In un contesto storico in cui leggiamo sempre più spesso di come gli attori o i registi si sentano stritolati in contratti che li legano a particolari personaggi o a particolari franchise, denunciando in qualche caso addirittura una sorta di ostracismo da parte del “sistema che conta” a causa di questo cordone ombelicale, è sempre più difficile trovare chi vuole legarsi ad un progetto per tanti anni. Specialmente se pensate che di questi tempi le correnti tendono sempre di più a polarizzare pensieri, pareri, sentimenti e scelte, anche professionali. Gli universi cinematografici però non accennano a diminuire, anzi, le narrazioni seriali sono sempre più il futuro di un intrattenimento che ha addirittura deciso di puntare sulle proprietà intellettuali pur di continuare il trend.
Ci sono poi le eccezioni. Due, quelle che interessano a noi, di natura completamente diversa, stavano magicamente per toccarsi qualche tempo fa, salvo poi vedere divise le loro strade. Parliamo di Zack Snyder e di Star Wars. Il primo notoriamente controcorrente, arrivato a Rebel Moon sulla scia della ricerca disperata di un suo universo narrativo (in un’intervista di dicembre ha ribadito addirittura la sua disponibilità a riprendere in mano le fila del suo progetto DC), e la seconda una saga talmente prestigiosa da attirare qualunque professionista del settore. Spesso chi si lega al mondo creato da George Lucas fa un buon affare (pensate, come ultimo esempio, a Pedro Pascal) e, in ogni caso, avere sul curriculum una posa o due in uno dei film rimane un vanto (pensate che attori come Tom Hardy hanno deciso di fare un cameo anche senza togliersi l’elmo).
Ci sono poi le eccezioni. Due, quelle che interessano a noi, di natura completamente diversa, stavano magicamente per toccarsi qualche tempo fa, salvo poi vedere divise le loro strade.
Avete avuto un brivido lungo la schiena alla notizia del cineasta di Green Bay nel mondo delle spade laser? Noi si, anche perché Snyder non può fare a meno di sparare altissimo e aveva addirittura parlato di un pitch che aveva come riferimenti niente poco di meno che Sergio Leone e Akira Kurosawa. Progetto completamente tramontato dopo l’acquisizione della Lucas Arts da parte della Disney che ha preso Star Wars e ha decisamente virato per altre rotte.
Bene, dalle ceneri di quello scritto, come l’araba fenice (un’immagine che, siamo sicurissimi, al cineasta piace al punto che può avere deciso di fare il film di cui stiamo per parlare solo per poterci fantasticare), è sorto quello di Rebel Moon, il nuovo universo crossmediale snyderiano in partnership con Netflix, il cui primo atto, Rebel Moon – Parte 1: figlia del fuoco (qui la nostra recensione) potete trovare dal 22 dicembre 2023 sulla piattaforma del Tu Dum. Universo crossmediale che di rimandi a Star Wars ne ha parecchi, sia a livello estetico che di scrittura. Non ci credete? Dateci fiducia.
In una galassia vicina vicina
Girato in back to back con la sua seconda parte (in uscita ad aprile 2024), Rebel Moon – Parte 1: figlia del fuoco vuole essere un tassello su cui poter costruire nel breve tempo possibile una struttura gigantesca, in grado di reggere (specifichiamo “ad oggi”, che le cose con Snyder cambiano di continuo) un terzo film, un cortometraggio d’animazione, una graphic novel prequel e un videogioco. Senza contare che questo nuovo universo voglia inglobare il vecchio progetto di Army of the Dead, magari inserendolo tramite il sequel annunciato Planet of the Dead? Immaginate: un pianete di questa nuova galassia vicina vicina interamente abitato da zombie. Niente male.
Dunque, per un’operazione elefantiaca da creare in breve tempo la prima cosa che serve è una sua storia e una sua mitologia. Una roba che Snyder sa fare benissimo (sono celebri i suoi intro riassuntivi più o meno riusciti più o meno spettacolari) e anche questo caso non fa eccezione. Partiamo da qui perché è proprio sotto questo punto di vista che Rebel Moon prende molto da Star Wars, anche se pure per il resto non scherza. Una cosa alla volta.
Dunque, per un’operazione elefantiaca da creare in breve tempo la prima cosa che serve è una sua storia e una sua mitologia.
A governare su tutto l’universo di Rebel Moon c’è il Pianeta Madre, la capitale del Regno, con a capo una lunghissima dinastia reale andata avanti per millenni fino a quando un complotto ordito dai più vicini alleati della corona ha portato all’assassinio dell’ultimo sovrano, della sua sposa e della loro principessa, Issa, la reincarnazione dell’antica regina madre, in grado di donare la vita. Al loro posto è salito sul trono Belisarius, un ex generale ora Reggente, determinato a dominare sulla Galassia tutta. A lui si oppone la Ribellione, un gruppo di guerrieri nomadi che tentano di combattere questa nuova potenza nascondendosi dall’Occhio del Re, una nave enorme in grado di distruggere interi pianeti. Lo capite da soli, una versione alternativa di Star Wars.
Quello che Snyder recupera dall’immaginario di Lucas è però uno snodo narrativo fondamentale e cioè la profezia, che, come nel caso del franchise con gli Skywalker, ruota intorno al concetto di equilibrio. La principessa Issa ha infatti il potere di ridare la vita per sopperire alle continue guerre di cui suo padre si è reso protagonista. Una sorta di redenzione per la più grande monarchia intergalattica. Kora, la protagonista, è il simbolo di questa ammenda, perché figlia adottiva di Belisarius (il cattivo più cattivo di tutti) ed ex guerriera decorata dell’Impero, ehm, scusate, del Pianeta Madre. Ora fuggitiva.
Quello che Snyder recupera dall’immaginario di Lucas è però uno snodo narrativo fondamentale e cioè la profezia, che, come nel caso del franchise con gli Skywalker ruota intorno al concetto di equilibrio.
Snodi tematici fondamentali della saga di Lucas, intorno a quali Snyder costruisce una trama che per larghi tratti sembra un remake di Una nuova speranza (manca solo la distruzione della nave nel finale), ma nella quale inserisce il reclutamento della squadra, un suo topos fondamentale, che rimanda ai suoi riferimenti cinematografici più amati. E questo ci porta al punto successivo.
Un universo completamente derivativo
Punto successivo: l’universo di Rebel Moon è completamente derivativo e questa sua caratteristica è anche il suo aspetto più divertente. Al netto di evidenti problemi nella resa scenografica (la cosa che più ha deluso chi scrive al momento della visione del film), i pianeti sono come delle aree della creatività di Zack Snyder, che per comporli ha preso un po’ dalla sua filmografia, un po’ dalle sue passioni e un po’ da quello che avrebbe sempre volto fare.
Il bello del cineasta statunitense è la sua visione romantica del cinema, secondo la quale sarebbe in grado di fare un film da 160 milioni di budget (la cifra delle due parti di Rebel Moon) solo per poter avere nella sua carriera l’inquadratura di un uomo a dorso nudo che, al ralenti, salta in groppa ad un ippogrifo contro luce di un sole desertico o di una donna con due lame laser rosse che infilza una donna ragno (sempre al ralenti) nei sotterranei di una metropoli aliena.
Punto successivo: l’universo di Rebel Moon è completamente derivativo e questa sua caratteristica è anche il suo aspetto più divertente.
Western, storico, horror, kolossal, jidai-geki (o chambara), cyberpunk, fantasy e sci-fi. Tutto insieme all’interno di un universo cinematografico in cui puoi vedere dei nazisti con sul corpo i fori di Matrix ammazzare barbari usando una mazza di legno, mentre i loro sottoposti sono dei soldati con un outfit che neanche i marines di Aliens se avessero in dotazione dei robot che arrossiscono. Oppure puoi vedere dei saloon con scritte giapponesi all’esterno in cui poter ambientare (quasi) le stesse del locale di Tatooine della pellicola di Star Wars del 1977.
Il nuovo film di Zack Snyder si nutre costantemente di visioni di altri cineasti sia in tema di ambienti (c’è un pianeta d’acqua e un alieno sovrano che sembra, di fatto, una mutazione genetica della razza di Jar Jar Binks, un altro completamente invernale e via dicendo), che in tema di personaggi (per quanto molti sono ancora tutti da scoprire), esattamente come fece, per altro, Lucas ai suoi tempi. La sua natura, come quella di Spielberg, era completamente votata all’escapismo attraverso il blockbuster postmoderno e infatti l’essenza stessa di Star Wars non indica la volontà di parlare del contemporaneo, quanto quella di pensare al classico. Non è un caso che non si fece problemi a rubare da universi altrui, anche incompiuti (ne sa qualcosa Jodorowski) o recuperare le logiche di poemi cavallereschi.
Oppure puoi vedere dei saloon con scritte giapponesi all’esterno in cui poter ambientare (quasi) le stesse del locale di Tatooine della pellicola di Star Wars del 1977.
Rebel Moon – Parte 1: la figlia del fuoco fa la stessa cosa, ma essendo un prodotto snyderiano prende dalla mitologia (più che altro greca) e si concentra soprattutto sugli stili registici. La ricchezza dell’idea e la bellezza della sfida del cineasta è quella di riuscire ad unire una scena alla Leone con una battaglia in stile Prima Guerra Mondiale insieme ad un duello tra ronin mostruosi e, completare il tutto, un campo largo di un pianeta con un tramonto rosso sangue sprigionato da un paio di lune. Più che la trama, più che i significati tematici, un enorme parco giochi cinematografico in cui potersi addentrare, nella speranza di creare un classico e dar vita ad un immaginario in grado di rinnovarsi e ad ispirare altri dopo di lui. Il massimo per un creativo visionario come Snyder.