Omen è uno di quei franchise horror che ha attraversato il passaggio di millennio vedendo la visione autoriale e semantica, interessante e originale, che l’ha originato in un succedersi di cliché visivi e storie a buon mercato, riducendosi così a cercare di sopravvivere grazie al proprio nome. Una di quelle saghe che alla fine ha abbassato i propri standard fino a divenire niente più che un vezzo, cinema da popcorn senza sale. Le mancava solamente la prova del reboot, un bivio che tante altre sue simili hanno percorso nel recentissimo passato, andando incontro a destini alternativi: c’è chi ha beneficiato di una visione giovane e connessa al contemporaneo e chi invece è sprofondato del tutto, esaurendo il proprio ciclo.
Nella recensione di Omen – L’origine del presagio, al cinema dal 4 aprile 2024 con 20th Century Studios, vi raccontiamo della pellicola d’apertura di quello che probabilmente vuole esser un nuovo inizio della saga, mascherato da prequel del primo capitolo originale, in questo caso il cult del 1976 diretto da Richard Donner e protagonista Gregory Peck. Una scelta interessante o quanto meno non scontata per ricominciare.
Come dite? Al bivio quale destino è toccato al franchise? Ebbene, il primo, quello del rilancio tramite la visione giovane e connessa al contemporaneo, soprattutto per meriti della regista Arkasha Stevenson, un esordiente nel mondo dei lungometraggi.
La ragazza, che ha curato anche la sceneggiatura insieme a Tim Smith e Keith Thomas, è stata infatti in grado di rielaborare un immaginario horror credibile e coinvolgente, dando vita ad una pellicola in grado di gettare le fondamenta per una ripartenza grazie a tematiche e meccanismi classici del genere, ma ripensati in chiave contemporanea, e costruendo un immaginario nuovo, ricco di spunti e trovate, prendendo da grandi maestri del passato e cercando una sua visione personale.
Uno spirito di commistione tra passato e presente che si vede anche nel cast internazionale, guidato da un altro talento under 30 come quello della bravissima Nell Tiger Free, alla quale sono stati affiancati due folte schiere di attori provenienti da due generazioni differenti, una più giovane rappresentata da Nicole Sorace, Maria Caballero, Tawfeek Barhom e il nostro Andrea Arcangeli, e una più “datata” rappresentata da Bill Nighy, Sônia Braga, Ralph Ineson, Charles Dance e la nostra Dora Romano.
Un’americana a Roma (per prendere i voti)
A Roma nel 1971 il clima non è proprio di quelli più sereni, data la grande instabilità politica e culturale, fautrice di una insofferenza giovanile crescente che spesso sfocia in una ribellione anche violenta da parte dei ragazzi a quella che veniva avvertita come una dominazione da coloro che ormai considerati “i vecchi”. Uno scenario che non avrebbe fatto altro che peggiorare data l’imminente crisi economica e l’affacciarsi del fenomeno della droga, che avrebbe messo in ginocchio i giovani italiani da lì a poco.
In questo panorama in fibrillazione la Chiesa cerca un proprio ordine nel tentativo di far riavvicinare il popolo a Dio e, per farlo, punta sui giovani, cercando nuove leve in grado di ispirarle. Tra queste c’è Margaret (Free), una ragazza americana convocata nella capitale italiana per lavorare in un orfanotrofio femminile in attesa di prendere i voti, così da mettere al servizio di altri la propria esperienza di bambina senza genitori cresciuta in un istituto ecclesiastico.
A volerla lì è stato il cardinale Lawrence (Nighy), colui tra tutti è stato il più utile alla giovane durante la sua infanzia disturbata, infestata da visioni e da incubi di ogni sorta, ma ora superata grazia alla fede. L’uomo la affida alle cure della saggia Madre badessa (Braga) e la ragazza si trova bene sia sotto la supervisione della donna che nel suo appartamento, insieme alla coinquilina Luz (Cavallero), anch’essa novizia, che la spinge a divertirsi e a godersi la libertà prima di divenire una suora.
La solita piccola isola felice che presto però si rivelerà nascondere un terrificante segreto. Ci sono infatti delle presenze inquietanti all’interno dell’orfanotrofio, soprattutto nella persona di suor Anjelica e della piccola Carlita Scianna (Sorace), un’orfana “malata nella testa”, che tutti trattano con disprezzo, ma che a Margaret suscita affetto perché le ricorda la lei del suo travagliato ed oscuro passato.
La sorpresa nella solita cornice
Le premesse di Omen – L’origine del presagio sono più o meno le solite, riviste e straviste, ovvero quelle di un giallo dai tratti soprannaturali, per l’occasione pensato nel “sempre efficace in chiave horror” ambiente di Chiesa, che si sviluppa attraverso l’arrivo di una giovane aliena che da esterna si troverà suo malgrado coinvolta in qualcosa che l’ha sempre riguardata da vicino. Nulla di nuovo, anzi, la scrittura in questo senso pecca anche di trovate originali per sviluppare la storia, affidandosi a disegni inquietanti, suicidi improvvisi e camere segrete.
La pellicola diretta da Stevenson inizia invece, dopo il primo atto, a prendere incredibilmente i giri, cominciando a sciorinare trovate visive classiche, viste in tante pellicole che hanno fatto la storia del genere in Europa e in America, e tematiche fondamentali, come la repressione dei desideri carnali o l’autodeterminazione politica di una generazioni intera, rielaborandole in un modo straordinariamente efficace, trasformando presto un horror dimenticabile in qualcosa di inaspettato, arricchendone l’immaginario di una miriade di frecce.
Il nucleo semantico rimane invariato rispetto a quello che ha sempre mosso la saga, il controllo attraverso la creazione del male, ottenuto tramite un metaforico controcampo, quasi satirico, della discendenza sacra del Messia cristiano, ricreata dall’uomo tramite esperimenti incestuosi, ma il punto di vista viene ribaltato. Il focus non è più sulla progenie demoniaca, ma sul corpo della madre (che è madre di fatto e non madre in senso religioso) e quindi della donna tavola concettuale dove si muovono i discorsi politici, sociali e, di conseguenza, audiovisivi del XXI secolo. Apprezzabile in questo senso anche il lavoro di Tiger Free, che si presta completamente alle metamorfosi a cui la sottopone Stevenson, innamorata delle potenzialità dell’aspetto dell’attrice, che incornicia, sfigura, demolisce e ricostruisce.
In conclusione Omen – L’origine del presagio, pur essendo all’interno di una confezione di pellicola horror commerciale e poco altro, riesce a regalare degli spunti interessantissimi, quasi da cinema di genere alto, trovando il modo di riaggiornare la tradizione, rispettandola, e beneficiando di una regia fresca, esplosiva e sapiente. Una di quelle che arricchiscono il film, sfruttandone al meglio le trovate e limandone i difetti. Habemus primo capitolo di saga reboot e una nuova regista da tenere d’occhio.
Omen – L’origine del presagio è al cinema dal 4 aprile 2024 con 20th Century Studios.
Nella recensione di Omen - L'origine del presagio vi abbiamo parlato di un titolo che dalla solita cornice tira fuori un risultato inaspettato, sia per come rielaborare tematiche fondamentali dell'horror in una chiave contemporanea e sia per come ripropone immagini classiche del genere in modo fresco, ma rispettoso. Merito soprattutto della regista esordiente, Arkasha Stevenson, che stringe un alleanza con la sua protagonista, Nell Tiger Free, per mettere in scena una pellicola decisa a fare del corpo femminile un tavolo concettuale dove proporre un discorso politico e cinematografico profondo, ma anche coerente con lo spirito del franchise. Un titolo che può dar vita ad un nuovo ciclo.
- La regia di Stevenson è notevole, perché rielabora e arricchisce il film.
- I discorsi tematici sono fondamentali e sviluppati in modo efficcace.
- Ciò che c'è di classico viene rielaborato molto bene, sia a livello semantico che visivo.
- La prova di Tiger Free è da sottolineare, anche per come si presa al lavoro sul suo aspetto.
- Il franchise può ripartire con uno spirito nuovo.
- La cornice e le premesse sono le solite.
- Gli spunti sono interessanti, ma le radici sono tutte già viste.
- La sceneggiatura non è proprio brillante.