Capitolo 8
I
Mentre si avviava verso l’aula non riusciva a smettere di pensare a come il suo mondo fosse cambiato in ventiquattro ore. Si diceva spesso stanco della routine universitaria, ma ora, Dio cosa avrebbe dato per tornarci. Invece si ritrovava a dare la caccia ad un omicida, ad un assassino che non solo aveva ucciso uno studente, ma si era preso la briga di esporlo come un’opera prima a tutta l’università. Aveva paura.
Sotto i suoi piedi le mattonelle del pavimento del terzo piano si susseguivano come se nulla fosse. Nero, bianco, nero, bianco, nero, e poi bianco. Gli tornò in mente quando da bambino giocava ad attraversare le strisce pedonali senza pestare l’asfalto, o quando sotto il porticato di casa non camminava mai sopra alle piccole giunture di sabbia tra una piastrella e l’altra. Ora non ci badava più. Pestava quelle nere, quelle bianche, persino i bordi tra una e l’altra. Ora non poteva più farci caso.
Era quasi arrivato all’aula quando sentì il bisogno di andare in bagno. Tornò sui suoi passi ed entrò nella porta alla sua sinistra dove i due simpatici omini segnalavano il gabinetto. Si guardò nello specchio sopra i lavandini alla sua destra e proseguì. Il bagno era stranamente freddo, pensò che qualcuno avesse lasciato la finestra aperta, infatti era così. Mentre si avvicinava al gabinetto dal quale arrivava la corrente gelida provò un brivido di sconforto. La paura si accese sotto quel vento gelido come una fiamma in una notte di Grecale. C’era un assassino che ammazzava giovani studenti a piede libero nell’università, e lui era solo in un bagno gelido con una finestra stranamente aperta. Pensò di uscire come se niente fosse, di tornare in corridoio e raggiungere l’aula. Ma era troppo tardi, e l’idea di dare le spalle a quella porta socchiusa lo terrorizzava forse di più che guardare cosa ci fosse dentro.
Alla fine, decise di entrare. Prese le chiavi dell’appartamento e le sistemò nel palmo della mano destra, lasciandone uscire, tra le nocche, le punte. Fosse successo qualcosa, avrebbe lottato.
Appoggiò la mano sinistra sulla porta e aprì.
“Oh mio Dio! Scusami tanto! È che… La finestra era aperta… Esco… Scusami!”
La ragazza seduta sul gabinetto non disse nulla, o almeno, Pietro non le lasciò il tempo di dire nulla e scattò subito fuori dal bagno. Era appena uscito quando, ancora con la mano sulla porta, un altro, orribile, brivido freddo gli percorse la schiena. Subito nella sua testa si materializzò l’immagine della ragazza che pochi attimi prima aveva visto in bagno. Ricordò distintamente che il gabinetto non era aperto, che la ragazza era completamente vestita, che la mano sinistra era stranamente penzolante e che non solo non aveva detto nulla, ma non aveva nemmeno alzato il viso. Un terribile dubbio lo avvolse. Corse dentro.
La ragazza era ancora sul water, immobile. Il mento appoggiato sul pugno destro e lo sguardo spento.
“Stai bene?”
Nessuna risposta.
“Ehi!.. Parlo con te!” gli sfiorò la spalla sinistra e con orrore vide il corpo cadere esanime a terra. Sentì le lacrime coprirgli il volto. Nel terrore prese in mano il cellulare e chiamò.
“Pronto?” disse la voce all’altro capo del telefono.
“C’è un cadavere! Aiuto!”
“Pietro? Ragazzo sei tu? Dove sei?”
“Sì… Signor rettore?” – perché aveva chiamato il rettore e non la polizia? – “Signor rettore c’è un secondo cadavere. È una ragazza. Nel bagno del secondo piano.”
“Santo Dio! Ragazzo mio non fare niente. Ci penso io. Chiamo la polizia. Ma sei certo sia morta?”
“Sì signore… É lì immobile… Cioè, io ero venuto in bagno…” balbettò mentre cercava un contegno.
“Figliolo sentimi bene, ora guarda bene in giro se vedi qualcosa, dobbiamo porre fine a tutto questo, hai qualche minuto, poi arriverà la polizia.”
“Va… Va bene!”
Anche ora, nel suo appartamento, le immagini di quella mattina lo perseguitavano. Vedeva il volto di Maria – aveva scoperto il nome della ragazza nel pomeriggio – rincorrerlo ogni volta che chiudeva gli occhi. Si era sforzato di carpire più informazioni possibili nei pochi minuti che il rettore gli aveva concesso. La ragazza era immobile, perfettamente curata e senza segni di violenza o lotta. Persino la posa lo aveva stupito. Il primo cadavere era adagiato al centro di una fontana quadrata, ma Maria, lei era seduta su un gabinetto in una posa quantomeno innaturale – per un cadavere, si intende. Il mento appoggiato sul pugno destro alzato, il braccio destro flesso a novanta gradi con il gomito poggiato sulla gamba destra. A che pensavi Maria?
Nel buio della notte scorreva pagine e pagine web alla ricerca di un qualsivoglia collegamento tra Giacomo e Maria. D’un tratto, un flash sconvolse i suoi sensi. Un link visto di sfuggita accese tutti i suoi allarmi. Aveva già visto quell’indirizzo. Aveva visitato la pagina il giorno dopo che Giacomo era stato trovato morto. Il link portava ad una pagina di risultati di esami dove c’erano riportati nomi, numeri di matricola e voti degli studenti che avevano frequentato quell’esame. Nulla di strano, se non fosse stato che, proseguendo nella pagina molti nomi cambiavano, ma Giacomo e Maria continuavano a comparire. Rifiutato. Non superato. Non superato. Non presente. Non superato. Pietro cominciò a sentirsi in imbarazzo per i due poveri ragazzi quando notò che tutti quei risultati conducevano ad un unico esame. Sempre lo stesso. Appelli diversi, sessioni seguenti. Ma entrambi gli studenti avevano tentato di superare, e fallito, il test di Sociologia della Comunicazione, tenuto dal professor Eugenio Moranti.
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