Il mafia movie è uno dei generi che probabilmente a livello commerciale ha più aiutato il nostro settore audiovisivo. Lo splendido Gomorra di Matteo Garrone ha fatto da sunto e da apripista e non solo per quanto riguarda la serie televisiva omonima, che ha ricevuto un plauso internazionale quasi senza precedenti per un’operazione seriale italiana, ma anche per aver insinuato nel nostro modo di progettare storie una narrativa derivante da quell’immaginario, fatalmente legato alla nostra tradizione. Se ci pensate l’altro film fondamentale per il nostro cinema pop (a differenza della pellicola del 2008 rimasto senza seguito), ovvero Lo Chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, è un cinecomics permeato da quelle strutture crime che tanto conosciamo.
Tra i tanti autori che hanno sviluppato questo nostro filone sia cinematografico che televisivo uno solo è stato in grado di indirizzarlo e quel qualcuno si chiama Stefano Sollima, la cui attrattiva ha portato anche i nordamericani a convocarlo presso il loro (ex) tempio d’orato, dove tra l’altro ha fatto anche molto bene con due pellicole molto valide. Il cineasta romano è la mente dietro a Romanzo Criminale – La serie (sempre Anno del Signore 2008), il cui successo lo ha portato a debuttare sullo schermo con ACAB – All Cops Are Bastards, primo capitolo della “trilogia criminale” composta insieme a Suburra e alla pellicola uscita questo dicembre dopo essere stata in concorso all’80esima edizione della Festa del Cinema di Venezia, Adagio. In mezzo ci sono state anche la già citata Gomorra – La serie e ZeroZeroZero.
Il mafia movie è uno dei generi che probabilmente a livello commerciale ha più aiutato il nostro settore audiovisivo.
L’ultima pellicola di Sollima è un’ennesima grande operazione produttiva per il cinema italiano (costata più di 10 milioni di euro) che cerca di attrarre il pubblico grazie al coinvolgimento di nomi importantissimi come Pierfrancesco Favino, Toni Servillo e Valerio Mastandrea, in copertina, ma non più importanti nell’economia della pellicola di quelli di Adriano Giannini e Gianmarco Franchini, un altro grande trattato di genere crime e una chiusura speranzosa verso il futuro e le nuove generazioni.
Letto in quest’ottica Adagio potrebbe essere quasi un Gomorra al contrario, non l’inizio, ma una fine di un percorso, che nel cinema, dove veramente “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” potrebbe voler dire che siamo di fronte ad un crocevia sul quale in futuro potremmo tornare più volte. Speriamo per motivi positivi. Quello di cui siamo certi è che non possiamo rinunciare ad una forza motrice industriale in un momento in cui il nostro movimento vive solo di fenomeni benvenuti, ma mai organici, come C’è ancora domani di Paola Cortellesi.
La potenza del genere
Stefano Sollima è stato in grado di rileggere il sistema del potere del nostro Paese attraverso una cifra cinematografica che lo ha legittimamente proiettato nel gota del cinema italiano. Lo ha fatto con una visione che ha il suo peggior nemica in una cattiva propriocezione, che la porta a sentirsi bistrattata senza un motivo apparente, come se fosse la figlia minore di qualcun’altra e quindi gli serva sempre altro per legittimarsi.
Stefano Sollima è stato in grado di rileggere il sistema del potere del nostro Paese attraverso una cifra cinematografica che lo ha legittimamente proiettato nel gota del cinema italiano.
Un lancio di stile, una struttura semantica in più, un altro riferimento visivo, col rischio di sovraccarico sia tematico che estetico, quando è perfettamente in grado di raccontare le logiche revansciste di un’epoca storica in cui la lotta per la sopravvivenza è ormai arrivata ad ogni livello. Motivo in più per la tradizione che si porta dietro, sia italiana, che europea che, ancora, nordamericana, luoghi dove nel corso degli anni sono affiorati fior fior di autori che hanno implementato le logiche del genere, mischiandolo il crime al noir e via dicendo.
Dicevamo, Sollima è riuscito a prendere questo genere e ad elevarlo a chiave di letture della nostra Italia, prima mettendosi dalla parte dei celerini, attraverso i quali mettere in risalto le idiosincrasie che stanno dietro all’ordine, e poi andando dall’altra parte, parlando di politici, criminali e facendo capire, come in ogni crime che si rispetti, come i due sistemi di regole possano essere paragonabili. In mezzo ci sono delle persone che cercano di sopravvivere, incapaci di essere dominatori del proprio ambiente. Anzi, uscendo infine sempre sconfitti e senza possibilità alcuna di redenzione, schiavi di un modus operandi che ormai esercita su di loro quasi un fascino sessuale.
Creare un immaginario
Un’altra enorme capacità di Stefano Sollima è quella di riuscire trasfigurare la realtà in un immaginario cinematografico la cui riuscita è determinante per rimanere impresso nella memoria popolare. Dopotutto spesso si parla di mitologia, di un universo che deve vivere tra realtà e allegoria e che quindi, come tutti gli altri che si pongono in una dimensione di mezzo, deve stare attento a non scadere nel disequilibrio. Specialmente il crime – oseremmo dire – che vive di rimandi al fumetto e al cartone animato.
Il regista romano eccelle quindi perché è stato in grado di creare dei mondi straordinari, tra l’altro anche in modo che potessero tra di loro parlarsi, riuscendo ad aggiungere al suo immaginario un certo fil rouge estetico e semantico che si può leggere come se fosse una conversazione endogena tra i suoi film. “Se non è un autore questo“, direbbe qualcuno.
Un’altra enorme capacità di Stefano Sollima è quella di riuscire trasfigurare la realtà in un immaginario cinematografico la cui riuscita è determinante per rimanere impresso nella memoria popolare.
Suburra è interamente ambientato sotto la pioggia, che prima è punitiva, non democratica. Cade sugli ultimi mischiata al piscio e alla boria suprematista di quelli che si credono i padroni del mondo. Suburra è un film che inizia nelle stanze e nei piani del potere per poi livellare verso il basso, fino a fare della pioggia un’opera di purificazione. Una pulizia che cade su tutti quanti allo stesso modo e che sommerge i giusti e gli ingiusti. Un’immagine che accompagna felicemente una visione di Roma vista come collettivismo puro. Chiedere a Paolo Sorrentino.
Adagio, al contrario, è l’incendio. La fine del mondo, un mondo di vecchi e delle loro regole, le stesse che non riescono ad abbandonare e che rischiano di imprigionare anche i loro figli, che invece, e questo è un messaggio fondamentale non solo a livello filmico, ma anche a livello metacinematografico, possono opporsi.
Cambio generazionale
Adagio è la storia di un inseguimento ai danni di un ragazzo braccato da quattro tipi di paternità differenti. Quella di Paul Niùman (Mastandrea), che lo vuole sfruttare per trarre un vantaggio, come le vecchie regole impongono, quella di Daytona (Servillo), suo padre naturale a causa del cui giudizio il giovane si mette nei pasticci, quella di Vasco (Giannini), padre a sua volta di due ragazzi che cerca di tenere con sé anche ai danni di loro simili e infine quella di Cammello (Favino), che è una paternità monca, tranciata a causa del destino e che ora si fa improvvisamente viva sotto un’altra veste.
Un bellissimo modo di sfruttare il genere, forse un po’ squilibrato dal punto di vista metaforico, ma incredibilmente utile per le urgenze esatte dall’attualità, che invoca a gran voce un passaggio generazionale che desta più di una preoccupazione.
Adagio è la storia di un inseguimento ai danni di un ragazzo braccato da quattro tipi di paternità differenti.
Sollima mette al servizio di questo argomento tutta la sua sapienza cinematografica, rispettando, come sempre, le regole del crime (la guerra che parte da un motivo economico e poi si trasforma in una questione più personale) per imbastire un commiato anche ad un nostro immaginario cinematografico o forse, meglio, un certo modo di intenderlo.
Durante l’attività stampa di Adagio, il regista romano ha detto di voler continuare a raccontare Roma a modo suo, com’è giusto che sia, ma è indicativo come una pellicola da diverso tempo nella sua mente abbia preso corpo proprio adesso che c’è un’impellenza, un segnale da dover mandare. Un segnale che suona forte e chiaro e che forse segnerà un solco vedendo il quale si penserà ad un prima e ad un dopo.