Corre alla corsa per i Golden Globes 2016 con ben quattro candidature, tra cui miglior film e miglior sceneggiatura, La Grande Scommessa (The Big Short) di Adam McKay, film basato sul libro di Michael Lewis The Big Short – Il grande scoperto, la vera storia di un gruppo di investitori che nel 2005 aveva fiutato la grande crisi finanziaria del 2007-2008 successiva al crollo del mercato immobiliare, fin dagli anni ’70 solida base del capitalismo americano.
Adam McKay sfida a sua volta la sorte e porta sullo schermo un tema difficilissimo, come il mercato e la finanza, con stile realistico, distaccandosi dal modello di The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, ma anche molto originale e diverso da qualsiasi altro tipo di trasposizione da letteratura a cinema.
Affonda il dito lì dove Inside Job di Charles Fergusson, vincitore dell’Oscar nel 2011 come miglior documentario, aveva già dato una panoramica approfondita della questione, senza però estendersi ai soggetti in prima linea che ne hanno fatto parte.
Non è ciò che non sai a metterti nei guai. Ma è ciò che dai per certo.
Questa è una citazione di Lewis Ranieri, padre delle cartolarizzazioni che dagli settanta fino al 2007 hanno sorretto l’economia americana. Ranieri credeva fortemente in un mercato che non si sarebbe mai distrutto.
Un mercato tanto sicuro quanto carico di frutti, ovvero il mercato immobiliare, in quanto scarsamente controllato dal governo e di facile guadagno. Ma, nel 2005, il gestore di un fondo, Michael Burry – interpretato da Christian Bale – aveva intuito il potenziale collasso del mercato, e in tutta risposta creò un’assicurazione contro il tipo di sistema, il CDS.
Burry investì tutti i suoi fondi a favore del CDS, acquistandoli a sua volta delle banche. Se, come Burry ipotizzava, il mercato immobiliare fosse crollato, il suo fondo stesso sarebbe esploso. Ovviamente la previsione di Burry venne presa da tutti come follia bella e buona, tant’è che moltissime banche abboccarono all’amo credendolo pazzo.
Lì dove però c’è follia, ci sono sicuramente altri folli. E questo ci introduce il nostro narratore, e tra le parti più carismatiche ed eccentriche di questa storia ai limiti del paranormale che ha costato vita, lavoro e casa a più di 8.000 persone nel giro di pochissime ore, Greg Lippmann/Jared Vennett – un impomatato Ryan Gosling – che nella follia di Burry ci aveva visto lungo.
Lippmann inizia a raccontare dagli anni settanta. Un montaggio velocissimo e spasmodico, che ricorda molto le sequenze di Requien For A Dream di Darren Aronofsky, introduce lo spettatore a tutte le maggiori invenzioni e avvenimenti che hanno cambiato, nel giro di trent’anni, completamente la società.
Mentre Burry tiene a freno i suoi clienti, tra un giro di batteria e un monologo interiore che mostrano sempre di più la sociopatia e l’essere quasi autistico dell’uomo, pronti a fargli causa per aver investito tutto su una “previsione suicida”, Lippmann entra in affari con un gruppo di investitori capeggiato dal burbero e arrogante Mark Baum/Steve Eissman, un magistrale Steve Carrell che tiene tutti in scacco con la sua interpretazione perfetta, un uomo con un serio problema di gestione della rabbia post traumatico.
Mark è convinto di poter cambiare il mondo, e quando viene a conoscenza dei CDO e delle transazioni sporche che girano introno al mercato immobiliare, crede di poter cambiare qualcosa con i CDS.
Dall’altra parte del tavolo dei “lupi”, ci sono due giovanissimi investitori, Jamie Shipley (Finn Wittrock) e Charlie Geller (John Magaro) che hanno iniziato la loro piccola carriera dal garage di casa; una sorta di Jobs e Woz di Wall Street.
Aiutati da un broker paranoico in pensione, Ben Hockett (un Brad Pitt particolarmente in sordina), Jamie e Charlie, con a disposizione “solo” 100mila dollari, comprano per un dollaro opzioni per acquistare a termine a 40, su uno stock prezzato a 30 ma dal valore tra zero e 60.
E la follia e il coraggio dei due, conclusa con i clienti con una risata e stretta di mano, viene ripagata nel giro di pochissimo tempo con una decina di milioni di dollari nelle loro tasche, mentre l’America viene messa in ginocchio dal devastante crollo.
Dinamico e feroce, la prima parte de La Grande Scommessa si pone al limite tra il visionario e il realismo, mettendo dalla sua parte una vasta contaminazione di stili registici, che vanno dal mockumentary a immagini di repertorio vere e proprie, spaziando nella sperimentazione.
I personaggi della storia entrano in contatto con lo spettatore, spesso guardando in camera, rendendolo partecipe di tutto ciò che sta succedendo. In questa conversazione è la battuta ad essere protagonista, spesso rivelatrice di dove la magia del cinema ci ha messo zampino e dove, invece, tutto è successo così come viene raccontato.
La scelta di McKay è basata su un ragionamento che già nel 1999 aveva fatto Martyn Burke con il film per la televisione I Pirati della Silincon Valley, utilizzando i lunghi discorsi tra i personaggi sui computer e aziende, arrichendoli con sguardi in camera o montaggi particolari, come Woz che entra all’interno del Macintosh per poterne spiegare le funzioni, per far comprendere totalmente l’argomento in questione.
Adam McKay non vuole essere da meno e cerca di rendere l’argomento ancora di più alla portata di tutti “sfruttando” alcune guest star, da Margot Robbie (#turbofiga) nella vasca da bagno a Selena Gomez intenta a giocare al casinò, per spiegare in parole povere i termini tecnici.
La Grande Scommessa è una commedia sofistica e originale, una racconto a più livelli sostenuto da una sceneggiatura solida e brillante, costellata di battute intelligenti che rendono la narrazione dinamica e, soprattutto, non noiosa.
La pellicola regge per quasi due ore e mezza argomenti come mutuo, mercato, crisi, senza appesantire lo spettatore ma, anzi, appassionandolo. Nonostante la complessità del tema, la stessa complicità e sinergia degli attori riesce a rendere sempre attenta e vigile l’attenzione, soprattutto a penetrare nel tema e comprenderlo, quel tanto che basta per non sentirsi spaesati.
Un lavoro a livello di tecnica e regia notevole, che va a coinvolgere tutti i reparti impiegati nella pellicola, dalla fotografia alla musica, tutti unicamente impiegati per rendere scorrevole il racconto e accompagnare, passo dopo passo, lo spettatore nella vicenda.
La musica anticipa e legge l’intenzione del momento, la fotografia intrappola l’atmosfera, andando dai toni freddi ai toni caldi, il montaggio cammina pari passo ai tempi frenetici dello stile di vita attuale.
L’intento del film di McKay non è solo quello di portare al cinema, sulla scia di registi come Danny Boyle, Bill Condon o James Vanderbitt, la storia di quelle identità che hanno scosso il mondo, ma è anche quello di far riflettere e pensare.
Ciò che in un primo momento entusiasma, come nel caso dei giovanissimi Jamie e Charlie, in un secondo momento fa riflettere. L’arricchimento di qualcuno è l’impoverimento di qualcun altro.
Fiutare un disastro come questo fa rendere solo conto, troppo tardi, delle dimensioni catastrofiche della situazione. Una crisi che non ha solo devastato una Nazione, ma si è fatta sentire su tutto il mondo, portando al suicidio migliaia di persone trovatosi, dalla sera alla mattina, senza più nulla.
Questo è il cinema che educa. Il cinema che si fa portavoce di quelle verità scomode. Quelle verità che non andiamo a cerare perché disarmati, difficili da accettare.
La verità è come la poesia. E la poesia alla maggior parte della gente sta sul cazzo.
La Grande Scommessa è un film piacevole, da vedere anche due volte, non solo per la sua piacevole complessità, ma anche per la maestria e il coraggio con cui Adam McKay e cast hanno saputo dimostrare, uscendone a testa alta da una storia che dovrebbe far riflettere di più sull’autodistruzione e corruzione della società contemporanea.
La Grande Scommessa vi aspetta dal 7 gennaio al cinema!