E così l’ho ammazzata. Senza preavviso, senza premeditazione. L’ho seccata e basta. Non vorrei essere il mio avvocato… davanti ad una giuria non potrebbe nemmeno scomodare i paroloni “infermità mentale” o “raptus di follia”.
Macché follia… so benissimo perché l’ho fatto; sono un assassino, mica un pazzo. Mi aveva rotto i coglioni, il gioco non mi divertiva più. È per questo che l’ho uccisa. Non mi dava più alcuna soddisfazione.
Cristo, era veramente pesante… e poi era ignorante come una capra. Non la finiva più di raccontarmi delle sue sbronze e dei tipi che si era fatta. «Quando sono ubriaca divento una gran porca» mi aveva detto agitandomi davanti al naso una bottiglia di vodka. Io odio le donne così.
Odio le donne che si sbronzano e fanno le cretine con i ragazzi. Non le tollero, rappresentano la peggiore aberrazione della femminilità. Le ammazzerei tutte. Beh… questo lei ovviamente non lo poteva sapere.
Aveva continuato a fare la femme fatale per tutto il tempo, dandomi provocanti pacche sul culo mentre camminavamo lungo la passeggiata.
Avevo subito avanzato l’idea di spostarci sul lungo mare, dove non arrivavano le luci dei lampioni. Così facendo naturalmente non ero costretto a soffermarmi sulla sua imbarazzante figura ogni volta che mi rivolgevo a lei per riavere indietro la bottiglia di vodka. I polpacci mi dolevano un po’ nell’affondare nella sabbia.
Faceva l’oca in continuazione, parlando di sesso come se mi stesse raccontando una puntata di Beverly Hills; forse pensava che la cosa potesse in qualche modo eccitarmi.
A guardarla, mi ci sarebbe voluto ben altro per provare desiderio fisico nei suoi confronti. Arrivati nei pressi del pontile mi chiede se mi va di appartarci, leccando in modo incredibilmente volgare il collo della bottiglia. Mi fa strada camminando in direzione del mare, disperdendo indumenti sulle assi di legno.
La seguo da qualche metro di distanza. Per ora che è arrivata in punta è rimasta in topless. Meno male che si è tolta quella gonna in pelle: le stava da schifo. Mi attende coprendosi il seno con le mani, con la classe di una vecchia battona.
Quando la raggiungo lei mi viene incontro per baciarmi, le punto tre dita sulla fonte e la respingo. Fa due passettini indietro e si sbilancia, cozzando sgraziatamente col culo a terra.
La cosa la fa ridere in modo sguaiato e non posso fare a meno di soffermarmi sull’abbondante seno che, nel momento in cui ha portato le mani indietro, ha ballonzolato burrosamente. La luce lunare me la fa apparire ancora più bianca di quanto in realtà non sia, quindi mi sposto in modo da farle ombra. «Che si fa?» penso.
Devo essere sincero, non ho proprio voglia di fare sesso con questa ragazza, non mi piace praticamente nulla di lei. Anche se per tutta la sera le ho fatto credere il contrario.
Il trucco è così pesante che sembra se lo sia dato con un rullo da pittore; tutto quel nero poi… va beh che vuoi fare la dark, però… Ad un certo punto, quando sto per girare i tacchi e lasciarla lì, seduta alla fine del pontile, lei fa un gesto che attira la mia attenzione.
Dondola indietro sulla schiena e mette le gambe in candela. Sfila verso l’alto le mutandine che si arrotolano lungo le cosce fino a liberare le caviglie. L’agilità di questo gesto non mi lascia indifferente e penso che ormai che ci sono…
Ancora incerto sul da farsi faccio un passo avanti cincischiando con la fibbia della cintura. Lei mi attende a cosce spalancate e si adagia sulla schiena facendo scorrere le mani lungo gli inguini.
La testa si reclina indietro, nel vuoto, ed i capelli scivolano dalle spalle fino ad intingere le punte nell’acqua salata. O almeno così mi immagino. Sì, perché mentre lei emette un paio di versi simili a quelli che farebbe un operaio al contatto con una poltrona dopo dieci ore di lavoro, io in realtà sto pensando che sarebbe splendido fuggire.
Sì, fuggire. Ora. Lei non mi vedrebbe nemmeno.
Forse sentirebbe le assi di legno vibrare sotto la sua schiena, ma io sarei già lontano. Mi scappa un sorriso all’idea di lei che aspetta di sentire il peso del mio corpo adagiarsi sul suo ventre. È un’idea che mi rapisce.
Sento la sabbia che fa attrito tra la suola della scarpa ed il legno mentre lentamente provo a girarmi. Ma lei mi anticipa, cazzo. Recupera la testa che si era abbandonata a questo piacere solitario e mi guarda.
«Beccato» penso. Poi… si gira di scatto con la faccia verso l’acqua e sbocca. Vomita, cazzo. Sento un rumore raccapricciante di poltiglia che impatta con l’acqua. Dove mi hanno portato le mie bugie questa sera? A guardare una dark che vomita. Non c’è alcuna soddisfazione in questo.
Le tempie iniziano a pulsare. Mi avvicino alla fine del pontile e lascio spazio alla luce che sottolinea come un evidenziatore il pallore della sua schiena.
Alla base del collo ha un tatuaggio: un sole stilizzato. Rapidamente ai miei occhi i raggi spariscono; il sole diventa un cerchio. Al suo interno appaiono cerchi più piccoli. Concentrici. Il sole diventa un bersaglio.
È lì che colpisco forte con un pestone. Un solo colpo, secco, scaricando tutti i miei novanta chili sull’esile collo che sembrava essere messo in quella posizione apposta per essere ghigliottinato.
Le dita che facevano presa sul bordo per agevolare gli sforzi di vomito si distendono di colpo e poi vibrano, come colpite da scariche elettriche.
Guardo la luna. Non voglio vedere se ha perso sangue, se il suo grottesco corpo è sconvolto da spasmi, se qualche pezzo d’osso ha violato l’involucro delle carni.
Non mi interessa. Per niente. Non era importante se fosse morta in modo più o meno coreografico, era morta e basta. Non era la prima e non sarebbe stata l’ultima.