista e il pubblico. Fece una piccola carezza a John che si era seduto per terra proprio davanti a lei, facendolo un po’ arrossire; gli sorrise leggermente e iniziò ad intonare una canzone dolce e malinconica allo stesso tempo
Siedi con me vicino al fuoco
ti racconterò delle terre oltre il mare
delle morbide onde che accompagnano la barca a riva
e del dolce vento che ti accarezza i capelli
la dura vita ci ha allontanati ma un giorno torneremo a casa
torneremo a casa attraversando le montagne
Siedi con me vicino al fuoco
ti racconterò delle terre oltre il mare
dei tramonti arancioni che colorano i tetti
e delle spighe di grano cullate dal vento
la dura vita ci ha allontanati ma un giorno torneremo a casa
torneremo a casa attraversando il mare
La donna cantava con gli occhi lucidi; i presenti si emozionarono, le donne abbracciavano i propri uomini, altri si sentirono come una ferita interiore guardando la città in rovina fuori dalla finestra.
John non trattene le lacrime, quella canzone era troppo familiare, troppo vicina al suo cuore; mentre la donna continuava a cantare, ripensò al passato, a quella figura femminile sbiadita che, nonostante tutto, non gli fece mai mancare la sua premurosità. Il ragazzino continuò a ripetersi il testo della canzone nella mente, pensò a casa sua, a suo padre; il focolare della locanda lo catapultò, con la mente, vicino al fuoco del suo camino sentendo, come se fosse reale, l’abbraccio della madre e quella melodia che aleggiava nella stanza; sentì il calore della pelliccia con cui lo avvolgeva nelle notti d’inverno gelide proprio come quel giorno. D’improvviso si alzò in piedi e poggiò le mani sulle ginocchia della donna che lo guardò e senza dire niente lo avvolse tra le sue braccia
<<Ciao John..>> sussurrò mentre tutti i presenti seguirono la scena ammutoliti
<<M..mamma?!>> domandò stordito e non del tutto sicuro del suo tuffo nel passato>>
<<Sì John..sono qui..>> rispose lei sempre a bassa voce, col suo solito ed unico tono dolce e lieve.
Lo scese dal suo grembo e lo tenne per mano, e con uno sguardo gli fece capire di inchinarsi davanti ai presenti che, ancora in lacrime, applaudirono rumorosamente insieme all’oste che sembrava già sapere tutta la storia
<<Andiamo via, ti va?>> Chiese la donna dopo aver baciato la guancia di suo figlio
<<Sì, il più lontano possibile>> rispose lui sorridendo mentre il violinista gli adagiò una bandana nera sul capo
Il gruppo, scese dal palco portandosi dietro l’attrezzatura e il nuovo giovane membro; uscirono dal retro della locanda, nonostante i presenti li fermassero per ringraziarli; l’oste sorrise alla donna e le strizzò l’occhio poco prima di chiudersi la porta dietro le spalle. Avvolti nelle loro giacche e sciarpe di fortuna, attraversarono le viuzze del molo, con la bruma che proteggeva la loro felice fuga verso un barcone a vela che, qualche ora più tardi, era già lontano all’orizzonte, per raggiungere le terre oltre il mare.