Il social Parler è finito sotto gli occhi del mondo intero dopo che, a inizio gennaio, il Campidoglio statunitense è stato assalito da una folla violenta in protesta che si sarebbe coordinata anche grazie al supporto del portale. Da allora, Parler è stato abbandonato dai suoi hosting e l’allora CEO, John Matze, è stato messo alla porta senza troppe cerimonie: l’uomo sostiene ora che la sua parte d’azienda gli sia stata sottratta dagli ex colleghi attraverso manovre losche e porta gli ex colleghi in causa.
Matze deteneva all’epoca il 40 per cento di Parler, una quota significativa che l’attuale gestione avrebbe valutato ufficialmente con il valore di tre dollari, un valore che è molto lontano dai dati che invece verrebbero discussi all’interno della dirigenza.
Non solo, l’ex CEO ha anche lamentato che il caos derivante dall’assalto a Capitol Hill sia stato adoperato come leva con cui estrometterlo dal sistema, in modo da trasformare il social in un covo partitico e fazioso mirato all’imposizione di specifiche correnti politiche.
Nel testo della causa, infatti, Matze ribadisce come Parler sia nato per garantire libertà di parola, ma che Rebekah Mercer, grande finanziatore del portale e attuale dirigente del social, abbia plasmato la situazione perché a essere censurati fossero solamente i “troll liberali“, pur lasciando galoppare l’estremismo di destra.
Tenendo conto del tipo d’utenza tipicamente legata al portale, è difficile credere che Matze sia veramente convinto degli obiettivi democratici del sito, tuttavia è da tenere conto che la causa non vada veramente a sindacare sulla questione deontologica della gestione di Parler, ma si focalizzi sul lato economico della gestione delle quote di proprietà.
A questo punto gli attuali gestori si trovano nella scomoda situazione del dover consegnare le carte a un tribunale perché venga calcolato valore effettivo del portale – il che porterebbe a galla eventuali bluff -, tuttavia non è da escludere l’eventualità di un patteggiamento.
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