L’Enzo Ferrari di Michael Mann vive secondo una velocità che non è quella dell’uomo comune, ma quella dei “fanatici“, assetati dalla “terribile gioia” che muove i piloti automobilistici. Cosa che infatti il Commendatore era o è ancora, a seconda dei punti di vista. Dorme dall’amante, ma si alza per arrivare in tempo per il caffè dalla moglie, si reca sulla tomba del figlio in modo da essere puntuale a lavoro e poter così “affrontare la giornata“. Tutti lo inseguono, Enzo Ferrari, che vive secondo una velocità che non è quella dell’uomo comune, ma di un pilota che se non può andare più in pista, almeno può essere una fonte d’ispirazione per quelli che vogliono lavorare per lui. Persino loro fanno fatica a raggiungerlo, facilmente superati, basta un semaforo verde. Tutti hanno inseguito Enzo Ferrari, anche Michael Mann, che ci ha messo più di 20 anni a portarlo in scena e finalmente ce l’ha fatta.
Nella recensione di Ferrari, in concorso all’80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e al cinema dal 14 dicembre 2023 con 01 Distribution, vi parliamo del ritorno di uno dei cineasti più importanti della Storia recente della Settima Arte a otto anni da Blackhat, che era già all’epoca visto come un “ritorno a tot anni da”, sintomo di un regista a cui ogni volta si crede di dover dare un commiato. Magari per questo ha già annunciato il suo prossimo progetto.
Tutti hanno inseguito Enzo Ferrari, anche Michael Mann, che ci ha messo più di 20 anni a portarlo in scena e finalmente ce l’ha fatta.
Prima doveva essere Christian Bale, poi Hugh Jackman, alla fine è invece Adam Driver ad indossare i panni del leggendario imprenditore, mentre le donne del film sono interpretate da Penelope Cruz, la moglie Laura, Shailene Woodley, l’amante Lina Lardi, e una bravissima Daniela Piperno, la mamma Adalgisa. Gli altri uomini hanno il volto di Patrick Dempsey, Gabriel Leone, Jack O’Connell e il nostro Lino Musella.
Il titolo, tratto dal libro di Brook Yates “Enzo Ferrari: The Man and the Machine“, si annovera tra quei biopic atipici, che si servono del genere per parlare di tutt’altro, prendendo spunto da un segmento di vita di una persona per utilizzarlo come metafora, che in questo caso è la fine di un’epoca e la necessità di trovare un modo per rinnovarsi riempiendo un vuoto. Una storia che è quasi un melò, che diventa una menage a trois con quarto incomodo. Ovvero la morte, l’ineluttabilità della fine.
Ferrari, riprendendo il nostro brillante incipit, è inseguito costantemente dai suoi fantasmi, ecco perché deve andare ad una velocità diversa.
In una mattina del 1957
In una mattina del 1957, Ferrari (Driver) si sveglia nella casa a Castel Vetro, che ha comprato alla sua amante storica, Lina (Woodley), dopo che la donna è rimasta incinta di suo figlio Piero, che ora ha 12 anni, e sgattaiola via, senza far rumore, per tornare a Modena dalla moglie Laura (Cruz), che, come lui, è già in piedi. La donna è costantemente in lutto e prima della colazione ha già in mano una pistola, che non è ancora chiaro se serva per lei o per il marito infedele. Il loro è un matrimonio che dopo la morte del figlio Dino è divenuto solamente un accordo economico. Sono partner, così li definisce Enzo. Chiaro a noi che non lo sono solo in quanto fondatori della scuderia, ma in quanto alleati contro la morte, elemento che in casa loro, lo scopriamo, c’è da tempo, perché un Dino è già morto prima della tragedia che ha colpito il loro piccolo. Un Dino che, secondo l’altra donna di casa, è andato incontro ad un destino che sarebbe stato meglio avesse preso Enzo. Insomma un bel clima.
Il Commendatore quindi scappa e va sulla tomba del suo erede che non c’è più prima di fare qualsiasi altra cosa, che in questo caso è essere un uomo del popolo e andare ad una funzione fatta per gli artigiani del metallo (lo stesso mestiere che farebbe Gesù se fosse stato ancora vivo dopo la Seconda Guerra Mondiale), uomini che credono di poter capire il funzionamento della vita stessa quando progettano un motore. Siamo ancora in quella mattina, la stessa in cui Maserati battere il record di Ferrari e la stessa in cui Ferrari comincerà il suo percorso verso la Mille Miglia (quell’edizione lì) con il peggiore auspicio possibile.
Chiaro a noi che non lo sono solo in quanto fondatori della scuderia, ma in quanto alleati contro la morte, elemento che in casa loro, lo scopriamo, c’è da tempo, perché un Dino è già morto prima della tragedia che ha colpito il loro piccolo.
Il film di Mann è una corsa da pensare al contrario (“La Jaguar corre per vendere automobili, io vendo automobili per correre“) contro la fine. La fine della Scuderia, la fine del matrimonio, la fine della vita di Ferrari come pilota e quella della segretezza della sua eredità e la cronaca di un guidatore assediato dai suoi stessi limiti, quelli che alimentano i suoi fantasmi e che lo rendono improvvisamente un uomo comune. Cosa che non è e che dunque rigetta, tradendo i suoi impegni verso le donne che le stanno accanto e i figli che non riesce a riconoscere.
Il melò si inserisce qua, prendendo tre strade diverse, per non percorrerle mai tutte fino al traguardo. La storia d’amore con un amante paziente e un figlio che vuole un autografo che lo legittimi? La storia del matrimonio fallito con una donna che riempie con il suo silenzio il continuo ciarlare dell’uomo davanti alla tomba dove è sepolta la loro vita? O la storia della crisi tra Enzo e Ferrari? L’inizio ci viene mostrato, è sempre quella mattina del 1957, il problema è il traguardo.
Riflessioni sulla fine
Ferrari è il film più funereo di Michael Mann, che, come tutti i cineasti della sua generazione, si trova a riflettere sulla fine, cercando di esorcizzare le proprie paure, ma anche di rileggere la propria poetica cinematografica. Nella pellicola infatti ritroviamo molto del linguaggio registico del leggendario cineasta, dai primi piani trattenuti alle inquadrature a 3/4 dei suoi personaggi (in questo caso molte volte di spalle, forse per i motivi di cui sopra), fino all’ossessione di mostrare come il vuoto prende vita. Un vuoto visivo, che stavolta è rappresentato soprattutto con le piste, le strade e le curve. Spazi (gli amati spazi di Mann), che presagiscono l’incombere della vita o della morte “non potendo – come ci dice Enzo – essere occupati da due corpi nello stesso momento“.
Il menage a trois che porta in scena ha il suo fulcro in uomo che è perennemente occupato a riempire, di fatti, lo spazio vuoto. Lo fa in ogni caso, sia per quanto riguarda la sua vita professionale, che privata, tranne che per quanto riguarda lo spazio il cui vuoto è causato dalla scomparsa del figlio Dino. La sua corsa è finita lì. Qui intervengono le due donne, più forti rispetto a lui perché uniche vere artefici del suo futuro.
Il vuoto visivo, che stavolta è rappresentato soprattutto con le piste, le strade, le curve. Spazi (gli amati spazi di Mann), che presagiscono l’incombere della vita (o della morte).
I problemi della pellicola stanno nell’eccessiva indulgenza con cui si guarda il Commendatore e nella rigidità con la quale lo mette in scena Adam Driver, che recita facendo fede alla resa del suo aspetto fisico (un po’ mummificato), la cui impassibilità costringe lo spettatore ad ascoltare delle spiegazioni sul personaggio (che tra l’altro escono dalla sua bocca) evidentemente didascaliche. Tutto voluto in sceneggiatura, probabilmente per aumentare la percezione del ribaltamento del genere biopic. La Cruz è brava, anche se a volte si lascia andare a degli eccessi un po’ da soap e un po’ alla “wanna be Anna Magnani”, testimoniando come, complici le scelte fotografiche soprattutto iniziali, quella dell’opera lirica e quelle relative alla recitazione “italiota”, gli americani continuino ad avere una visione del nostro Paese tutta loro. L’atmosfera però ci sta, questo è da dire.
Capitolo a parte la CGI, che penalizza i due incidenti contenuti in Ferrari, i quali hanno invece sia un evidente sapore semantico sia la voglia di shockare lo spettatore, facendo così risaltare la freddezza con cui li accoglie Enzo, che invece diventa la nostra stessa reazione. In conclusione un film molto significativo per il momento storico della filmografia di un grande regista, che fa un film sulle corse quasi metafisico, come se le macchine corressero per celebrare un funerale. Una sorta di gara funebre nella quale Mann concentra, ancora una volta, delle riflessioni significative, rivelando le proprie paure.
Ferrari è al cinema dal 14 dicembre 2023 con 01 Distribution.
Ferrari è la nuova pellicola di Michael Mann presentata in concorso all'80esima edizione della Festa del Cinema di Venezia. Un altro antibiopic dopo Alì, che il cineasta inseguiva da più di vent'anni, con protagonisti Adam Driver, Penelope Cruz e Shailene Woodley. Mann, come altri cineasti della sua generazione, riflette sulla morte, imbastendo una menage a trois con la fine come quarto incomodo e mettendo al centro un protagonista in continua lotta con la sua natura per occupare il vuoto e arrivare al traguardo. Una velocità diversa per andare avanti, che spesso fa vittime lungo la strada. Dentro la pellicola troviamo molta della poetica registica del leggendario autore, a dispetto di problemi di trucco, recitazione e CGI. Un buon film incredibilmente significativo per il momento storico della filmografia di Mann.
- La fotografia in grado di restituire le giuste atmosfere.
- L'idea del menage a trois con la fine come quarto incomodo.
- Ritroviamo delle scelte registiche tipiche di Michael Mann.
- Il discorso sul modo di procedere ad una velocità diversa per occupare il vuoto è molto efficace.
- La recitazione a volte pecca, anche per il cattivo rapporto con l'italiano.
- I momenti in CGI non sono buoni e, soprattutto, non sono funzionali al film.