Grand Budapest Hotel di Wes Anderson

Grand Budapest Hotel

Quello di questa settimana è un MustSee molto must. Titolo imperdibile che ha folgorato la stagione cinematografica di due anni fa. Protagonista degli scorsi Oscars con ben nove nomination, di cui quattro vinte, Grand Budapest Hotel di Wes Anderson è senza ombra di dubbio una delle pellicole più must che il panorama della cinematografia contemporanea abbia da offrirci.

In questo caso si può tranquillamente azzardare col dire che il genio che supera se stesso; o forse, meglio ancora, il genio arriva all’apice della sua massima espressione. Wes Anderson concentra in Grand Budapest Hotel tutta la sua filosofia e amore per l’arte cinematografica, dando con la sua regia quella vera intenzione da artigiano del cinema.

Grand Budapest Hotel, pellicola di 100 minuti, è ispirato ai racconti dello scrittore austriaco, vissuto nella prima metà del novecento, Stefan Zweig, che ritorna all’interno della narrazione in diverse citazioni.

La grande forza di Grand Budapest Hotel, che sorprese tutti due anni fa e continua a sorprendere tuttora, risiede nella capacità di catturare qualsiasi tipo di spettatore, travolgendolo dall’inizio alla fine. Certo, il carisma dei personaggi supera di gran lunga la forza della storia che, per gli amanti delle trame belle forti e decise, risulterà un po’ troppo contorta e con qualche falla qui e là.

Eppure Wes Anderson riesce a districarsi molto bene in queste piccole imperfezioni di struttura, facendo risultare la narrazione piacevole e molto scorrevole, soprattutto grazie ai dialoghi ritmati e brillanti, con quel tipico pizzico di ironia americana mascherata con una posticcia, ma perfetta, galanteria inglese.

 

Grand Budapest Hotel

Vedete, ci sono ancora deboli barlumi di civiltà lasciati in questo mattatoio barbaro che una volta era conosciuto come umanità. Infatti è quello che abbiamo a disposizione nel nostro modesto, umile, insignificante… oh, fanculo.

 

 

Indubbiamente Grand Budapest Hotel può definirsi l’opera migliore del regista statunitense

Indubbiamente Grand Budapest Hotel può definirsi l’opera migliore del regista statunitense perché somma massima del suo cinema e delle sue manie simmetriche. Ripercorrendo la carriera di questo eclettico e spilungone (lo si dice con simpatia e carineria) regista, partendo dal 1998 con Rushmore – senza però dimenticarci il precedente, ma di poco successo e conoscenza, Un colpo da dilettanti – è possibile già notare quanto l’estetismo di Anderson è ancora molto grezzo e privo di forme.

Sebbene l’intento già ci sia, i veri e primi risultati si inizieranno a vedere con una delle sue pellicole più cult, I Tenenbaum – dove gli attori feticcio di Anderson prenderanno una loro consistenza in ruoli sempre più definiti-, percorrendo la drittissima strada che andrà sempre più a confluire nella totale e maniacale ossessione per le forme geometriche e la simmetria dell’immagine, convergendo nella tenera commedia romantica Moonrise Kingdom.

Sulla visione velocissima di questo piccolo quadro, impossibile è non definire Grand Budapest Hotel come il raggiungimento della perfezione assoluta nella tecnica registica di Anderson.

Una maniacale cura dei dettagli che fa di Anderson un maestro dell’immagine. Le sue scene sono dei veri e propri quadri, quasi sempre dal tocco pastello e malizioso, perfettamente in tono con i costumi dei personaggi.

In questo ad aiutare il tocco della mano di Wes Anderson ci sono gli scenografi Stockhausen e Pinnock oltre che la celebre costumista italiana Milena Canonero, entrambi settori vincitori di un meritatissimo Oscar. A coordinare colori, costumi e sequenze c’è la colonna sonora, perfettamente sincronizzata con ogni scena. Lo stato d’animo dei suoi personaggi viene interpretato dal crescendo della melodia che quasi ci sbalza dentro ognuno di loro. Ci possiamo sentire innamorati, feriti, arrabbiati, provare felicità e dolore. Ogni tocco, climax o colpo di scena viene enfatizzato dalle note accuratamente scelte da Anderson con la supervisione del Premio Oscar Alexandre Desplat.

 

 

Grand Budapest Hotel

 

 

La “malattia” di Anderson parte dalla sua stessa sceneggiatura, facendosi sentire anche nell’attenzione della traduzione, come per esempio nomi verosimili come “Lobby Boy” è stato espressamente cambiato dal regista, assieme a un team scelto di traduttori della 20th Century Fox, con “Garzoncello”, onde evitare che il termine “lobby” rimandasse al significato sbagliato. Questo si fa sentire anche molto nel doppiaggio, curato e preciso, sebbene in lingua originale il film abbia decisamente una marcia in più!

Piccole chicche si posso anche trovare in fase di post produzione

Piccole chicche si posso anche trovare in fase di post produzione, come differenziare presente e passato sia per grana che per dimensione dello schermo, quindi passando da 16:9 ai 4:3, o dare un senso più onirico alle scene più intime. In questo non manca neanche l’attenzione per il periodo storico della storia, che costringe Wes Anderson – attenzione, questo è un dettaglio per veri ossessionati – a non usare il suo tanto amato Futura, font presente in quasi ogni sua pellicola.

 

 

Grand Budapest Hotel

 

 

Lo stile quasi cartoonistico intrapreso da Wes Anderson da un paio d’anni a questa parte

Lo stile quasi cartoonistico intrapreso da Wes Anderson da un paio d’anni a questa parte, si affina ancora di più in Grand Budapest Hotel. A volte le figure sembrano essere sagome che spariscono nell’orizzonte di ambienti immensi, attraverso l’uso di focali piattissime. Non solo la natura inghiotta i personaggi ma anche gli stessi ambienti che essi popolano. Basti pensare allo scenario principale di tutto il film, il Grand Budapest, immenso e maestoso palazzo rinascimentale che risucchia le sue figure in sé, facendolo diventare parte della sua stessa struttura.

Questo stile però più vivace non condanna certo il film, o i suoi predecessori, a essere opere per un pubblico infantile. Tutt’altro, Anderson ama, ed in questo film in particolar modo, aggiungere sempre un tocco di malizia ai suoi personaggi ed anche una lieve rabbia di fondo. I colori, le geometrie e le forme vengono quasi sempre contrastate dagli intenti di alcuni di questi, ma non solo.

È pur sempre un mondo quello che viene raccontato, parte del mondo che noi viviamo, in una chiave semplicemente più rivisitata del solito. Il finale agrodolce ne è quasi sempre un campanello d’allarme bello presente, sottolineando il tono drammatico del film. Sfido io chiunque, anche i cuori più di pietra,  a riuscire a trattenere anche solo una lieve lacrimuccia sul finale.

Personaggi che si fanno amare, ma anche odiare. Inquietanti e grotteschi a modo loro, come quelli interpretati da Adrien Brody (Dmitri Desgoffe) e Willem Dafoe (J.G. Jopling), ma anche personaggi in bilico tra l’austero ed il dolce, cosa che vale per Edward Norton (l’ispettore Henckels), il quale sembra quasi interpretare una simil copia del capo scout Randy Ward.

Ovviamente non mancano attori feticcio come l’onnipresente Bill Murray, Owen Wilson e Jason Schwartzman. Ma a conquistare i cuori di tutti sono, indubbiamente, Monsieur Gustave (Ralph Fiennies) e il suo lobby boy, Zero (Tony Revolori), che ci divertiamo a seguire nelle loro mille disavventure.

 

 

Grand Budapest Hotel
Scordatevi i tempi morti (forse la lezione del precedente Moonrise Kingdom sarà servita) e rilassatevi. Le risate sono assicurate per tutti.

Assolutamente consigliato a chiunque abbia voglia di un bel film non troppo pesante, ma che comunque gli lasci qualcosa dentro e super consigliato agli amanti ed appassionati di Wes Anderson.

Grand Budapest Hotel è assolutamente il film perfetto per i suoi fan.

 

 

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