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L’omicidio di JonBenét Ramsey

La notte successiva al giorno di Natale del 1996 la piccola JonBenét Ramsey, di 6 anni, viene trovata morta nella cantina dei vini nel seminterrato della villa di famiglia a Boulder, Colorado. Ha il cranio spaccato in due e una corda stretta intorno al collo. Nessuno verrà mai riconosciuto colpevole del suo omicidio. Dopo sedici anni, infatti, il caso è ancora aperto.

La famiglia Ramsey

I Ramsey sembravano una tipica happy family dell’alta borghesia americana.
Il padre, John, aveva fondato, partendo dal suo garage, una società informatica che gli aveva fruttato molto denaro e gli aveva permesso di costruire la casa dei suoi sogni. La madre, Patsy, era stata reginetta di bellezza e si era molto impegnata affinchè la famiglia, una volta trasferitasi a Boulder, ricevesse le dovute attenzioni dal vicinato e si integrasse nell’élite borghese della zona. Avevano due figli: Burke, nato nel 1987, e JonBenét, nata nel 1990.
Vista la notevole bellezza della secondogenita, Patsy aveva cominciato ad iscriverla a concorsi di bellezza dall’età di 4 anni. Madre e figlia, accompagnate spesso dal piccolo Burke, viaggiavano per gli Stati Uniti, e al momento della morte JonBenét aveva vinto non solo molti concorsi di bellezza infantile a livello regionale, ma anche nazionale.

Il rapimento e l’omicidio

La notte del 25 dicembre 1996 la famiglia Ramsey partecipa ad una festa a casa di amici. Tornando a casa, JonBenét si addormenta in macchina e viene portata in braccio nella sua cameretta. Sembra tutto tranquillo ma quando la madre si alza, la mattina dopo, trova sulle scale che portano alla cucina una lunga lettera: è una richiesta di riscatto di 118 mila dollari, indirizzata a “Mr. Ramsey” e firmata con una sigla rappresentante “a small foreign faction”.
Nella lettera si annuncia che JonBenét è stata rapita e si specifica che la piccola verrà restituita sana e salva non appena ottenuto il denaro, ma che nel caso venga contattata la polizia o qualche amico o familiare, la bambina verrà uccisa. I toni della lettera sono oltremodo inquietanti e minacciosi (potete trovare l’originale qui) ma nonostante questo, Patsy chiama subito sia la polizia che una nutrita serie di parenti e conoscenti.

Durante la giornata la casa viene perquisita da una squadra di agenti, che non trova segni di scasso o effrazione dall’esterno. Piccoli gruppi di conoscenti guidati da membri della famiglia cominciano a setacciare la casa nel pomeriggio, cercando “anything unusual”. Basta veramente poco perché il gruppetto guidato da John Ramsey apra la porta della cantina e trovi il corpo senza vita della piccola.

Il ritrovamento del corpo

JonBenét è riversa supina sul pavimento, con le braccia legate sopra la testa e la sua inseparabile copertina bianca addosso. Ha una corda di nylon intorno al collo e del nastro isolante a tapparle la bocca. Il manico di un pennello è stato ingegnosamente legato a un capo della corda per creare una garrota con cui strangolarla.
L’autopsia rivelerà tracce di abusi sessuali, ma non di violenza completa, e un gravissimo trauma cranico (la testa risulta praticamente spaccata in due) anche se la causa ufficiale della morte rimane lo strangolamento.
Sul collo, sulle mani e sul resto del corpo ci sono svariate ecchimosi e segni puntiformi non meglio identificati, e la corda pare essere stata avvolta intorno al piccolo collo con una strana angolazione; tutto questo ha portato alle più svariate ipotesi sulle morte della bambina e l’identificazione dei colpevoli.

La polizia verrà accusata giorni dopo di non aver mantenuto pulita la scena del crimine e di aver permesso sia l’ingresso in casa di numerose persone estranee dopo la denuncia del rapimento, che contatti di vari membri della famiglia col corpicino della vittima.

I sospetti

L’assassino di JonBenét Ramsey non è mai stato identificato. Il ritrovamento del cadavere nella propria casa è stato considerato altamente sospetto dagli investigatori, e ha fatto ricadere in un primo momento le accuse sui genitori della piccola (la grafia della madre, ad esempio, è stata analizzata in cerca di corrispondenze con la lettera di riscatto; voci accusano il padre di aver tentato di abusare della figlia, o di essere stato sessualmente attratto da lei), ma sono stati entrambi formalmente prosciolti dalle accuse nel 2008, in seguito allo sviluppo di tecnologie che hanno permesso l’elaborazione di una traccia genetica univoca dal DNA maschile ritrovato sul corpo della bambina. Moltissimi sospetti sono ricaduti su Burke, che aveva all’epoca 9 anni, e non poteva quindi essere indagato poiché le leggi dello stato del Colorado impediscono di citare in giudizio minori di 10 anni.

[more]Burke Ramsey è di fatto il principale sospettato del popolo del web. Una veloce ricerca vi permetterà di rendervi conto della portata del fenomeno. Interi siti sono stati costruiti intorno all’ipotesi che sia stato il bambino ad uccidere la sorella, invidioso del suo successo e dell’affetto che sembrava attirare su di sé da parte di chiunque la conoscesse, ma soprattutto dei genitori.
Alcuni particolari della scena del crimine di cui solo il bambino era a conoscenza – come la presenza accanto al corpo di un coltellino svizzero – porterebbero i sospetti verso di lui; è anche vero invece che altri dettagli, come la notevole conoscenza dei nodi che richiedeva la costruzione della garrota con cui JonBenét era stata strangolata, sembrano scagionarlo.
In realtà non è ben chiaro se la polizia sia mai riuscita nemmeno a fargli qualche domanda, poiché i genitori si attivarono subito per fare scudo intorno al primogenito ed impedirgli qualsiasi contatto con gli investigatori. Questo ha scatenato le più svariate ipotesi: che John e Patsy fossero al corrente della colpevolezza del figlio e volessero proteggerlo, ad esempio; o al contrario che fosse lo stesso Burke ad essere a conoscenza della colpevolezza di uno dei due genitori (o di entrambi) e che loro temessero quindi che potesse accusarli di fronte alla polizia.
I genitori hanno sempre sostenuto che Burke stesse dormendo durante l’intera vicenda, fino a diverse ore dopo l’arrivo della polizia a casa loro.
Tempo dopo l’omicidio si sostenne invece che la voce del bambino fosse chiaramente udibile durante la prima chiamata della madre alla polizia, ma la circostanza è stata in seguito smentita da esperti dell’FBI su richiesta dell’avvocato della famiglia Ramsey, che ha altresì denunciato ogni organo di stampa che abbia cercato di insinuare pubblicamente che il bambino fosse colpevole dell’omicidio della sorella.

Ad oggi, Burke Ramsey vive a molte centinaia di chilometri da suo padre – Patsy Ramsey è morta nel 2006 di cancro alle ovaie – e rifiuta di concedere qualsiasi udienza alla polizia o ai giornalisti, nonostante le numerose richieste. Anche la più piccola informazione potrebbe aiutare a fare passi avanti in un caso che sembra ormai arenato da molto tempo; l’intera famiglia è stata scagionata anni fa e quindi una testimonianza non potrebbe far altro che aiutare gli investigatori. Non sono quindi ben chiari i motivi di questo inappellabile rifiuto né della decisione di vivere così lontano dall’unico membro della sua famiglia ancora in vita.
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Non si è mai escluso che qualcuno potesse essersi introdotto in casa durante la notte, nonostante non siano stati trovati segni di effrazione, poiché una finestra dello scantinato era stata rotta alcuni giorni prima di Natale ed era priva di sistema di allarme come anche alcuni ingressi laterali della villa. Non sono mai state trovate corrispondenze col DNA raccolto sul corpo nonostante le ricerche siano ancora aperte e vengano ripetute settimanalmente.
Diversi noti pedofili si sono addossati la responsabilità dell’infanticidio ma si è sempre trattato di casi di mitomania e nessun DNA è mai risultato corrispondente con quello raccolto sul cadavere, nemmeno nei casi in cui sembrava esserci una corrispondenza grafologica con la lettera di riscatto.

Considerazioni sulle “baby pageant”

Il caso di JonBenét Ramsey ha attirato molta attenzione mediatica sulla partecipazione di bambine così piccole a concorsi di bellezza.
Alle bambine non viene soltanto imposto dai genitori di esibirsi di fronte a un pubblico, ma anche e soprattutto di seguire uno stile di vita restrittivo dominato da regimi alimentari proibitivi, visite regolari a medici, estetisti, parrucchieri, che impedisce il normale sviluppo psico-fisico delle piccole reginette. Spesso non vengono nemmeno mandate a scuola, e seguono quindi un percorso scolastico particolare, senza contatti regolari con coetanee che non siano avversarie nei concorsi di bellezza.
Soprattutto, è stato posto l’accento sulla sessualizzazione dell’infanzia che si è andata accentuando sempre di più: le piccole partecipanti, di età compresa tra i 4 e gli 8 anni, sono truccate e vestite come delle donne adulte, ed incoraggiate ad atteggiarsi come tali: minigonne, intimo di pizzo in bella vista, scarpe con tacco, rossetti brillanti, ciglia finte, capelli decolorati e qualsiasi altro stratagemma per far risultare le bambine bellissime e più appariscenti possibile; alcuni servizi fotografici arrivano ai limiti della pedopornografia.
Ci si è chiesti quanto le bambine fossero felici di questa attività, e quanto invece fossero spinte alla competizione dalla sete di ricchezza e fama dei genitori (soprattutto dalle madri).
Come nel caso di JonBenét la cui madre era stata in gioventù una reginetta di bellezza, forse non pienamente soddisfatta di se stessa come avrebbe voluto, e impegnata quindi nel riversare sulla figlia le proprie ambizioni deluse.
Ci si è chiesti quanto la spettacolarizzazione mediatica di questi eventi e l’accento posto sulla sessualizzazione di un’età che non dovrebbe avere niente di sessuale abbia influito nell’omicidio di JonBenét, e quanto tutto questo le porti all’attenzione di maniaci sessuali pedofili.
Nonostante questo i concorsi per piccole e piccolissime reginette di bellezza hanno continuato a proliferare negli Stati Uniti e negli ultimi anni si è arrivati a intervenire con la chirurgia estetica su bambine di età prepuberale al fine di ottenere maggior attenzione durante queste manifestazioni.

Joyce Carol Oates e la ricostruzione romanzata della vicenda

Joyce Carol Oates ha ricostruito la vicenda di JonBenét romanzandola nel suo libro “Sorella mia unico amore”. I riferimenti ci sono tutti e non sono nemmeno tanto velati. Scritto in prima persona dal punto di vista del fratello della vittima, in questo caso pattinatrice prodigio come a sua volta la madre, dà una soluzione di fantasia al caso, dopo che per molti anni il protagonista aveva subito le conseguenze della pressione psicologica da parte dei genitori che gli avevano fatto credere di essere il colpevole, ma di volerlo proteggere dalle conseguenze legali.

[spoiler]In questa ricostruzione di fantasia la colpevole dell’omicidio era in realtà la madre. Alcuni indizi sparsi nel lungo romanzo lo facevano sospettare fin da molto prima che si arrivasse all’effettiva scoperta di come erano andate le cose.
La madre, sedicente cattolica ultra-praticante, quasi “in missione per conto di dio” (cit.) aveva voluto punire il marito (reo di aver sempre trascurato la famiglia per il lavoro e numerosissime scappatelle con donne più giovani e belle di lei), con l’infanticidio dell’amatissima figlia e lo scandalo che ne fosse seguito, e premurandosi di sottolineare le sue mancanze ogni volta che ne avesse avuta occasione di fronte all’opinione pubblica.
Nonostante il marito fosse al corrente della colpevolezza della moglie non l’aveva mai denunciata per evitare un ulteriore scandalo, sacrificando però la sanità mentale del figlio maggiore, che passerà quindi l’infanzia e l’adolescenza da un centro di recupero all’altro, convinto di aver ucciso la sorella e di aver rimosso il ricordo.
Il padre, nel frattempo, si rifà una famiglia altrove e la madre approfitta della notorietà per diventare ricca tra talk-show e pubblicazioni in stile “madre coraggio”.
Dopo la morte della madre (la causa ufficiale di cancro della cervice copre in realtà il decesso durante una liposuzione), il padre chiede al figlio di incontrarlo e gli consegna le prove della colpevolezza della donna.
Lui, ormai risollevato dal senso di colpa che lo aveva reso praticamente pazzo e dipendente dagli psicofarmaci per anni, decide quindi di distruggere le prove e di interrompere i contatti col padre, cercando di ricominciare una nuova vita.
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Fonti:
Wikipedia
La ricostruzione del caso su Crime Library
Remembering JonBenét
Il referto dell'autopsia
JonBenét Ramsey Case Encyclopedia

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