Capitolo 3.

F

La folla nel cortile correva qua e là. Inutilmente i poliziotti cercavano di bloccare la miriade di studenti curiosi. Urla di orrore si levavano a turno, ogni volta che un viso nuovo ammirava la sua opera. È un capolavoro, pensò.

Dal suo ufficio guardava la scena come un giudice imparziale. Tutte quelle piccole, inutili persone gli sembravano formiche. Le formiche lavorano, sono animali operosi. Non erano formiche. Erano tarme. Schifose tarme, irrecuperabili parassiti che consumano dall’interno il mondo in cui vivono. Provò disgusto.

Mentre ammirava la scena notò lungo la finestra un piccolo alone, lasciato da quella incapace della nuova donna delle pulizie. Non poteva perdere tempo dietro anche alle donne delle pulizie. Ci avrebbe pensato Barbara. Era un’assistente capace, anche se estremamente imprecisa e approssimativa. Si recava in ufficio spesso tre o addirittura quattro minuti in ritardo.

Tornò al suo spettacolo. Vide delle ragazze piangere. Non riusciva a capirne il motivo. Avrebbe voluto scendere e andare a chiedere loro perché stessero versando inutili lacrime per una persona inutile. Avrebbero tutti dovuto ridere e gioire per il suo regalo. Aveva donato loro la libertà da un parassita. Aveva dato loro un’opera d’arte. Ma la gente è pazza, si disse.

Portò la mano al vetro. Avvicinò l’indice e il pollice all’occhio e immaginò di poterli schiacciare uno ad uno. Quanto tempo avrebbe potuto risparmiare. Quanta strategia e quanti calcoli sarebbero stati evitati. Ma l’ingiustizia del mondo lo aveva costretto a nascondere il suo disegno, a simulare degli incidenti talmente improbabili a cui solo la polizia avrebbe creduto.

Notò con piacere il panico che si stava creando. C’erano centotrentuno studenti urlanti che affollavano il cortile d’ingresso. E molto presto sarebbero stati meno.

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