Nella mia vita, che ad oggi conta poco più di duemila estati, ne ho viste parecchie. La mia famiglia e la mia casata non capirono mai il perchè preferii la scrittura e le ballate alla spada e all’arco, come non hanno compreso tutti quelli che fino ad oggi mi hanno incontrato e sgranato gli occhi al sapere che sono un elfo e che ho deciso di fare il bardo viandante.
Ma d’altro canto, chi se non un elfo può vivere talmente a lungo da poter raccontare più storie e avvenimenti? Ecco perché imparai le sacre arti della musica e dei canti, della scrittura e della lettura; certo in duemilatrenta anni di vita ho preso anche qualche lezioncina di spada, sia mai che qualche brigante mi volesse rubare le già poche monete che mi ritrovo in tasca o che mi distrugga in mille pezzi il mio adorato liuto, in quel caso diventerei più pericoloso di un troll affamato, anche se ho sempre prediletto il dialogo alla violenza.
Il mio nome è Felvion e giro il mondo ormai da cinquant’anni; sono stato ospite di tutte le casate elfiche esistenti, gli umani mi adorano e io adoro loro nonostante mi scambiano sempre per una donna e vogliano sentire solo ballate per danzare tra un corno di birra e l’altro. Sono stato anche ospite di alcune famiglie nanesche nonostante non corra buon sangue tra le nostre razze, ma si sono sempre rivelati gentili e generosi nei miei confronti, tanto da aver voluto scrivere qualche brano per i loro sovrani, cocciuti come muli e coraggiosi come draghi.
Sono stato anche catturato una decina di volte: ho rosolato per qualche minuto nel pentolone di un troll, sono stato acchiappato con una rete da quei maledetti e puzzolenti goblin e, per mia fortuna dico io, ho anche conosciuto delle tribù orchesche a cui non interessa la guerra ma vogliono solo vivere in pace.
Sapevate che in alcuni angoli di mondo, orchi e uomini hanno stretto solide alleanze e convivono pacificamente; e che ci sono degli elfi nelle isole del nord che non sono biondi come noi ma hanno i capelli neri come i corvi e solcano i mari in cerca di nuove terre? Potrei stare giorni interi a raccontarvi tutto quello che ho visto in questi cinquant’anni di pellegrinaggio; ma quello che voglio portare alla vostra attenzione oggi è di come abbia capito il vero significato della parola coraggio; sedetevi vicino al fuoco e ascoltatemi.
Non vi parlerò di nani che combattono nonostante drammatiche inferiorità numeriche, quegli ometti barbuti nascono col coraggio nelle vene, gli Dei gli estrassero dalle montagne e crebbero quindi stoici e impavidi ed elogiare le loro gesta non è quello che voglio fare questa notte. E non vi parlerò neanche dei miei adorati elfi, delle loro case sugli alberi, dei loro inni intonati sotto le stelle, delle loro poesie e delle loro schiere scintillanti che fanno fuggire i servi dell’oscurità.
Vi parlerò invece degli uomini, la razza meno longeva, la più influenzabile, la più soggetta al cambiamento e al desiderio, quella che commette più errori; ma anche quella che riesce a redimersi, a rialzarsi e a riscattarsi. Posso dire che in tutto il mio viaggiare non ho mai visto una forza di volontà come quella degli uomini di cui vi narrerò, uomini sprezzanti del pericolo e della morte, devoti a qualcosa di superiore, qualcosa a cui sentivano di appartenere e a cui hanno donato la propria vita; prestatemi orecchio uomini, e siate fieri dei vostri simili.
Accadde tutto dieci anni fa, quando mi ritrovai a vagare per le terre centrali del Regno della Valle, il reame più prospero degli uomini. Offrii i miei servigi come menestrello e consigliere di corte a Re Broag il possente, un re magnanimo con gli amici e senza pietà coi nemici; in trent’anni di trono aveva ricacciato nell’abisso qualsiasi minaccia gli si fosse parata davanti rendendo sicure perfino le pericolose frontiere del sud, confinanti con le terre del fuoco dove i demoni grigi, creature devote al male, trovavano dimora.
Esibendomi nelle locande della città e davanti a sua maestà, fui spesso a stretto contatto con i soldati del regno; ogni reparto aveva la sua personalità, i suoi elementi di spicco e il proprio modo di esprimersi: gli spadaccini e i lancieri erano soliti far festa e baccano assieme, vantandosi delle loro gesta eroiche e mostrando le ferite; gli arcieri invece di solito se ne stavano ai piani superiori delle locande, in silenzio quasi di vedetta anche durante il congedo.
Ma chi mi rimase impresso fu un gruppo di cavalieri che preferivano stare in disparte negli angoli delle locande; l’oste di solito riservava loro un trattamento migliore e venivano sempre serviti per primi. Subito pensai ad un gruppo di comandanti o di nobili che non volevano certo mischiarsi con le comuni milizie; quello che scoprii in seguito però era del tutto diverso dai miei pregiudizi; quegli uomini erano Cavalieri Aquila, il corpo militare d’élite della Valle. L’oste mi spiegò che stavano solamente tra di loro poiché solo tra loro potevano capirsi, avevano visto orrori di ogni tipo e passato un’esistenza di devozione verso la guerra e il combattimento, certo anche gli altri soldati avevano combattuto numerose battaglie, ma non come loro; la Compagnia delle Aquile veniva inviata anche in soccorso degli alleati, avevano affrontato il male in ogni angolo di mondo sempre con la loro devozione verso il re e la propria terra; vedendoli, davano l’idea di eroi romantici e decadenti che suscitavano un profondo rispetto.
Non vi era bisogno di essere benestanti o di nobili lignaggi per entrare a far parte della Compagnia delle Aquile; il corpo accettava solo chi fosse volenteroso di difendere la propria patria, chi era letteralmente innamorato della Valle, del suo sovrano e dello stendardo che rappresentava, era l’addestramento poi, a far rinunciare la maggior parte degli aspiranti, in modo che, alla fine della formazione, soltanto i più forti e determinati avrebbero indossato l’elmo argenteo dell’aquila.
Re Broag mi raccontò di come, per millenni, i Cavalieri Aquila debellarono qualsiasi minaccia per il regno; di come cinquecento di loro difesero Dalnum, la capitale, dall’invasione degli orchi dell’est e di come altri cinquemila cavalieri schiacciarono ventimila orchi aprendo la strada all’esercito della Valle. Fui subito colpito da queste storie e, di conseguenza, iniziai a raccogliere tutto quello che mi serviva per comporre una nuova ballata. E fu proprio una sera alla taverna frequentata dai Cavalieri Aquila che uno di loro mi si avvicinò curioso di quello che stavo scrivendo
<<Tsk! noi siamo molto più belli di come ci descrivi!>> esordì sorridendo, era un giovane alto, di bell’aspetto con la barba lunga e curata; aveva i capelli lunghi e castani che ricadevano sulla sua tunica bluastra e argentea, i colori della Compagnia delle Aquile.
Si presentò a me con il nome di Bregon e solo dopo venni a sapere che era l’erede al comando della compagnia e che, nonostante le ancora poche primavere trascorse, si era già distinto più di una volta in battaglia. Mi propose di stare con loro, presenziare agli addestramenti e magari, un giorno, anche seguirli sul campo.
<<Più tempo passerai con noi, meglio racconterai le nostre gesta>> mi diceva sempre sorridente.
Erano uomini pieni di sé e altezzosi, ma solo fra di loro, Bregon mi spiegò che serviva anche per alleggerirsi un po’ l’esistenza; tra un addestramento e l’altro gareggiavano a chi avesse ucciso più nemici nelle numerose battaglie, a chi aveva più cicatrici, certe volte mi rimembravano i fanti alle locande che volevano mostrarsi forti davanti alle giovani donzelle con la differenza che, appena usciti dalla loro gendarmeria fuori le mura, ritornavano quei guerrieri silenti dagli occhi vitrei suscitando rispetto e timore allo stesso tempo; in molti dicevano che quando partivano per la guerra, sembravano armature inanimate senza un essere umano che le indossasse.
Un giorno, alte colonne fiammeggianti si innalzarono dai confini a sud; le sentinelle portarono la notizia che i demoni grigi riuscirono a svegliarsi dal loro letargo forzato e che invasero il Regno della Valle distruggendo i primi villaggi; vana fu la resistenza delle milizie locali e Re Broag ordinò alla Compagnia delle Aquile di andare a difendere i confini come in passato.
Ricordo la frustrazione e la paura del popolo in quei giorni, ma quando fu il momento della partenza dei Cavalieri Aquila, tutta la città di Dalnum si riversò sulle colline fuori città per porgere il doveroso saluto alla compagnia; era un rito che si manifestava ogni qualvolta il regno scendeva in guerra, e lo spettacolo era toccante: tutti i cittadini impugnavano un fazzoletto blu e argento che sventolavano in aria inneggiando i cavalieri al grido di
<< Aquile! Aquile!>> e da dietro le mura, improvvisamente, spuntò la compagnia in tutto il suo splendore: gli stendardi bluastri e argentei garrivano al vento mentre i raggi solari riflettevano sui loro elmi splendenti e il capitano innalzò il pugno destro al cielo in segno di saluto, dopo esserselo battuto sul cuore.
Era norma che i cittadini donassero il proprio fazzoletto al proprio caro che partiva per la guerra, egli lo avrebbe restituito al suo ritorno, se il campo di battaglia lo avesse lasciato tornare indietro. Anch’io dunque mi precipitai ai piedi della collina per donarlo a Bregon. Lo cercai ma fu lui a trovarmi.
<<Elfo! Amico mio! Allora? Siamo più belli di come ci descrivevi?>> disse con quel sorriso che ormai avevo imparato a conoscere
<<Dimmi Bregon, perché vi chiamate Cavalieri Aquila?>> chiesi speranzoso nella sua rivelazione
<<Aspetta e vedrai, ci rivedremo al mio ritorno>> si limitò a dirmi il giovane
Gli sorrisi e tornai sulla collina, e quando Bregon fu al fianco del suo capitano, partirono al galoppo provocando uno grido nell’aria proprio come quello di un’aquila lasciandomi a bocca aperta.
Tornarono qualche settimana dopo, sporchi, con le corazze ammaccate e con tante salme al seguito; il loro splendore era sparito e in quel momento sembravano solamente un’accozzaglia di ferro e sangue rappreso. Bregon mi porse il fazzoletto senza mai perdere il sorriso, ma negli occhi gli si leggeva un enorme sofferenza; di sfuggita udii un cavaliere chiamarlo capitano, compresi che quel ragazzo di sole ventidue estati era diventato comandante in mezzo alla battaglia, portandosi a casa la consapevolezza di aver vinto ma anche l’onta di riportare indietro così pochi compagni.
Nei giorni e nei mesi a seguire, il carattere del giovane comandante fu ancora più tetro ed oscuro; si aggirava per la gendarmeria intento a svolgere il suo compito di capitano ma si poteva capire il suo stato d’animo. In cuor suo pensava di aver fallito e come lui, i suoi cavalieri, che avrebbero preferito morire anziché tornare e portare cattive novelle.
Due anni dopo, i demoni grigi avevano creato un’armata pronta per distruggere il mondo degli uomini; dalle colline potevamo vedere i raggi fiammeggianti incendiare l’aria e le ombre delle loro corna giganteggiare nella Valle. Il regno si mosse per la guerra e anch’io non feci eccezione; il re, che per l’occasione sarebbe sceso in campo anch’egli, mi volle presente allo scontro finale per lasciare prova scritta di quell’avvenimento che aspirava ad essere eterno.
Presi posto insieme alla Compagnia delle Aquile, cavalcavamo veloci come il vento, portando su tutto il regno il grido dell’aquila che le corazze dei cavalieri producevano raggiunta una certa velocità a cavallo; al nostro passare, qualche contadino usciva fuori dai nascondigli chiedendoci aiuto, scovavamo anche qualche demone che subito veniva ucciso o portato al cospetto di Bregon che, parlando la loro lingua, gli torturava e interrogava. Le loro parole erano oscure e gutturali, cupe, piena di lettere dure e secche, non mi meravigliai che quei luoghi e forse anche la lingua stessa del nemico, cambiassero le mentalità degli uomini.
Non provai mai compassione per quelle creature; nei miei lunghi viaggi mi era capitato di risparmiare goblin, orchi e ladruncoli, ma mai riuscii a trovare qualcosa di buono in quelle bestie partorite dall’odio; avevano la pelle spessa e grigiastra, denti aguzzi e occhi neri senza pupille e le loro corna ricordavano vagamente quelle dei caprioli; gli arti anteriori e le muscolature del busto e del torso erano umane, ma al posto delle gambe avevano zampe da caprone e gli zoccoli al posto dei piedi; potevano correre velocemente e alcuni di loro avanzavano a quattro zampe, di solito indossavano armature color rame e impugnavano scimitarre seghettate o alabarde smaltate di color cremisi ed emettevano versi immondi da far ribollire il sangue.
Le terre a sud erano aride e cupe, il terreno si sgretolava al camminarci sopra e gli alberi, quei pochi ancora in piedi, erano bruciati e anneriti dal fuoco che fuoriusciva dalle spaccature del terreno, dove i demoni scavavano le proprie tane. L’aria era intrisa dall’odore di zolfo e di gas sulfureo, i campi erano tempestati di corpi carbonizzati e carcasse di animali sventrati, all’orizzonte invece il nulla offuscato da una coltre di fumo giallo ocra metteva ancora più in soggezione; voltandomi ogni tanto, potevo vedere da lontano la fanteria che si muoveva lenta e impaurita cercando di scovare le merlature delle torri di Dalnum per prendere coraggio.
L’esercito avanzava compatto e silenzioso; arrivati davanti ad una valle rinsecchita e spoglia, si posizionarono in formazione, la zona era perfetta per combattere, la pianura infatti era circondata da alcuni promontori ideali per gli attacchi a distanza e la ritirata.
I lancieri presero posto in prima linea con le loro aste nere e il loro passo cadenzato e pesante; seguivano gli spadaccini con i loro grandi scudi mentre, sul promontorio dietro di loro, gli arcieri posizionarono le baliste e le catapulte. Io seguii i Cavalieri Aquila che, impassibili e ormai abituati a quel luogo inospitale, si nascosero alla vista dietro l’altura, all’ombra delle macchine da guerra.
Il silenzio tagliava la vallata, gli uomini cozzavano le proprie armature tra di loro e un vento caldo e maleodorante muoveva leggermente gli stendardi. Re Broag stava sopra il suo carro da battaglia in attesa, ogni tanto incrociava lo sguardo di qualche soldato cercando di trasmettergli tranquillità e fiducia, il portastendardo al suo fianco guardava l’orizzonte senza batter ciglio ma si notava quanto fosse nervoso, il suo sovrano gli posò la mano sul braccio e lo calmò.
Io guardavo i Cavalieri Aquila sempre più silenziosi e impassibili, Bregon inspirava l’aria e tastava il terreno, gli altri controllavano gli armamenti e tranquillizzavano i cavalli, l’attesa era snervante, quasi più spaventosa della battaglia imminente. Ad un tratto, quando nessuno se lo aspettava, un colpo di tamburo risuonò nell’aria facendo quasi tremare la terra. Ruggiti e grida immonde riempirono la vallata e da una coltre di polvere giallastra spuntò l’avanguardia demoniaca; alcuni suoni lugubri risuonarono insieme al tamburo e dall’orizzonte apparirono troll, giganti e dragonidi sputa fuoco. I loro guerrieri avanzarono caoticamente verso l’esercito umano, re Broag ordinò il lancio dei dardi e il sole, già velato dalle nuvole ocra, venne oscurato da nugoli di frecce e arpioni che si schiantarono sulle prime linee avversarie. Le orde demoniache aumentarono il loro passo, alcuni di loro si chinarono per avanzare sulle quattro zampe e schiantarsi sulla prima linea dei lancieri della Valle che vennero sollevati da terra e scaraventati lontano mentre alcuni riuscirono ad infilzare i propri avversari e resistere all’urto.
Intanto le frecce e gli arpioni continuarono a volare in aria per poi schiantarsi sulle legioni di demoni che si riversavano nella valle sempre più feroci e assetati di sangue; alcuni troll caddero trafitti dalle baliste o colpiti a morte dalle catapulte, mentre i giganti scagliarono dei massi enormi distruggendo gran parte dell’artiglieria e dimezzando i battaglioni d’arcieri che, nel panico, abbandonarono le postazioni lasciando sguarnita l’altura. Tutta la fanteria nemica intanto si era schiantata sulle linee umane attuando il piano di re Broag che partì alla carica con la sua truppa di carri da guerra aggirando il proprio esercito e colpendo il nemico alle spalle. Un soldato a bordo di un carro, sventolò un piccolo stendardo raffigurante un’aquila dando il segnale a Bregon. Il capitano indossò l’elmo sorridendo, come per dare uno schiaffo in pieno volto a ciò che stava accadendo; ordinò ai suoi uomini di prepararsi, mi guardò e tirò fuori una chiave da una piccola bisaccia
<<Dobbiamo salutarci caro amico elfo! ti dono la chiave della mia stanza, lì potrai trovare documenti e scartoffie varie che potranno servirti per i tuoi scritti. Noi Cavalieri Aquila non supereremo la giornata. Quando la situazione sarà drastica, ti consiglio di andartene e tornare a Dalnum>> sorrise un ultima volta e partì al galoppo seguito dalla sua schiera mentre io, rimasto folgorato da quelle parole e cercando di trattenere le lacrime, decisi di spostarmi in una piccola duna dove potei vedere il consumarsi dello scontro.
I carri di re Broag ararono la vallata squartando e schiacciando tutti i nemici al loro cammino, ma dall’altura da cui l’esercito demoniaco spuntò, calarono le bestie draconiche, sauri di color rosso con corna e denti aguzzi che sputavano fuoco, i loro artigli lasciavano solchi profondi nel terreno ed esso tremava spaventosamente al loro passaggio. Caricarono i carri della Valle sul fianco ribaltandoli e squartando i loro conducenti, re Broag riuscì a schivare l’impatto e ne trafisse uno in pieno volto con la sua lancia, e quando le bestie sputa fuoco continuarono a riversarsi nella valle, dall’altura scesero i Cavalieri Aquila. Potei scorgere Bregon sfoderare la sua spada che rifletté un bagliore bluastro, come un barlume di speranza tra tanta oscurità; il grido dell’aquila risuonò sul campo facendo fuggire la fanteria nemica; alcuni cavalieri lanciarono i loro giavellotti trafiggendo i sauri, Bregon calò la sua lama contro uno di essi facendo schizzare fiotti di sangue e fiamme fin quasi al cielo; potevo vedere le loro armature scintillanti macchiarsi del sangue scuro del nemico; le bestie sputa fuoco si ammassarono ai piedi di un’altura, talmente impaurite da quelle armature da non poter neanche vomitare fiamme; un cavaliere ne decapitò una ormai morente e mostrò il trofeo ai suoi simili intimandoli di fuggire dal campo, i sauri impauriti da quegli elmi senza occhi e dal grido che provocavano le scanalature delle loro corazze, scapparono oltre le dune zoppicanti e guaenti mentre la fanteria esultò speranzosa.
Ma la speranza vacillò immediatamente poiché altri corni e altre bestie arrivarono dall’orizzonte polveroso; la terra tremò di nuovo e altri sputa fuoco, demoni e giganti invasero la valle sbucando dalle fessure delle pareti rocciose tutte intorno. E fu in quel momento che capii quanto un uomo può essere coraggioso e devoto ai suoi giuramenti. Venni a conoscenza solo dopo essere tornato a Dalnum che Bregon, quando lo vidi raggiungere il suo re al galoppo, gli ordinò, con tutta la spavalderia di un giovane e di un guerriero formidabile, di ritirare l’armata; il nemico era troppo potente da poter battere in campo aperto e sarebbe stato saggio ripiegare dietro le mura e resistere ad un assedio.
Il giovane capitano e i suoi cavalieri dunque, decisero all’unanimità, di donare il tempo necessario all’armata e al suo re per la ritirata; ricordo che venni trascinato via da Broag in persona e legato sopra il suo carro perché sarei rimasto, anche a costo della vita; stare con quei cavalieri mi aveva cambiato ed andarmene prima della fine, sciagurata o trionfante che fosse stata, lo credevo un atto irrispettoso e di infedeltà verso qualcuno che invece stava per dare la propria vita per qualcosa di più grande e in cui credeva.
Prima che l’ultima altura mi tappasse del tutto la vista, riuscii a vedere Bregon toccarsi il petto all’altezza del cuore e poi sollevare il pugno in aria, lo imitai, pensando vanitosamente che quel saluto fosse riservato a me; i suoi cavalieri si riunirono intorno a lui ed impugnarono per l’ultima volta le armi, un fascio di luce baciò la lama del giovane comandante che ordinò la carica ed un grido d’aquila tuonò su tutta la valle infernale anticipando il tonfo sordo dello scontro.
In quei giorni non ci furono feste, solo una funzione funeraria che vide re Broag poggiare l’elmo dell’Aquila su una guglia issata in onore dei cavalieri caduti per la patria; e lì, tra il vento che smuoveva le foglie portandole ad accarezzare il monumento e gli stendardi svolazzare quasi tra le nuvole, un’aquila si posò sulla cima della guglia. Fu l’ultimo toccante momento che mi fece prendere la decisione di andarmene, con la benedizione di re Broag, verso nuove terre e nuove avventure.
Due estati dopo venni a sapere che Dalnum non venne mai assediata e che i demoni erano spariti dalle terre del sud; e mentre attraversavo il ponte che portava al regno degli elfi del nord, un cavaliere dall’armatura lucente mi salutò sorridendomi facendo riaffiorare bei ricordi, e lì mi convinsi, nella mia immaginazione, che il giovane comandante e i suoi cavalieri conquistarono una grande ma silente vittoria.