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Il Mito di Sisifo

Il Mito di Sisifo

Si deve morire, sfuggire con il salto? O ricostruire una casa di idee e di forme su misura? O si deve, invece, accettare la scommessa straziante e meravigliosa dell’assurdo?

Filosofeggiamo un po’!

Albert Camus

Nacque a Mondovi, in Algeria. Visse da francese d’oltramare fra gli arabi, figlio degli occupanti degli algerini, visse da straniero.

Lo scrittore combattente è un epiteto che lo descrive perfettamente: si è battuto per l’emancipazione dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, per la giustizia sociale, per immaginarsi una società diversa. Fu uno dei padri dell’esistenzialismo, premio nobel per la letteratura nel 1957. Le sue parole alla cerimonia furono indimenticabili, così come tutte le sue opere letterarie e filosofiche. Morì nel 1960.

Il Mito di Sisifo venne scritto da Camus nel 1942 ed è un ridimensionamento a carattere filosofico di un episodio appartenente alla mitologia greca.

Il mito originale

Sísifo pure vidi che pene atroci soffriva
una rupe gigante reggendo con entrambe le braccia.
Ma quando già stava
per superare la cima, allora lo travolgeva una forza violenta
di nuovo al piano rotolando cadeva la rupe maligna.
(Omero, Odissea, libro XI)

E’ la solita solfa. Zeus vuole pupparsi una bella figliuola. La rapisce per dare un pizzico d’adrenalina alla vicenda. Sisifo lo becca e si vende l’informazione a screzio. Quel mafioso di Zeus gli spedisce a casa Tanato (dio della morte) per chiuderlo nel Tartaro. Sisifo lo fa ubriacare e lo incatena. La morte scompare dal mondo per un po’ (EPIC WIN).

Però così Sisifo s’è divertito pure troppo, quindi Zeus decide che il cagacazzi il furbetto deve penare per aver sfidato gli dei.

In sostanza Sisifo deve compiere eternamente la stessa azione: trasportare un grande masso fino alla cima di una montagna per poi vederlo rotolare subito dopo fino alle pendici.

Il saggio

Albert Camus riprende il mito e lo utilizza come metafora della condizione esistenziale del suo tempo. La generazione di Camus era appena uscita dal totalitarismo nazista ma si trovava ancora ad affrontare quello sovietico. Una generazione che come lui stesso scrisse “non poteva essere ottimista”.

In quel contesto storico si stava generando il cosiddetto mal du siècle: una tormentosa consapevolezza dell’assurdo e dell’estraneità a sé e al mondo. Un male dello spirito che aveva il sapore della guerra, della massificazione, dell’angoscia. Una forma di sgomento in cui l’uomo si sentiva in presenza del nulla, dell’impossibilità possibile della sua esistenza.

L’instabilità dello stato umano si palesava dunque con l’assurdo dell’esistenza e assumeva i contorni definiti dell’incedere inesorabile verso la morte. In questo quadretto non proprio roseo della condizione umana, Camus medita sulla precarietà dell’uomo e sul concetto di assurdo, chiedendosi in che misura il suicidio possa essere considerato una valida soluzione.

La precarietà dell’uomo

Questo è l’aspetto principale che accomuna l’analisi filosofica di Camus con quella di altri esistenzialisti come Sartre e Heidegger (anche se l’esistenzialismo camussiano è di stampo etico mentre l’esistenzialismo di Heidegger è fenomenologico)

A riguardo, all’interno del Mito di Sisifo sono citati dei versi tradotti dal greco, appartenenti a Pindaro che esplicano perfettamente il concetto di precarietà dell’uomo:

ἐπάμεροι τί δέ τις; τί δ’ οὔ τις;
σκιᾶς ὄναρ ἄνθρωπος

Pianta effimera noi cos’è il vivente? Cos’è l’estinto?
Un sogno d’ombra è l’uomo.

L’uomo è fragile e transitorio, come una “pianta effimera”. Infatti ἐπάμεροι etimologicamente deriva da ἐπί ed ἡμέρα e significa letteralmente “creatura di un giorno”, quindi va inteso come una rappresentazione dell’individuo in quanto creatura esposta ogni giorno ad una possibile fine.

L’espressione successiva “σκιᾶς ὄναρ” (sogno d’ombra) accosta due termini emanticamente vicini, evocando un’idea di inconsistenza assoluta, un vero e proprio “niente di niente”. La descrizione rivela tutta l’evanescenza, la fugacità dell’essenza umana. L’uomo è allo stesso tempo qualunque e nessuno. Perchè?

Il sentimento dell’assurdo

L’uomo si scopre per quello che è nel deludente rapporto col mondo. La nascita del sentimento d’estraneità rispetto ad esso è causata dalla finitudine umana, sofferta e non mai accettata, dall’infinità dell’universo, la cui primitiva ostilità risale a noi attraverso millenni, e dalla contraddizione che lega l’una all’altra.

Il sentimento d’estraneità, che secondo Camus rivela all’uomo l’assurdo dell’esistenza, nasce innanzitutto in relazione all’universo. Quest’ultimo infatti ci sfugge e ci è estraneo in quanto si espande e ritorna eternamente sé stesso. Il mondo di per sé è irragionevole, ma l’assurdo non sta nell’irrazionalità del mondo ma nella relazione tra la suddetta irrazionalità e il violento desiderio di chiarezza dell’uomo.

Nella fattispecie posso dire che l’assurdo non è nell’uomo e neppure nel mondo ma nella loro comune presenza. […] Nasce dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole dell’universo.

Arrivato a questo punto Camus si chiede se la vita umana valga la pena di esser vissuta.

Il suicidio

Per Camus il problema non è la liceità della morte auto-inflitta dal punto di vista etico, ma semplicemente capire in che misura questa può rivelarsi utile all’uomo. Camus in questo confuta la tesi stoica (anche se propriamente etica) secondo cui l’iter mortis fosse anche libertatis via.

Il suicidio per gli stoici era «uscita razionale dalla vita» nel momento in cui ad un uomo non era più possibile esercitare la propria esistenza razionale. La concezione stoica del suicidio e quella propria di Camus risultano essere agli antipodi: il filosofo infatti reputa il suicidio una rinuncia dell’uomo di fronte alla sua stessa sfida con la vita.

Uccidersi è confessare: confessare che si è superati dalla vita o non la si è compresa

Seneca diceva che la vita è una cadente dimora: l’attaccamento ad essa e l’abitudine ci trattengono come vecchi inquilini anche in mezzo ai disagi. Tuttavia la soluzione non risiede nell’abbandonarla.

Come soluzione alla vita (e dunque all’assurdo), Camus propone il concetto di “rivolta assurda”.

La rivolta

Per spiegare in cosa essa consista, vado a scomodare un mostro sacro infognandomi in cose più grandi di me rifacendomi ad Heidegger e alla sua definizione di angoscia in “Essere e tempo”.

Innanzitutto Heidegger distingue l’angoscia dalla paura. Quest’ultima infatti è sempre timore di un quid determinato e porta con sé un necessario perturbamento:

Essa si presenta in un significato ben noto. Nell’angoscia – invece- « si è presi da un vago sgomento ». Si potrebbe domandare : « chi ? » e « di che ? ». Di che non si può dire : si prova sgomento rispetto al tutto. Tutte le cose in noi stessi affondano in una specie di indifferenza.

Ciò per cui si prova angoscia non è un “qualcosa”. E’ impossibile determinarlo perché corrisponde al nulla.

Che l’angoscia sia generata dal niente, lo constatiamo noi stessi immediatamente appena se ne va. Lo sguardo ancora fresco del ricordo si rasserena e noi siamo costretti a dire : di che e perchè ci siamo angustiati?

L’angoscia dunque non è altro che quel sentimento che mostra all’uomo la morte come unica possibilità dell’esistenza. L’uomo scopre così l’insignificanza dei suoi scopi nell’esistenza quotidiana. Dalla semplice consapevolezza dell’esserci nel mondo, egli approda alla coscienza dell’esserci-per-la-morte.

La morte supera l’esserci, lo delimita, ne costituisce l’orizzonte. Ma allo stesso tempo è il suo fine ultimo: è dunque nell’anticipazione della morte che l’esistenza scopre il proprio senso più autentico.

La consapevolezza dell’esserci-per-la-morte, il saper accettare di dover morire, qualifica l’esistenza umana rendendola autentica; presente e passato, infatti, hanno senso solo in rapporto al futuro, più precisamente a quel limite futuro che è la morte, l’ annientamento dell’esistenza.

In altri termini, la libertà per l’uomo consiste nello scegliere e nell’accettare la sua situazione di esserci-per-la-morte. Questa accettazione non ha valore di rinuncia né di disperazione, facendo cogliere all’uomo il suo precedente legame con un semplice postulato di libertà, sulla cui illusione viveva. Per questo l’angoscia è momento fondamentale nella rivolta dell’uomo: gli rivela la verità sull’esistenza, la schiavitù dell’esserci rispetto alla morte.

L’unica libertà vera e profonda sta in una schiavitù liberamente accettata.

E solo così l’uomo sarà consapevole del proprio avvenire come Sisifo. Come lui sarà libero perché privo di illusioni e di speranze. E in questo risiederà la sua rivolta.

Bisogna immaginare Sisifo felice

Il saggio si conclude con questa frase, che semplicemente svela il senso intrinseco dell’esistenza. L’uomo si perde, si cerca. Vive nel miraggio della svolta improvvisa, nell’inganno di quella deviazione eccezionale dell’automaticità dei propri giorni. Chiama la vita a gran voce: reclama alla scienza delle risposte, invoca Dio o più semplicemente si guarda dentro. Ma la vita non si tradisce, non si rivela. L’uomo si perde, si cerca e non trova mai se stesso. Trova invece il gancio che lo vincola al passato e alle sue remore tormentate. Trova le ferite generate dal continuo scontro fra le proprie illusioni e un presente che sembra non essere mai abbastanza. Trova una frustrante esigenza di sporgersi oltre l’oggi per vedere il domani, eternamente inappagabile. Tutto questo costituisce il peso dell’esistenza, il macigno gigantesco che ogni individuo porta sulle proprie spalle.

Come Sisifo non ha scelto il proprio destino ed è perfettamente conscio dell’inutilità della sua eterna fatica, così l’uomo. L’uomo si perde, si cerca, non trova sé stesso e scopre invece l’assurdo. L’assurdo che da sempre si manifesta nella totale indifferenza dell’ universo che si espande e ci sfugge poiché ritorna eternamente sé stesso. L’assurdo che rende l’uomo straniero nel mondo ma anche estraneo a sé. L’assurdo inteso come umana ferocia, bestiale e paradossalmente sostenuta dalla ragione, che mette l’uomo di fronte all’uomo, lo rivela nella sua nudità primordiale, nella sua fragilità.

Di fronte a questo quadro desolante dell’esistenza, le possibilità dell’uomo appaiono insufficienti: può condurre una vita fatta di incomunicabilità, in una lacerante e perpetua attesa di qualcosa, di qualcuno: della morte, del destino, della fortuna o persino Dio. Oppure può morire volontariamente, contemplare il suicidio e sfuggire così con un salto alla sfida dell’assurdo, rinunciando, ammettendo la propria sconfitta di fronte ad esso. L’alternativa assurda proposta da Camus nel saggio sta nel comportarsi come Sisifo.

Camus si sofferma sul momento in cui Sisifo percorre la discesa dalla montagna e va di nuovo incontro al suo macigno, al suo destino. La ripetitività di esso, nell’alienazione e nell’estraneità che il gesto eternamente inutile produce, non è affatto sterile. Anzi genera in Sisifo la consapevolezza dell’eccezionalità del suo gesto. Nel gioco assurdo dell’esistenza chi vince è Sisifo il cui sforzo gratuito è assunto a simbolo del vivere assurdo, un vivere che sembra sottrarsi al mondo dell’angoscia.

Sisifo sa già cosa lo aspetta, dunque vive senza speranza ma non disperato. Fugge dal desiderio di un’altra vita perché sa che non può averla. E la sua scelta non è una rinuncia ma un rifiuto che è una rivoluzione, una lotta continua. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Questa riflessione per me racchiude tutto il senso dell’esistenza. Il messaggio di Sisifo è che la soluzione sia sorridere all’assurdo del mondo, immergersi cinicamente nel mare del vivere, nell’ondosa indifferenza del reale.

Focalizzandosi non sulla propria dolorosa ascesa “sisifiana” che è poi l’esistenza, ma sul proprio atteggiamento durante la discesa dal pendio montuoso verso il suo destino, l’uomo può assistere al meraviglioso spettacolo di un Io-Sisifo dominatore, che ispira un senso di grandezza. Mentre discende e ritorna al proprio macigno, al proprio destino, egli è cosciente, consapevole. Sente la propria vita, la propria rivolta. Libero dalla speranza di un’altra esistenza, libero dalle paure, libero dalle fallaci credenze religiose, in balia solo e soltanto della propria ragione. Solo così possiamo immaginare Sisifo felice e solo così possiamo immaginarci felici.
Bisogna immaginare Sisifo felice.

La messa è finita, andate in pace.

Albert Camus

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