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Non so come dirtelo. Allora fino a poco tempo fa ci conoscevamo solo di vista, poi di punto in bianco non so perché hai iniziato a interessarmi, e ci siamo messi d’accordo per uscire. Il fatto è che io capisco subito se un ragazzo mi piace o meno, e anche se siamo usciti più volte non è questo il caso. E mi dispiace, perché hai un carattere molto diverso dagli stronzi a cui sono abituata. Però non è scoccata la scintilla, ecco. Mi dispiace dirtelo così ma è che non volevo chiederti di uscire solo per dirti questo.
Rispondimi ti prego.
Ah.
Avevo perso un battito già a “Non so come dirtelo”. La cosa era nell’aria già da un paio di giorni, ed avevo decisamente un brutto presentimento. E infatti.
Scivolai col dito sul display del cellulare e ripresi a leggere, mentre un sorriso amaro mi increspava le labbra man mano che scorrevo con gli occhi il messaggio. Prevedibile.
Posai l’iPhone sulla scrivania e incrociai le braccia sul petto, mordicchiandomi il pollice. Mi sentivo come stordito e quella familiare, spiacevole sensazione di malessere interiore non migliorava certo la situazione.
Mandai un paio di sms agli amici più fidati, per portar loro la buona novella.
Mia madre stava preparando la cena in cucina, ignara di tutto: potevo sentire il rumore soffocato della televisione e lo sfrigolare delle pentole sui fornelli.
Trascorsi una buona mezz’ora a visitare i soliti siti internet come un automa, incapace di pensare ad una risposta adeguata da spedire alla mia ex-come potrei definirla? Non riesco a trovare il termine adatto per descriverla, dal momento che non era certo la mia fidanzata ma soltanto una ragazza con cui ero uscito qualche volta. E neanche ero pazzo di lei, ben conscio che così piccola, eppure così bella, avrebbe potuto scivolarmi dalle mani da un momento all’altro. Ma ci ero affezionato, e cominciavo a fantasticare la costruzione di un rapporto un po’ più stabile e concreto, malgrado la differenza di età e di interessi.
Irene aveva 17 anni, tre meno di me, ma sembrava una ragazza molto più grande della sua età. Aveva grandi occhi blu, che risaltavano in quel mare di lunghi capelli neri. Gli zigomi alti e il piglio un po’ altezzoso la facevano sembrare una di quelle fuori dalla portata di gente come me e te, eppure sapeva essere una ragazza piuttosto simpatica. Prestava sempre molta attenzione all’aspetto esteriore, nel senso che sapeva di poter apparire bella e le piaceva, anche se la prima volta che siamo usciti non era certo in abito da sera dato che ci eravamo dati appuntamento per una pattinata al parco.
Irene era negata per il pattinaggio, decisamente. Io giocavo in casa, dato che sui pattini me la cavo piuttosto bene, e volteggiavo senza esitazione avanti e indietro lungo la pista. La guidavo tenendole le mani, e cercando di spiegarle come muovere le gambe nel modo corretto.
Qualche volta si incespicava e dovevo tenerla stretta a me per non cadere.
A fine giornata, una volta tornato a casa, mi sono accorto che aveva dimenticato i pattini in macchina.
“Me li porti la prossima volta che andiamo al parco” aveva detto. Io ero felice.
Tutto questo succedeva due settimane fa. Nel frattempo siamo usciti altre volte, siamo andati in piazza, al cinema. Mi aveva fatto promettere che l’avrei portata a fare un giro al polo universitario, che saremmo andati assieme a fare shopping e tutte quelle stronzate che si fanno in una coppia. Ci siamo baciati.
Destino vuole che decidiamo di andare all’apertura di una famosa discoteca; posti che non sono solito frequentare, ma a cui ci sarebbero stati molti miei amici che non vedevo da tempo. Ci saremmo dovuti trovare dentro la discoteca dato che ognuno sarebbe andato per conto suo. E così è stato, ma per puro caso. Le avrò scritto una decina di sms, a cui non ho mai ricevuto risposta. Finalmente, a fine serata, la vedo su un tavolo. Mi avvicino, pomiciamo un po’, dimentico di chiederle perché non si è fatta sentire per tutta la sera. Poi tra una cosa e l’altra ci perdiamo di vista, e usciamo senza salutarci.
La mattina dopo le scrivo, risponde a monosillabi. Capisco che c’è qualcosa con va, ma non indago, spero di farlo a voce, di vederla.
Ed eccoci qua.
Improvvisamente mi venne in mente cosa risponderle. I pattini. In un impeto emotivo aggiunsi due frasi raffazzonate al messaggio.
Cosa devo risponderti. Pensavo fosse diverso…non me l’aspettavo. Dobbiamo vederci per forza perché ti devo ridare i pattini.
Patetico.
Ok… è la sua risposta. Ci accordammo per il giorno dopo dato che sarei stato nella biblioteca vicino a casa sua, a studiare.
Pioveva. Avevo lo stomaco annodato come una ragazzina al primo appuntamento, anche se non si poteva dire che sprizzassi allegria.
Mi ero arrovellato tutta la notte e la mattina e il pomeriggio per trovare le parole, per dirle che ero affezionato a lei, che non capivo dove e come avessi sbagliato, che il suo era un comportamento immaturo. Che avremmo potuto riprovarci.
“Sei proprio sicura?” le avrei chiesto, comprensivo ma risoluto, come se non me ne importasse nulla. E lei avrebbe capito di aver fatto un errore e mi avrebbe chiesto un’altra possibilità. E gliel’avrei concessa.
Ma non accadde nulla di tutto questo. Ci trovammo all’ingresso della biblioteca: aveva portato un’amica, non so per quale motivo e non gliel’ho chiesto. Mi guardò come se si aspettasse di ricevere qualcosa; i pattini. “Ce li ho in macchina…?” risposi ironico – stupida. Non mi fanno entrare con la borsa e secondo te entro con un paio di pattini in biblioteca?
Esitò sulla soglia, e la guardai con uno sguardo che voleva essere fiero ma che credo apparve più pietoso che altro. Alla fine si incamminò accanto a me sotto l’ombrello. “Dove l’hai parcheggiata?” “Qui in fondo alla via”.
Dai, di’ qualcosa. Hai vent’anni, non comportarti come un bambino.
Ci fermammo al semaforo, che era rosso. Plik-plok facevano le gocce d’acqua sopra la mia testa, plik-plok.
Non riuscivo neanche a guardarla in faccia. Facevo respiri profondi, ma le parole mi morivano in gola.
Dietro di noi, la sua amichetta: devo esserle parso piuttosto ridicolo, ma tant’è.
Irene non sembrava neanche troppo imbarazzata, anzi, quasi dispiaciuta. Dovevo farle pena.
Più mettevo un piede avanti l’altro, più diventavo consapevole che non sarei mai riuscito a dirle nulla, e che avrei fatto la solita figura da fallito.
Dopo un’eternità di silenzi arrivammo alla macchina. Avevo perso l’occasione, ma ormai mi ero rassegnato.
“Reggi questo” le dissi porgendole l’ombrello. Tirai fuori la borsa con i pattini, che si incastrò nella portiera rendendo ancor più patetico ed insopportabile quell’addio.
“Va bene allora…ci vediamo” le dissi inespressivo, guardando altrove. “Ciao”.
Si chinò per darmi un bacio sulla guancia e mi diede un abbraccio goffamente ricambiato, in piedi lì impalato com’ero. Irene e la sua amica si incamminarono nella direzione opposta da cui eravamo venuti.
Mi girai svelto e tirai fuori dalla tasca della felpa una Chesterfield tutta spiegazzata e inumidita dalla pioggia. Dopo un paio di tentativi riuscii ad accenderla. Mi sembrava di vedermi camminare, curvo sotto la pioggia, uno sbuffo di fumo attorno al viso.
Mi venne in mente una scena a cui assistetti una volta, in un bar, dove mi trovavo da solo in attesa di amici: si sedette accanto a me un tizio con un’aria afflitta. Il barista gli chiese cosa c’era che non andava e lui rispose “La mia donna. Mi ha lasciato”. E un vecchio grasso che sedeva lì accanto, dicevano fosse un poeta, anche se di lui non avevo mai letto niente, gli disse “Non ti preoccupare, ne troverai un’altra. E ti lascerà anche quella”.
Gettai la sigaretta in una pozzanghera mentre percorrevo i pochi metri che mi separavano dall’asciutto tavolo con le luci al neon.
Quello che ci frega, che frega quelli come me e voi, non è tanto il fatto di essere piantati in asso, ma sapere che siamo così facilmente sostituibili. Quello è il vero problema.
Chiusi l’ombrello e varcai la soglia della biblioteca.
-In LegaNerd, dello stesso autore: Di quando sono uscito con una gran figa, e relative considerazioni
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