Una delle frasi più celebri di Jean-Luc Godard è “È ora di smetterla di fare film che parlano di politica. È ora di fare film in modo politico”. Non c’è probabilmente modo migliore per descrivere il cinema di Simone Massi e non c’è probabilmente miglior sintesi del cinema di Simone Massi di Invelle. Il suo esordio nel formato del lungometraggio è una pellicola che dimostra come ogni testo audiovisivo ha una sua propria, imprescindibile, identità politica non solo per la storia che racconta, ma anche per il modo con cui viene realizzato.
Il film di Massi, nelle sue quarantamila tavole disegnate a mano, nel perfezionamento continuo della sua forma, nella miscelazione, anche azzardata, di altre tecniche al limite animazione e nella produzione lunga 11 anni, è una summa del percorso formativo del suo autore, affrontato ancora e ancora, e, contemporaneamente, una porta verso la sperimentazione del linguaggio. Invelle è un mondo
inesplorato, che pulsa, respira, cambia e si trasforma, come la vita di cui si occupa. Al centro c’è la storia di una bambina che nel suo attraversare la Storia del nostro Paese, dalla Prima Guerra Mondiale agli Anni di Piombo, diventa, quasi inconsapevolmente, la sorgente di un fiume – pensiero per sentire e ragionare su ciò che ha scosso e mosso la dimensione dell’uomo comune italiano nel secolo passato. Un fiume fatto di voci, volti ed esperienze, il cui scorrere attraverso generazioni permette loro di riflettersi e osservarsi, arrivando fino a noi. Un incrocio di sguardi possibile solo “invelle”.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare Simone Massi e, approfittando del suo film e della sua testa, lo abbiamo tempestato di domande sul percorso produttivo, sulle sua tecnica, la sua formazione e la sua poetica fino alle sue radici e al suo pensiero sull’animazione e lo status dell’animazione del nostro Paese.
Il salto nel mondo del lungometraggio
Partiamo con una domanda di rito, che però in questo caso è utile sottolineare: da dove parte l’idea di fare un lungometraggio come Invelle? Qual è stata la sua storia produttiva?
Della forma breve ero stanco, da anni mi sono accorto di aver dato tutto. Ci sono stati dei risvegli di fiamma, soprattutto con In quanto a no e A guerra finita, cortometraggi in cui cerco qualcosa di nuovo (e che sono i due più premiati in assoluto), ma la sostanza rimane identica. Il lungometraggio è diverso, un terreno inesplorato, zeppo di insidie che costringono a rimboccarsi le maniche, mettercela tutta. Per un autore che ha sempre fatto lavoro di ricerca la strada del lungo era praticamente obbligata.
Detto questo: l’idea era quella di raccontare una piccola saga familiare, tre generazioni di bambini che si ritrovano in mezzo alla guerra, che guardano passare il carrozzone tragico della storia d’Italia. La storia produttiva si sviluppa con figure di riferimento che cambiano di continuo e rendono difficile il mio lavoro di scrittura, anche perché ero all’esordio. C’è stato un lungo periodo in cui il mio unico riferimento era costituito dalla parte francese e lì è stata dura, durissima, perché mi avevano spinto dentro una gabbia per polli, non accettavano niente del mio stile, non capivano un accidenti di me e del mio mondo. Ad inizio 2020 entra nel progetto Salvatore Pecoraro e fa due cose fondamentali: fa uscire i francesi e mi dà carta bianca, su tutto. Problemi hanno continuato ad essercene a vagonate e non poteva essere altrimenti, vista la situazione ereditata, ma niente è più importante della fiducia e della libertà e grazie a queste è stato fatto il film.
Quanto tempo ci è voluto?
In totale ci sono voluti undici anni, dieci spesi fra attese, vuoti, niente, scritture, disegni, prove, litigi, umiliazioni, storyboard, animatic, riscritture. Un anno per realizzare il film vero e proprio, che fra le tante cose vuol dire anche 40.000 tavole disegnate a mano.
C’è il tuo volto e quello di alcuni tuoi famigliari in Invelle, quanto c’è di tuo e del tuo vissuto nel film?
Il giusto. All’inizio avevo molti dubbi e incertezze, il salto era grosso. Per limitare i danni mi sono appoggiato a quello che conoscevo meglio, la storia di mia nonna, di mia madre, la mia. Col tempo e col lavoro l’autobiografia si è ridotta notevolmente, lasciando il posto e mischiandosi a tante altre storie, vere e sognate.
Le tecniche di Invelle
Quanto c’è della tua formazione nel tuo lavoro a livello tecnico e immaginativo?
L’immaginazione penso venga dalle filastrocche e dai racconti orali, le fonti narrative che hanno riempito la mia infanzia, in un’epoca in cui nelle vite delle persone la televisione era più che marginale. Il segno, la tecnica, il ritmo e il metodo vengono sicuramente dopo, figli dell’officina, logiche conseguenze del lavoro in fabbrica.
Mi piacerebbe, parlando sempre di tecniche, sapere più del tuo tratto, ad esempio da dove viene, dai tuoi studi? Mi pare abbia due funzioni: creare un mondo in cui ambiente e personaggi siano quasi fusi e, allo stesso tempo, rendere tutto sempre vivo e pulsante.
Va fatta una distinzione fra la vibrazione del segno e la tecnica con cui realizzo i disegni. La prima caratterizza lo stile di tutti gli autori di animazione che si sono formati alla Scuola del Libro di Urbino. Una cosa che nel corso degli anni centinaia di animatori hanno trovato, preso e ridato indietro, ognuno alla propria maniera. Il tratto vibra, pulsa, perché alla bottega di Urbino si impara l’animazione tradizionale e artigianale, si impara a ridisegnare tutto da capo, in ogni fotogramma. Non solo il soggetto in movimento, ma anche ciò che in natura sarebbe inanimato e immobile, ciò che in altro tipo di animazione sarebbe risolto con un fondale fisso (case, muri, sedie, paesaggi, tronchi d’albero, tutto). Questo, l’impossibilità di rifare le linee di contorno e quelle che compongono il chiaroscuro nello stesso identico punto, creano uno spostamento delle linee stesse, fanno pulsare e rendono vivo l’intero quadro. Per qualche spettatore risulta disturbante, almeno all’inizio. Bisogna abituare l’occhio. Per quel che riguarda la tecnica di disegno invece, è costituita da pastelli a olio stesi su carta e graffiati con strumenti incisori. Una tecnica sporca e faticosa, che simula l’incisione e che sono riuscito a trovare dopo anni di ricerche. Mi permette di arrivare al chiaroscuro per sottrazione e di avvicinare i campi e i volti dei miei amati contadini, pieni di segni, di linee, di rughe.
In questo contesto come interviene il colore?
Il colore è allo stesso tempo un fatto istintivo e frutto di un ragionamento: lo utilizzo come elemento di rottura, alla stessa maniera del rumore violento all’interno della colonna sonora.
Quante tecniche di animazione ci sono dentro Invelle?
Almeno quattro: animazione 2D e 3D, animazione in fase su carta e rotoscope che si appoggia a riprese dal vero. Quest’ultima è la tecnica che più viene notata e talvolta agitata sotto al naso, quasi fosse un trucco da quattro soldi, un mezzuccio da imbroglioni.
Ci puoi spiegare come hai realizzato il passaggio con protagonista Aldo Moro?
Ecco, questa potrebbe rientrare nella possibile quinta tecnica. La scena di Aldo Moro rientra fra quelle lavorazioni ibride e faticosissime, che ho curato personalmente e che consistono nell’animare una ad una immagini estrapolate e isolate da filmati d’archivio o fotografie, assemblandole ad altre e lavorandole in trasparenza con un programma di grafica. Ci saranno sicuramente dei programmi che (con un’immagine di partenza e una di arrivo) fanno questo tipo di lavoro in automatico e in pochi secondi, l’ho messo in conto. Ma io questi programmi non li conosco e anche quando lavoro al computer rimango comunque un artigiano.
Il tuo film non è propriamente un film politico (probabilmente non nasce per esserlo), ma nel suo sviluppo lo diventa, semplicemente assumendo un punto di vista su una storia, anzi, sulla storia di una vita. Molto godardiano in questo senso. Che pensi di questo? Forse è vero che ogni film è un atto politico?
Anche più che questo, per me tutto è un atto politico: ogni parola, ogni gesto, ogni azione, ogni vita.
L’animazione, l’Italia e il pubblico italiano
Com’è stato accolto Invelle? Sei soddisfatto della reazione del pubblico? Specialmente pensando a com’era andata a Venezia l’anno scorso.
A Venezia è stato un sogno, applausi infiniti al momento dell’ingresso in sala, durante la presentazione e alla fine del film. La più grande emozione e soddisfazione artistica della mia vita. Non c’è nessun premio che possa soltanto avvicinarsi a una cosa del genere. Poi, come sai, c’è stato un anno di congelamento e abbiamo avuto freddo entrambi, io e il film. Per trovare un po’ di conforto ho preso a collezionare e pubblicare articoli, recensioni, voti… Fino a che il popolo social si è stancato, scrivevano: “Sì, bravo, abbiamo capito, ma il film quando sarà possibile vederlo?” Così per un anno, poi finalmente è uscito nel buio delle sale, che per me, per noi, significava il contrario, uscire alla luce del sole.
Il film è stato accolto incredibilmente bene, un qualcosa che non potevo neanche lontanamente immaginare. Vale per la critica, con oltre centoventi recensioni positive e appena un paio negative. Vale per il pubblico, con dimostrazioni di commozione e di affetto. Nei limiti del possibile rispondo a tutti, lo devo a tutte queste persone che oggi sento più vicine.
L’animazione è un modo di fare cinema antieconomico?
Lo è sicuramente il mio modo di fare animazione: lento, complesso, artigianale, fuori mercato e fuori dal tempo.
Come se la passa l’animazione in Italia?
Difficilmente esco dal mio borgo e non vado a studiarmi dati e carte. Non sono un esperto, ma a sensazione l’animazione d’autore comincia a mettere fuori il naso dallo scantinato, dalla buca in cui è sempre stato confinato. Speriamo non si dia fastidio a nessuno e non si venga presi a calci, in particolare da chi si è abituato a rosicchiare l’osso in solitaria.
Quanto è grande questo mondo “confinato”? Come ti spieghi tu questa situazione?
Non parlo di chi non conosco, ti posso dire che gli animatori delle Marche e dintorni, ex studenti della Scuola di Urbino, ci rimproveriamo un’unica cosa: quella di essere molto schivi, di non sapere proporre il nostro lavoro né essere bravi con i rapporti umani. Quelli più cinici dicono che non siamo bravi “a venderci”. Ma ti dico una cosa: nemmeno abbiamo voglia di imparare a farlo.
Se questa è una colpa ce la prendiamo. Tutte le altre no. Abbiamo lavorato con sacrifici e privazioni, lontano dai riflettori e senza un soldo e abbiamo portato risultati nei principali festival internazionali, quelli specializzati come Annecy, Zagabria, Stoccarda, Hiroshima, e quelli del cinema tradizionale, come Cannes e Venezia. Lo ripeto: da decenni portiamo dei risultati eccellenti. Nonostante questo non andiamo oltre il trafiletto sul quotidiano locale o la menzione frettolosa sul telegiornale regionale. Questo è quanto. Capire il perché siamo sistematicamente ignorati dalla critica, dai media, dalle case di produzione, dalle film commission è qualcosa che evidentemente è più grande di noi. Ma se devo azzardare un’ipotesi è la seguente: in Italia non c’è nessuna cultura del cinema di animazione.
A distanza di centotrent’anni non si è ancora superato il cliché che il cinema disegnato non possa essere altro dal cartone animato, che sia obbligato ad essere intrattenimento per bambini. Il fatto che il disegno, nella patria di Giotto, Raffaello e Caravaggio, debba per forza ridursi a caricatura è un qualcosa di sconcertante. In un Paese oscenamente corrotto, servile e stupido come l’Italia certe situazioni -non solo legate al mondo dell’arte- devono rimanere come sono sempre state, mi pare evidente. Di conseguenza il nostro era e rimane un piccolo e insignificante mondo, un fazzoletto di terra fuori dal tempo e popolato da stupidi e disgraziati di cui nessuno si preoccupa. Una sorta di “Invelle”.
A proposito, ce lo puoi dire di nuovo: che vuol dire “Invelle”?
Da quel che so: viene dalla locuzione latina ubi velles (in seguito in de ubi velles), «dove tu voglia, in qualunque parte». Successivamente l’espressione viene volgarizzata in induvèlle, invèlle, con il significato originale che si rovescia e diventa «in nessun luogo», «da nessuna parte». Nella mia infanzia si sentiva spesso in risposta alla domanda “Ndo vai? / Dove vai?” oppure associato a una ricerca vana “N’ l’artrovo ‘nvelle! / Non lo trovo da nessuna parte”.