Nel corso della Seconda Guerra Mondiale il Sudafrica, schierato con la Gran Bretagna, si trovò contrapposto all’Italia. Oltre a mettere a disposizione le proprie Forze Armate, il Sudafrica si rese disponibile a custodire prigionieri di guerra.
Nello stato del Transvaal, a circa 50 chilometri ad est di Pretoria e 120 da Johannesburg, venne costruito il campo di prigionia di Zonderwater.
Il complesso fu costruito in una conca, tra le immense distese di un arido altopiano a 1.700 metri sul livello del mare, le cui condizioni naturali demotivavano i prigionieri all’idea della fuga e limitavano quindi l’uso del filo spinato.
Nel febbraio 1941 cominciarono ad affluire a Zonderwater i primi prigionieri di guerra italiani catturati in Africa Settentrionale e Orientale. Gli arrivi si susseguirono per tutta la durata della guerra ed ebbero un incremento massiccio dopo la sconfitta italo-tedesca di El-Alamein.
All’inizio del 1943 si contavano circa 70.000 prigionieri, che superarono le 100.000 unità alla fine del conflitto.
Questo enorme complesso fu il più grande concentramento per prigionieri di guerra della Seconda Guerra Mondiale.
Marta
(nome inventato) – figlia di uno dei primi prigionieri del campo.
Il ricordo della cattività di mio padre mi educa alla resistenza pacifica al male, nutre e motiva la mia preghiera, mi incoraggia a tenere saldo il dono della Fede nell’oggi carico di malesseri umani e sofferenze di ogni genere di individui e popoli diversi.
Il nome Zonderwater a molti non dice nulla, la maggioranza degli Italiani non ha mai avuto modo di sentirne parlare anche perché non appare nei libri di storia come invece accade per altri importanti luoghi di memoria.
Credo che la realtà di Zonderwater sia destinata ad essere ignorata.
Ritengo quindi un’opera di “giustizia della memoria” ricordare l’evento che ha formato e segnato la vita di mio padre e di altri 100.000 italiani rinchiusi in questo campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale.
Deve essere un’opera di giustizia perché gli uomini là tenuti prigionieri hanno servito la Patria secondo le esigenze del tempo, seppur con tutti i loro limiti, non meno di coloro che hanno avuto la sfortuna di essere deportati in altri luoghi di detenzione per altre ragioni famose, o di coloro che hanno fatto la resistenza in casa.
Indipendentemente dalle loro posizioni politiche e dal loro credo religioso, gli uomini prigionieri a Zonderwater meritano la stessa affettuosa e doverosa attenzione di tutti coloro che hanno vissuto la terribile esperienza delle Guerre, perché lo spirito che li ha animati è stato solo e sempre quello di servire la Patria, naturalmente secondo il concetto di Patria di quel tempo e la capacità storica di ogni italiano di quel tempo di comprendere tale concetto..
Quindi stima e rispetto massimo nel ricordo delle loro esperienze, impegno nel custodire la Memoria, e nell’esprimere la ricerca e la promozione della Pace.
Inizialmente i prigionieri erano ospitati in un vasto attendamento, ma in seguito, grazie al lavoro degli stessi detenuti, sorsero baracche in legno ed alcuni edifici in muratura dotati di luce elettrica.
Nella sua massima estensione il campo di prigionia risultava diviso in 14 blocchi, suddivisi a loro volta in accampamenti da 2.000 prigionieri ciascuno.
In più vi era un accampamento di transito, un accampamento di disinfestazione ed un ospedale centrale con 14 ambulatori satelliti per ciascun blocco.
Il personale medico era per intero rappresentato da militari italiani, che, grazie al materiale fornito dai sudafricani, poteva far fronte alla maggior parte dei trattamenti chirurgici generali necessari.
Per collegare tutte le zone del campo erano state costruite oltre 30 chilometri di strade interne al perimetro ed il problema dell’igiene era stato superato grazie alla costruzione di un’ampia rete fognaria.
Enrico Vinci
P.O.W. a Zonderwater dal dicembre del ’43 al luglio del ’44
In quel campo incominciai ad accusare i primi malanni, oramai il mio stomaco era in perenne conflitto con il resto del mio corpo (penso che ciò era dovuto al granone bollito e condito con l’olio di cotone che ci propinavano come vitto) oltre ad avere seri problemi reumatici.
Mi rivolsi diverse volte all’Ufficiale Medico Dott. Brancaccio, il quale non poteva fare altro che darmi dei buoni consigli in mancanza di qualsiasi medicinale o strumentazioni diagnostiche.
Nei primi mesi del 1944, incominciai ad accusare anche una specie di mania di persecuzione, la lunga prigionia iniziava a debellare il mio sistema di autocontrollo.
Il Capo Santoro vedendomi in quelle condizioni mi consigliò di andare fuori a lavorare, affinché potessi distrarmi ed avere un alimentazione variegata. Accettai le sue premure ed andai a lavorare in un deposito metalli a pochi km da Pretoria, eravamo diciotto italiani.
Le condizioni lavorative rasentavano la schiavitù. Gli orari, gli insulti, le costrizioni, nella sostanza la nostra condizione di prigionieri di guerra autorizzava i sudafricani a non aver nessun rispetto della nostra dignità di uomini.
Un giorno stanchi delle loro angherie quotidiane, rimanemmo al campo in segno di protesta. Meglio essere prigionieri che schiavi.
Nel pomeriggio, un Ufficiale e diversi soldati armati irruppero nella nostra baracca, offendendoci e minacciandoci .
Non sopportai le offese come italiano e reagì disarmando l’Ufficiale. Gli assestai un calcio allo basso ventre e disarcionato gli dissi: Adesso, senza fucile, fammi vedere quanto vali!!!
Alla mia reazione, il drappello di soldati mi assali, disarmandomi.
Fui riempito di botte, e successivamente mi misero in cella. In seguito fui giudicato da una Corte marziale e condannato a 28 giorni di lavori forzati e bagno penale.
I prigionieri non ebbero certo vita agiata.
Con il tempo però furono permesse e realizzate strutture sportive e ricreative di vario genere: calcio, atletica, tennis, pallacanestro, pallavolo, pugilato; costruiti teatri per spettacoli, cinema e concerti.
Si istituirono biblioteche e scuole che tolsero dall’analfabetismo oltre 9.000 italiani.
Per coloro che decisero di collaborare si materializzò ad un certo punto anche la possibilità del lavoro fuori del campo e ciò grazie ad oltre 4.000 sudafricani che si proposero come datori di lavoro, soprattutto di tipo agricolo, ma anche costruzione di strade, ponti e edifici.
In tutte queste attività molti italiani si distinsero per la loro abilità e genialità, instaurando con i sudafricani un rapporto di fiducia.
A guerra finita oltre 800 italiani restarono in Sudafrica.
Il rimpatrio dei prigionieri italiani non iniziò con la fine del conflitto, ma dovette attendere che si rendessero disponibili navi da trasporto.
I rientri si conclusero quindi nel febbraio del 1947, ben due anni dopo la fine del conflitto.
Trovarono la morte in prigionia 252 italiani.
Essi riposano nel cimitero che, assieme al museo, alla cappella e al
monumento chiamato I Tre Archi (oggi simbolo del campo) costituiscono tutto ciò che è rimasto del campo dopo il 1947, anno dell’ultimo rimpatrio di un P.O.W; le baracche furono in seguito abbattute e il campo smantellato.
Ecco ciò che rimane dell’ultimo lembo di terra italiana in Sud Africa.
Carissimo Dante,
con grande piacere oggi ò ricevuto la tua cara cartolina, la quale mi fa noto che stai bene, come ti posso assicurare di me.
È stato pure per me una bella soddisfazione ad avere tue notizie tramite il nostro amico Antognelli, così ora in possesso ognuno dell’indirizzo possiamo scriversi dandosi notizie più soventi.
Sono pure contento a sentire che ai un lavoro e che guadagni abbastanza, perché sai al giorno d’oggi non tutti possono dire così.
Caro Dante, ora mentre ti scrivo e ti parlo di lavoro, mi sembra ancora di vederti quando eravamo assieme e che nella possibilità c’era qualcosa da pasticciare, come correvi intraficcare in tutto per tutto, e facevi uscire anche quello che era impossibile avere, ma solo tu con la tua capacità, e con modo di sapere imbrogliare sergenti, sergenti maggiori e marescialli, riuscivi a ottenere tutto, e così facendola in breve mangiavi tu, mangiavo io e anche Antonielli, tutto per merito tuo.
Credi Dante che spesso ti ricordo, quante volte ò già raccontato ai miei genitori e compagni di te che eri un mio amico, e che eri bravo per fare pane dolci e gnocchi con tagliatelle, e io cercavo di farti da aiutante, così ò sempre mangiato nelle nostre possibilità da prigionieri più che tanti ma tanti altri che non avevano nulla.
Quando penso ai ultimi anni di prigionia penso solo a quello sgabuzzino del 7° blocco o pure ai forni del primo, così almeno di tante cose tristi e pesanti già i sei anni di reticolati, solo questo mi da il pensiero di essermi tolto la fame, mentre regnava su tutti i nostri compagni che poveretti non potevano avere un pezzo di pane in più come l’avevamo noi due, ti ricordi ?
Questa lettera fu scritta sul finire del 1948.
Nella lettera Achille chiede a Dante quando si sposerà, e termina con la domanda: “Quando vieni fino a Sanremo a trovarmi ?”
Dante si sposò nel 1949 e andò in viaggio di nozze a Sanremo a trovare l’amico Achille.
I tre compagni di prigionia nominati nelle lettera, anche se non tutti assieme, ebbero in seguito modo di rivedersi.
- Zonderwater.com
- Zonderwater (wIkipedia.it)
- “I Diavoli di Zonderwater” su Googlebooks