Tra i MustSee di almeno una volta nella vita, ma anche tre, c’è assolutamente Carnage di Roman Polanski. Classe 2011, tratto dalla pièce Il dio della massacro, della drammaturga francese Yasmina Reza, Carnage è un film che ha incantato e suscitato non poche critiche – per lo più positive – partendo dalla sua presentazione e nomination al Leone D’oro al 68. Festival del Cinema di Venezia.
Véronique, davvero pensa che ci si interessi ad altro che a se stessi? Vorremmo tutti credere a un possibile cambiamento. Di cui saremmo gli artefici e che non sarebbe legato al nostro personale vantaggio.
Ma le pare possibile? Ci sono uomini indolenti, sono fatti così, altri che non vogliono perdere un solo attimo di tempo, e si danno da fare, che differenza c’è? Gli uomini si agitano fino a quando non muoiono.
L’educazione, i mali del mondo… Lei scrive un libro sul Darfur, okay, capisco che uno pensi, prendo un bel massacro, ce ne sono una quantità nella storia, e ci scrivo sopra un libro. Ognuno si salva come può.
L’introduzione è già abbastanza esaustiva, tratta direttamente dalla pièce della Reza.
Carnage non è solo una trasposizione o un film, ma è soprattutto realtà; la reale rappresentazione della ferocia del genere umano e la sua inevitabile fallibilità. Fragile e innocuo. Ringhia ma non morde. Un film da un realismo agghiacciante. Violento e drammaticamente meraviglioso.
Due coppie, i Longstreet (Jodie Foster e John C. Reilly) e i Cowan (Kate Winslet e Christoph Waltz) si incontrano nell’appartamento dei Longstreet a Brooklyn per risolvere, in maniera cordiale e civile, la lite scoppiata tra i loro rispettivi figli undicenni: Ethan, figlio della prima coppia e Zachary, figlio della seconda.
Quello che sembra un incontro all’insegna del “politically correct” precipita, nel lasso di poco tempo verso una crescente ostilità che diviene presto uno scontro aperto talmente crudele da essere paragonabile, appunto, ad una carneficina.
La situazione che propone Carnage è tanto singolare quanto comune. Tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo ritrovati a dover parlare con qualcuno che proprio non ci piaceva; costretti a dover dire qualcosa e pensarne un’altra; ritenere il nostro metodo educativo o stile di vita migliore rispetto a quello altrui.
Il dio del massacro è sicuramente un’opera dal tema universale, ma la skill in più della pellicola di Polanski sta nel mettere sullo schermo una situazione universale all’interno di un mondo, di una cultura differente. Se la pièce è ambientata a Parigi, il film è ambientato a New York, per la precisione a Brooklyn. In un mondo così vasto, la cultura cambia da chilometro in chilometro, condizionando così lo stile di vita, l’educazione, etc… Carnage indaga proprio su questo, e lo fa con l’arma che più siamo inclini ad usare: la parola.
La parola, in questa pellicola, diventa la schermaglia principale. Un’arma a doppio taglio, perché se da una parte aiuta a difendersi, dall’altra parte il modo di parlare di ogni personaggio mette in luce la sua interiorità, il suo modo di essere e le sue debolezze.
L’ipocrisia dei discorsi iniziali, quando siamo ancora in una fase dove tutti sono molto educati e civili, mostrando quello che è il loro lato migliore e ideale, viene evidenziata soprattutto dagli sguardi, dai finti sorrisi e dalla posizione del corpo. Tutti estremamente composti, rigidi, falsi.
Il film si apre con un campo lunghissimo del Brooklyn Bridge Park, unica esterna assieme alla scena finale, e due bambini che litigano, con un sottofondo musicale che sostituisce le voci. Subito dopo passiamo a rinchiuderci dentro l’appartamento dei Longstreet, arena del nostro film.
Per quasi tutto il film Polanski gioca moltissimo tra gli ambienti dell’ingresso e del salotto, inquadrando la coppia ospite sempre in procinto di andarsene, per poi ritornare nuovamente al punto di partenza: il salotto. Questo continuo gioco dell’avanti e indietro, quasi simbolo del non voler dare l’ultima parola a chi la pensa diversamente da noi, anticipa quelli che sono i picchi di tensione che si formano tra i personaggi, che vediamo lasciarsi sempre più andare ai loro istinti.
La macchina da presa segue tutti i personaggi, spesso posizionati frontalmente quasi come se fossero perennemente in una condizione di sfida – condizione partita dal discorso sull’educazione ma che poi si mostrerà essere un mero pretesto – concentrandosi soprattutto in primi e primissimi piani quando le parole celano ciò che la mente, o il corpo, vorrebbe dire.
Immortala la scena con movimenti lenti e impercettibili, il montaggio passa abilmente dai primi piani ai campi lunghi (i quali aumentano il senso di caos e disequilibrio che si crea gradualmente tra i personaggi), l’immagine è linda ma si comprende fin da subito che un malessere sordo serpeggia negli animi dei protagonisti reclusi, bombe innescate. L’assenza di musica (presente solo nelle scene iniziale e finale) amplifica la tensione del quadro, portando lo spettatore a chiedersi cosa possa succedere da un momento all’altro.
Alla prima mezz’ora di film, le maschere, nel privato, cadono del tutto. Le solo quattro pareti della stanza diventano la gabbia per i quattro personaggi, i quali continuano inarrestabili a colpire. Si liberano dal loro falso perbenismo. L’educazione si scioglie come neve in un’afosa giornata d’agosto, e non c’è più scampo per nessuno. Due coppie modello diventano bestie falsamente feroci, capaci solo di ringhiare.
Mi sono rotto il cazzo di tutto questo dialogare (…) mia moglie mi ha fatto vestire da intellettuale progressista (…) io sono un figlio di puttana con un brutto carattere
Un’alternanza di campi lunghi, mezze figure e primi piani sempre molto veloci, funge da eco ai battibecchi sempre più irruenti tra i quattro protagonisti. Anime irrequiete per un unico ambiente, danno dinamicità al dialogo con il loro movimento frenetico. Una vera e propria carneficina dalla quale, si vedrà, non si salverà nessuno dei quattro personaggi, distrutti da se stessi e da quegli ideali di perfetto cittadino imposti da una assurda scala sociale.
Carnage è una profonda, violenta e sconvolgente metafora sul mondo. Specchio di una società attuale.
Potremmo vedere questa pellicola anche tra dieci anni, e sicuramente le sensazioni saranno le stesse provate adesso. L’orrore di ciò che l’essere umano, stupido, testardo e ignorante, sia capace di creare, abbassandosi a un infantilismo estranio perfino ad un bambino.
Roman Polanski, come sempre, si mostra essere molto scrupoloso per quanto riguarda le scelte stilistiche di regia. Nessuna azione viene svolta fuori scena, tutto è sorvegliato dalla macchina da presa, dall’inizio alla fine, fornendo anche un prologo e un inaspettato epilogo che si mostra essere ironia drammatica molto gratificante per lo spettatore, e ultimo colpo di grazia alle spalle dei protagonisti.
Se per tutto il film, infatti, Polansky mostra la sua critica spietata nei confronti del mondo, della famiglia e della società borghese attraverso le due coppie, sul finale decide di dare ancora una possibilità a questa realtà.
Con un ultimo “sorrisetto soddisfatto”, sua personale firma d’autore, chiude la vicenda con un pensiero ottimista che si rivolge esclusivamente nella speranza riposta all’interno delle generazioni più giovani, più inclini al dialogo, al passarci su, e meno alle etichette.
Sarà davvero così? Guardate prima il film e, poi, giudicate voi stessi!