Candidato a sei Oscars, tra cui miglior film e miglior sceneggiatura originale, e presentato fuori concorso alla 72esima Mostra internazionale del Cinema di Venezia, Il Caso Spotlight di Tom McCartthy narra le vicende venuta a galla in seguito a un’inchiesta condotta da un gruppo speciale di giornalisti del quotidiano The Boston Globe. L’inchiesta, capeggiata da Walter Robinson, vinse il premio Pulitzer nel 2003.
Crediamo sempre che i nostri figli possano essere al sicuro e che qualcosa di così abominevole come la violenza sessuale non possa mai capitare a loro. Il Caso Spotlight, invece, fa breccia proprio su questo aspetto delicato della vita, e sulla casualità con la quale avvenimenti come questi possano accadere a chiunque, distruggendogli eternamente l’esistenza. Ciò che più di marcio c’è in questa storia è il coinvolgimento totale di centinaia di sacerdoti, pedofili che per anni hanno fatto i loro comodi a discapito di bambini fragili su cui gravava il senso di colpa e la vergogna, coperti da piani più alti della Chiesa quando le prime denuncie sono iniziate a fioccare.
Il Caso Spotlight parte proprio dalla prima denuncia. È il 1976 e nella città di Boston una denuncia di molestie a carico di un prete è fonte principale di un silenzioso trambusto nella centrale di polizia. Eppure basta un avvocato, un cardinale molto potente, e tutto viene insabbiato alla velocità della luce. Il prete verrà successivamente congedato. Causa? Malattia.
È il 2001, quando il The Boston Globe si appresta ad accogliere il suo nuovo Direttore, Marty Baron (Liev Schreiber). Baron viene da Miami è ha le idee molto chiare. Un trafiletto coglie la sua attenzione. Una denuncia a carico di un prete di mesi prima, eppure nessuno ne parla. Affida l’indagine al team Spotlight composto dal caporedattore Walter “Robby” Robinson (Michael Keaton), i cronisti Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) e Michael Rezendes (Mark Ruffalo) e lo specialista in ricerche informatiche Matt Carroll (Brian d’Arcy James).
L’avvocato delle vittime, quasi tutti bambini appartenenti a famiglie in grosse difficoltà o i pochi coraggiosi che dopo anni sono riusciti a parlare, Mitchell Garabedian (Stanley Tucci), mette di fronte agli occhi dei cronisti, in particolar modo a Michael, una realtà agghiacciante, destinata a farsi sempre più torbida e grottesca.
Non solo il numero dei preti accusati di pedofilia è allarmante e in continua crescita, a tal punto da ritenersi clinico, ma la maggior parte di loro viene semplice trasferita o congedata con la scusa di malattia, dando un mero risarcimento monetario alle famiglie delle vittime.
La lotta che il Team Spotlight deve affrontare è estrema, in bilico tra moralità, religione e apparenze. La loro inchiesta non solo porterà alla luce oltre 240 preti coinvolti, oltre 200 Paesi del mondo in cui questi casi sono all’ordine del giorno, ma soprattutto la corruzione che dalla Chiesta passa per il governo, arrivando a nascondere e far sparire documenti di dominio pubblico.
Ne Il Caso Spotlight la religione centra poco e nulla. Quella dei giornalisti non è un’accusa alla fede cattolica, ma bensì a quelle personalità che invece di difendere la fede la rubano senza alcuna pietà.
Quando un prete ti fa questo, ti ruba la fede.
Tom McCarthy fa un lavoro straordinario con i personaggi, in particolar modo nei momenti di confronto con le vittime. Uomini e donne, bambini a cui è stato negato il diritto più grande: quello dell’innocenza e dell’infanzia. Nei silenzi è facile leggere l’orrore, la paura e il radicato senso di vergogna che non abbandona queste vittime. Vergogna con la quale ci troviamo a fare i conti ancora oggi, quando i media annunciano il ritrovamento di materiale pornografico nelle sacrestie, in quegli stessi luoghi in cui viene fatto catechismo, in cui i bambini cantano e fanno festa la domenica (che già di per sé è inquietante).
Ciò che viene meno non è la fede, quanto il riuscire a porre rispetto, a credere in una figura istituzionale come la Chiesa. Al di là della pedofilia, Il Caso Spotlight, come Keaton ha occasione di affermare nella conferenza stampa romana, è la voce di quelle realtà silenziose e nascoste. Realtà insabbiate dai potenti, ma che devono essere portate alla luce del sole.
Il taglio tecnico che McCarthy decide di dare alla pellicola è puramente d’inchiesta. Si avvicina al lavoro dei giornalisti stessi, trasmettendolo con la narrazione dei fatti e trasportando lo spettatore nella scoperta e nella ricerca, come se fosse un membro dello stesso team. In questo senso il realismo è al massimo.
Lo spettatore scopre “in tempo reale” gli stessi dati e avvenimenti dei giornalisti. Soffre e si sorprende con loro. Sente la rabbia e l’angoscia, l’impotenza di non aver potuto fare nulla prima. McCarthy gioca moltissimo con l’empatia e l’emozioni che una storia come questa, reale, può suscitare. Ed è proprio per questo che decide di dare un taglio più grezzo, forse un po’ complesso da seguire e meno spettacolare come i recenti film d’inchiesta, ad esempio Truth di James Vanderbitt con Cate Blancett (in uscita nelle sale italiane dal 17 Marzo).
Nonostante lo scorrere didascalico della narrazione, appunto necessario per colpire ma senza sfruttare commercialmente la tematica o cadere nel ricatto sentimentale, Il Caso Spotlight funziona.
È un film rivelatore con una valenza mediatica imponente. La diffusione di queste storie è fondamentale per il messaggio che esse vogliono portare, ovvero far si che vicende di questo genere possano essere ridotte sempre più all’osso fino alla loro estinzione.
Tutto il cast è sopra le righe, dall’inizio alla fine. Mark Ruffalo è quello che sa distinguersi più di tutti, meritando assolutamente la nomination all’Oscar. Il suo personaggio è determinato, disgustato dalla società e deciso a cambiarla a discapito della sua stessa vita personale. È un uomo molto fragile, che sa trovare la sua strada unicamente nel lavoro, in casi a limite come questo.
Keaton, sebbene messo in ombra da Ruffalo, è la voce del gruppo, colui da cui parte tutto. Capo silenzioso, dalla figura importante. Il suo personaggio va compreso per quello che è: un uomo da tutti rispettato, ma che per un bene superiore mette a pericolo la sua stessa carriera. Grezzo, ma indubbiamente imponente, con ancora alle spalle l’esperienza di Birdman che, forse, lo ha lasciato con un po’ di puzza sotto il naso nei confronti dei suoi film precedenti. “Robby” prende coscienza della sua stessa fallibilità, più di tutti gli altri, il senso di colpa lo manda ancora più avanti. Citando quello che il vero Walter Robinson ha detto durante la conferenza di presentazione a Roma:
Se non sono i giornalisti a dare voce a queste storie, chi altro lo farà?
Il Caso Spotlight è anche questo: una storia di eroi, una storia di giornalisti, che nel loro piccolo hanno tentato di rendere il mondo un posto migliore, mascherando una delle più grandi e potenti istituzioni al mondo: la Chiesa.
Il diritto di sapere è ciò che fa la differenza in storie come questa. Il diritto di portare alla luce del sole avvenimenti di cronaca che, purtroppo, ancora oggi sono una feroce piaga sociale. Tom McCarthy con Il Caso Spotlight si mostra essere tanto coraggioso quanto i giornalisti protagonisti di questa inchiesta, usando il cinema come mezzo di comunicazione e diffusione.
Il Caso Spotlight è un film che va visto per ciò che racconta, e per la reale ferocia con cui lo fa.
Il Caso Spotlight vi aspetta al cinema dal 18 Febbraio.