Uno dei motivi per i quali la quarta stagione di The Umbrella Academy è tanto attesa sta nella risposta di una nicchia di pubblico che nel corso del tempo ha dimostrato una grande affezione alla serie ispirata all’omonimo romanzo di Gerard Way e Gabriel Bá, a cui è stata sempre riconosciuto soprattutto il merito di aver avuto cura di mantenere l’attinenza all’atmosfera e al tono della pagina stampata.
Pensate che lo show Netflix ideato da Steve Blackman è riuscito, in occasione della sua ultima sortita, a contendere il primato di “views” addirittura con un colosso come Stranger Things, la cui egemonia è stata sul lungo termine messa in crisi poche volte tra i prodotti seriali. Questo però succedeva due anni fa, sarà cambiato qualcosa dopo i ritardi nella produzione dovuti al COVID-19? Come prenderanno gli afecionados dei fumetti una stagione che si discosterà gioco forza dai fumetti, avendo esaurito oramai i cicli da adattare? Forse la trovata di limitarsi a sei puntata potrebbe aiutare.
Tra questi interrogativi, le promesse da parte degli autori di aver lavorato a stretto contatto con Way e Bá, le entusiastiche reazioni agli aggiornamenti del cast e un teaser trailer scoppiettante, l’unica cosa certa è che quello che uscirà l’8 agosto 2024 sulla piattaforma del Tu Dum sarà l’ultimo atto della storia della famiglia Hargreeves.
Ancora una questione di famiglia
Il cliffhanger alla fine della scorsa stagione di The Umbrella Academy ha lasciato tutti di stucco, coronando la politica di un terzo atto che, “nascondendosi” dietro la trovata dell’Hotel Oblivion come riduttore della complessità (perché punto centrale di trama e di azione), ha votato invece tutti i suoi sforzi nel manipolare trovate e spunti di scrittura e messa in scena per sorprendere lo spettatore.
Ma d’altro canto, questa è la mentalità dello show così come dei fumetti: quella di un adolescente emo incasinato che vuole sottomettersi neanche alle logiche del perché nel latte ci vanno i cereali, la pecora nera, il fratello minore e chiassoso dei fratelloni più seriosi, maturi, ma anche costruiti della Marvel e della DC, meno in grado di inquadrare il senso di fine che ormai divenuta una condizione esistenziale di una generazione intera. Diciamo che la scorsa stagione ha solo esagerato un pochino.
Ricominciamo da lì e ricominciamo per l’ennesima volta e nell’ennesimo universo dopo l’ennesimo apocalisse, con gli Hargreeves originali (più l’ormai affiliata Lila Pitts e il Ben cattivo, ma buono degli Sparrows) ancora più divisa, ma con la rinnovata speranza di poter finalmente voltare pagina e lasciarsi alle spalle il ciclo infinito di morte e rinascita multidimensionale, specialmente perché tutti loro sono stati privati dei poteri. Una fiducia ovviamente mal riposta, perché finché c’è vita c’è speranza e non è neanche detto che i poteri non possano tornare, basta che uno dei membri trovi il modo, magari perché insoddisfatto dalla nuova vita.
C’è da dire anche che questa evenienza non è totalmente da condannare, visto che anche questa linea temporale non è assolutamente priva dell’influenza delle minacce passate. Lo testimonia un gruppo che farebbe rivalutare a chiunque la credibilità del pensiero complottista chiamato i Custodi, guidato da un dinamico duo che risponde al nome di Jean e Gene, i quali giurano di aver avuto memorie di loro vite alternative. Essi si considerano delle prove viventi di quello che chiamano (guarda caso) “l’effetto Umbrella” e gli unici in grado di proteggere l’avvenire della cosiddetta Catarsi. Abbastanza inquietante per costituire una minaccia all’altezza della nostra famiglia disfunzionale preferita?
Una riflessione sull’apocalisse
The Umbrella Academy, in quanto prodotto culturale, è stato concepito per inquadrare la ricerca spasmodica di un ordine nel caos interiore dei primi Millennials, la stessa che da angoscia attivante è divenuta col tempo accettazione e alla fine una triste consapevolezza dal sapore di scusa. Una compagna di vita da accettare, coccolare e, se possibile, addirittura assecondare.
Una dimensione che riguarda il micro come il macro e ha permesso a Blackman e soci di giocare con l’universo famiglia della serie ragionando su un livello di funzionamento sia collettivo che singolo, riuscendo a destreggiarsi in realtà sempre piuttosto bene nel portare avanti i due rami. Complice in questo anche un cast dalla chimica subito importante, che ha saputo accogliere molto bene le nuove aggiunte (stavolta ci sono il signori Nick Offerman e David Cross) e ha saputo ammortizzare delle trasformazioni non troppo felici, in primis quella del personaggio interpretato da Tom Hooper, da sempre in cerca d’autore. Sugli scudi, invece, ancora una volta c’è Aidan Gallagher, seguito a ruota da David Castañeda e Ritu Arya, sottotono stavolta Robert Sheehan, mentre fanno il loro (con tutti i limiti) Emmy Raver-Lampman, Elliot Page e Justin Hong-Kee Min.
L’ennesima ricollocazione lascia dei feriti, ma alla fine, a discapito dell’ormai canonica rocambolesca scrittura, tutti si rimettono sui binari e affrontano un mondo che, pur guardando maggiormente alla nostra attualità rispetto al passato, ha il suo cuore in una fiction al solito estremamente derivativa (Matrix, Twin Peaks, Terrore dallo spazio profondo, Akira e un po’ di cinema di Cronenberg), cercando quindi di trovare ancora una volta il proprio posizionamento a metà tra l’ironia homevideo e lo splatter da B Movie, non aiutato da effetti speciali posticci (un malus della serie fin dalla sua nascita).
La sfida più grande della quarta stagione The Umbrella Academy è ancora una volta quella riuscire a trovare il bandolo della matassa a livello famigliare, così da riuscire a concludere una parabola che vuole essere metafora del percorso collettivo descritto un paio di paragrafi più su. L’interrogativo che si aggiunge stavolta riguarda il dovere morale di un gruppo di supereroi costretti a salvare un mondo ingiusto, dove la diversità causa collasso e distruzione, l’umanità è mal sopportata e l’amore è possibile solo con un atto di egoismo estremo. Un mondo così magari non merita di essere salvato. Magari non lo meritiamo neanche noi, che ne siamo parte e dunque fautori. Il problema vero però è che pare non sia un’alternativa valida, nonostante le infinite alternative. Pensieri depressivi, ma d’altronde, su cosa volete che rifletta un emo ribelle che ha il muso lungo anche la mattina quando fa colazione.
Nella recensione della quarta e ultima stagione di The Umbrella Academy abbiamo parlato di una conclusione coerente (nel bene e nel male) alla serie Netflix ideata da Steve Blackman e ispirata ai fumetti di Gerard Way e Gabriel Bá. I difetti sono i soliti, sia a livello di scrittura che di messa in scena, ma i pregi sono evoluti, perché oltre al solito giochino del multiverso metafora della continua crisi famigliare dei protagonisti, è presente una riflessione sul significato dell'apocalisse e di com'è cambiato nel corso del tempo per una generazione intera. La cosa migliore della serie rimane la fedeltà allo spirito del titolo originale.
- Nonostante tutto, c'è una direzione più precisa rispetto al passato.
- Ci sono dei personaggi che reggerebbero una serie dedicata.
- Qualche trovata derivativa è funzionale.
- Probabilmente il miglior mondo tra tutti quelli della serie.
- Il valore simbolico del finale.
- Le solite storture a livello di scrittura.
- Gli effetti continuano a risultare posticci.
- Tra gli archi singoli c'è chi soffre di più.
- L'innesco al finale è piuttosto rocambolesco.