Enzo d’Alò è probabilmente il regista d’animazione italiano più importante degli ultimi 30 anni. Un gigante del nostro movimento, che ha collaborato con artisti incredibili sia in ambito letterario che musicale, nomi come Francesco Tullio Altan, Luis Sepúlveda, Paolo Conte, Dario Fo, Lucio Dalla e Pino Daniele. Il cineasta napoletano ha firmato pellicole indimenticabili come La Gabbianella e il Gatto, Opopomoz o Momo alla conquista del tempo, che hanno dato lustro al nostro Paese, dimostrando che possiamo vantare una realtà importante e che ha delle caratteristiche che possono permetterci di dire la nostra in campo internazionale, anche davanti ai soliti giganti. Non solo, i titolo di d’Alò hanno nel tempo acquisito un valore educativo importante, soprattutto grazie alla loro capacità di veicolare messaggi universali, contemporanei e mai banali in grado di raggiungere un pubblico incredibilmente verticale.
A distanza di diversi anni, l’autore ha dimostrato questa sua capacità di scrittura una volta ancora con Mary e lo spirito di mezzanotte, uscito nelle nostre sale a fine settembre 2023 e candidato come migliore film agli European Film Awards 2024, andando ancora una volta a trasformare un romanzo culturalmente attaccato alla propria Terra di origine in una storia universale.
La sua carriera non si ferma a questo (anche se basterebbe e avanzerebbe), ma ci restituisce anche un regista con la voglia di sperimentare in continuazione, non facendosi mai problemi a pescare da universi lontanissimi, mettendo in scena i propri progetti cambiando spesso anche tratto, stile di disegno e stile di animazione, cercando di evolversi e rimanere attaccato al progresso.
Di tutto questo abbiamo avuto il piacere di parlare con lui, ma anche di come ha cominciato a fare questo lavoro, da dove è partito, del perché ha sempre amato così tanto adattare, di cosa significa “fare un film per bambini”, della sua vicinanza all’animazione giapponese e del momento che sta vivendo l’industria nel nostro Paese, anche in virtù delle ottime risposte che sta avendo in sala l’ultimo lavoro di Hayao Miyazaki.
La storia è la parte più importante di un film
Volevo iniziare chiedendoti dell’“arte dell’adattamento”, visto che tu sei uno specialista in materia guardando la tua filmografia. Cosa ti piace di questa pratica? Perché l’hai scelta? Ti è capitata e basta?
Io leggo molto, lo faccio da quando ero bambino e spesso cerco storie che possano interessarmi o capita che qualcuno mi suggerisca libri che ha trovato interessanti. I film che ho adattato sono tutti tratti da storie di grandi scrittori: da Gianni Rodari a Luis Sepúlveda, passando per Michael Ende e Carlo Collodi, e il mio nuovo film è tratto da un romanzo di Roddy Doyle, autori in grado di trasmettere messaggi emozionanti, preziosi, universali e profondi, che sono ben felice di aver trasformato in pellicole.
Io leggo molto, lo faccio da quando ero bambino e spesso cerco storie che possano interessarmi o capita che qualcuno mi suggerisca libri che ha trovato interessanti.
Nel processo metabolizzo le storie che voglio trasformare in film, le assimilo per poi plasmarle in qualcosa di mio. Se tu mi chiedessi, nei miei film più lontani nel tempo, quali sono le mie aggiunte rispetto a ciò che ha scritto l’autore, forse non saprei neanche più risponderti. Interiorizzo molto la storia e, quando la metto in scena, ci aggiungo sempre qualcosa di mio. Quando scrivo una sceneggiatura mi metto sempre in discussione, mi immedesimo nei personaggi, mi chiedo cosa farei al loro posto. Ecco perché c’è sempre qualcosa di me nei miei film. In Mary e lo Spirito di Mezzanotte l’intero filo conduttore della cucina e del cibo è una mia invenzione, nel libro c’è solo un accenno sul desiderio di Mary di diventare una grande chef, perché l’autore era totalmente concentrato sul rapporto tra lei e sua nonna. A me invece serviva uno strumento, una immagine metaforica che potesse rappresentare la relazione tra questi personaggi. Mary, senza quello stratagemma, sarebbe inoltre divenuta troppo passiva davanti alla minaccia della perdita della nonna. Scrivere un adattamento cinematografico è un lavoro che può durare anche più di un anno e non può mai prescindere dal rispetto dell’autore!
Un lavoro sulla scrittura enorme, perché?
Perché la storia è la parte più importante del film, va elaborata, nel caso di storie tratte dai libri voglio essere certo di non tradire l’autore che l’ha scritta. A volte, per arrivare alla stesura finale, scrivo anche 15-20 versioni della sceneggiatura.
C’è qualcosa che ti ha insegnato l’importanza di prendere questa strada “meno usuale”?
All’inizio della mia carriera ho lavorato con i bambini. Ero in un laboratorio di cinema che aveva il compito di dar vita a dei cortometraggi ideati da loro. Il mio ruolo era semplicemente tecnico: dovevo lasciare i bambini liberi di esprimersi, accompagnarli nel processo creativo e realizzare infine il film con loro.
Devo dire che ho imparato più di quello che ho insegnato, perché i bambini sono eccezionali, hanno una capacità straordinaria di costruire le storie che desiderano raccontare. Da loro noi possiamo imparare molto, perché non sono condizionati e arrivano dritti all’obiettivo, senza filtri, attraverso percorsi mentali di originalità e assoluta espressione di libertà, mentre noi adulti non sempre siamo in grado di fare lo stesso.
Che vuol dire “film per bambini?”
Vorrei rimanere sull’animazione come film per bambini, focalizzandomi (con le dovute semplificazioni) su una differenza tra la concezione di Walt Disney, che non vedeva il cinema come “film per bambini” e Hayao Miyazaki, che invece considerava il fare “film per bambini” come sua massima ambizione.
Bisogna capire cosa si intende per fare “film per bambini”. Se con questa definizione intendiamo un film semplice e superficiale, allora non abbiamo considerazione per i bambini, che invece sono in grado di comprendere gli stessi messaggi pensati per un film per adulti. Semmai possiamo considerare film non per bambini quelli contenenti scene non adatte alla loro visione, violente o scabrose, altrimenti non esiste soglia di comprensione o difficoltà di messaggio che i bambini non possano comprendere. Tutti noi che facciamo questo lavoro non possiamo che avere stima per questo meraviglioso pubblico.
Bisogna capire cosa si intende per fare “film per bambini”.
Quello che cerco di fare nei miei film è coinvolgerli nel modo più ampio possibile con storie o situazioni in cui tutti si possano identificare. Penso alla scena finale de La Gabbianella e il Gatto, dove non viene rappresentato solo il diverso (la gabbianella) che torna con orgoglio tra i suoi simili, ma anche la figlia che lascia i genitori, e la gran parte del pubblico si identifica soprattutto in questa seconda interpretazione. In Mary e lo Spirito di Mezzanotte raccontiamo le vicende di una famiglia irlandese, ma che potrebbe essere anche italiana, o cinese, o di qualunque altro paese del mondo, poiché le dinamiche interpersonali sono simili ovunque.
Se posso fare una considerazione personale, trovo che il tuo cinema sia molto vicino a quello giapponese.
Me lo dicono spesso e un po’ lo penso anche io, non perché io voglia inseguire una cultura che non è la mia, ma piuttosto per il modo di trattare gli argomenti. Credo che il cinema per bambini sia cinema per tutti e che, costruendo più soglie di lettura della storia, posso riuscire a parlare sia ai grandi che ai piccini. Mi piace immaginare di avere davanti allo schermo persone che comprendono allo stesso mio modo le dinamiche, anche se complesse. Apprezzo molto l’introspezione del cinema giapponese, con la sua capacità di raccontare le inquietudini e i sogni degli adolescenti, i loro problemi, e tutto sommato questo si riassume nel non catalogare l’animazione come genere, ma ritenerlo cinema a tutti gli effetti, come ha detto Guillermo Del Toro: il cinema d’animazione non è un genere, ma è una tecnica. È sempre cinema, la gioia di raccontare attraverso le storie.
Come ti spieghi questa vicinanza?
Perché fa parte della mia visione della vita. Ogni film racconta un po’ la mia visione del mondo e di come vorrei che fosse. Trovo interessante come, nonostante io non voglia assolutamente essere didascalico, tutti i miei film vengano considerati educativi: per me un film è riuscito se riesce a portare ad una riflessione, senza nessun tipo di pregiudizio o di giudizio. Questo perché nel mondo non esistono bene o male. Come insegnava Gianni Rodari, nella realtà non ci sono i “cattivi a prescindere” e io cerco sempre di rimanere attaccato al reale per poi far volare la fantasia, l’immaginazione.
L’Italia e il cinema d’animazione
Qual è lo stato dell’industria italiana?
Penso che in Italia l’animazione sia ancora considerata un genere rivolto ai bambini e non percepisco segnali di reale interesse ad investire nei film in animazione. Ci vuole innanzitutto un incentivo mirato a far crescere l’industria dell’animazione evitando il monopolio degli studi che purtroppo mirano più alla quantità che alla qualità e non alimentano la crescita dei professionisti, ma piuttosto li ghettizzano in un lavoro di routine. Nel nostro Paese, infatti, fatico molto a trovare bravi animatori con esperienza nei lungometraggi, perché purtroppo la loro esperienza è quasi sempre limitata al prodotto seriale. Di per sé non è affatto negativo lavorare nelle serie TV, ma io spero sempre che questi giovani possano fare esperienze in produzioni internazionali di livello dando continuità al proprio lavoro, cimentarsi nelle produzioni filmiche significa conquistare un grande bagaglio d’esperienza che ti apre le porte nel mondo. Nel mio caso posso dire di essere stato molto fortunato in questo senso, perché ho avuto molto spesso la possibilità di contornarmi di bravi professionisti, alcuni dei quali sono cresciuti al mio fianco. Con tutti loro ho instaurato un rapporto di totale fiducia. Ma non è mai abbastanza e se in Italia non si producono film in animazione che possano creare un indotto e un ricambio generazionale, sarà difficile competere con gli altri paesi che stanno avendo una crescita esponenziale nel settore.
Ci vuole innanzitutto un incentivo mirato a far crescere l’industria dell’animazione evitando il monopolio degli studi che purtroppo mirano più alla quantità che alla qualità e non alimentano la crescita dei professionisti, ma piuttosto li ghettizzano in un lavoro di routine.
Questo tipo di cinema costa tanto, quindi bisogna andare alla ricerca di produttori anche all’estero e costruirsi una articolata rete finanziaria. Sulla base dei Paesi che partecipano alla produzione è necessario poi mettere insieme l’equipe adatta. L’ideale per me sarebbe fare di nuovo un film interamente in Italia, anche per far crescere il nostro settore, e i piccoli studi (nei quali io credo fortemente) che soffrono la mancanza di continuità nel lavoro, nonostante possano vantare una creatività incredibile, come testimoniano i risultati di cui io stesso ho potuto beneficiare nei miei film.
È d’accordo nel dire che questo è un buon momento per puntare di nuovo sull’animazione in Italia, visto anche l’apprezzamento senza precedenti per Il ragazzo e l’airone e il ritorno nelle sale?
Vorrei essere d’accordo con questa affermazione, però ricordo che anche dopo il successo de La Gabbianella e il Gatto si disse la stessa cosa, mentre invece i risultati dei film che seguirono, italiani ed europei, non raggiunsero più gli stessi livelli. Ritengo che lanciare nel mercato un film di animazione sia un’esperienza completamente diversa dal lancio di un film dal vero.
La concorrenza americana, il monopolio Disney di quasi settant’anni senza concorrenza, ha creato l’illusione che gli unici film “belli” e professionali siano i loro. Quando si decide di investire in un film di animazione, dunque, bisogna in qualche maniera contrastare i battage pubblicitario e di marketing con tutti gli strumenti possibili, con una strategia originale, non omologata, possibilmente fantasiosa. Ma questo presuppone un’esperienza che forse manca. Faccio invece i complimenti a Lucky Red che ha fatto brillare come meritava il nuovo film di Miyazaki, davvero un lancio intelligente e strategico.