The Boys nel 2019 ha effettivamente segnato un prima e un dopo nel racconto supereroistico in tv. Questo grazie ovviamente al materiale originario, ovvero l’apprezzatissimo fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson, ma anche al lavoro di (ri)riscrittura e adattamento ad opera di Eric Kripke, già dietro il successo di Supernatural, che dopo una famiglia di cacciatori di demoni ha scelto di raccontare quella disfunzionale fatta da agenti che si trovano a combattere persone dotate di superpoteri.
C’è un ribaltamento dei ruoli alla base: non si tratta delle solite forze governative o qualche scienziato pazzo che vuole disperatamente acquisire abilità soprannaturali o controllare il mondo mentre i supereroi finiscono per essere vittime e cavie da laboratorio braccate dalle autorità. Qui si tratta di supereroi che abusano dei propri superpoteri e della fama che ne deriva, facendo diventare la serie supereroistica una satira e critica alla società contemporanea, al successo dei social media, all’ipocrisia della fama e alla percezione su cui si basa il nostro tempo.
Dagli antieroi…
Tutto si può dire sia iniziato da Mad Men e Breaking Bad, che in quei lontani 2007 e 2008 hanno mostrato al pubblico ciò che quest’ultimo aveva già iniziato a coltivare dentro di sé. Ovvero una passione segreta per gli antieroi del piccolo schermo come in OZ (1997 – 2003) e The Wire (2002 – 2008). Dalla HBO alla AMC, ciò che ha affascinato il pubblico di tutto il mondo nei confronti di Don Draper e Walt White prima e Saul Goodman (protagonista dello spin-off Better Call Saul) dopo, è stato duplice. Da un lato il vedere uomini imperfetti che continuavano a voler perpetrare a tutti i costi lo stilema del machismo con cui erano cresciuti, anche mentendo sulla propria reale identità, o trasformandosi nel loro peggiore incubo.
Dall’altro il piacere che le persone provano a vedere una persona ordinaria proprio come loro, commettere le azioni e i crimini più efferati che nella propria reale vita quotidiana non avrebbero mai il coraggio di compiere. A quel punto la palla è passata velocemente al mondo fumettistico, in cui i supereroi sono sempre stati visti come, appunto, eroi. Magari vigilanti incompresi e maltrattati, come la storia della nona arte ci insegna, ma pur sempre eroi positivi alla fine della fiera. La Casa delle Idee al cinema con il Marvel Cinematic Universe ha creato un vero e proprio universo per famiglie Disney, quindi con una necessaria bontà e altruismo di fondo.
…agli antisupereroi
I due franchise fino a quel momento esterni al MCU, ovvero Spider-Man e gli X-Men, ben rappresentavano il dualismo dell’eroe, diviso continuamente tra ciò che è giusto e sbagliato, la fama e la discriminazione, ma puntavano comunque alla fine verso la retta via. Dall’altra parte della barricata – ovvero la DC Comics al cinema – avevamo da un lato la trilogia di Christopher Nolan sul Cavaliere Oscuro, forse la più dark proposta fino a quel momento in live action, e dall’altro l’approccio snyderiano estremamente epico eppure estremamente positivo.
Già con la prima Suicide Squad nel 2016 la DC però aveva provato a portare degli antieroi al cinema, ma dovendo realizzare un film per tutti non ci era riuscita appieno, parodiando un po’ se stessa e ammiccando un po’ troppo alla Marvel, parlando di redenzione di un gruppo di super-criminali. Da quel fenomeno è nato il personaggio tanto apprezzato della Harley Quinn di Margot Robbie che è riuscita ad avere un film tutto suo ed è stata tra i pochi a tornare nel secondo Suicide Squad, quello diretto da James Gunn.
Una pellicola uscita nel 2021 che sembrava aver imparato la lezione di The Boys nel realizzare un racconto davvero senza peli sulla lingua e che non dovesse necessariamente piacere a tutti: semplicemente il film che Gunn voleva fare e basta, in assoluta libertà creativa. Un risultato folle che infatti non è piaciuto a tutti ma è stato apprezzato dai tanti che cercavano un po’ di onestà intellettuale supereroistica al cinema.
Questione di redenzione
Proprio la redenzione, che è qualcosa che piace molto agli americani, non è contemplata in The Boys, in cui non sono solo i Supes (Antony Starr, Erin Moriarty, Dominique McElligott, Chace Crawford, Jessie T. Usher e Nathan Mitchell) a macchiarsi delle colpe più efferate ma anche i Boys del titolo, ovvero l’improbabile combriccola che vuole fermare la loro ascesa (composta da Karl Urban, Jack Quaid, Laz Alonso, Tomer Kapon e Karen Fukuhara). Ci ritroviamo, da spettatori, a parteggiare per i personaggi titolari piuttosto che per gli eroi “ufficiali” della storia raccontata e questo è un enorme ed epocale ribaltamento di punti di vista, se ci soffermiamo a pensarci un attimo.
Gli eroi diventano i villain, come un pompiere piromane che appicca un incendio per poterlo domare ed uscirne come eroe della situazione. Ora che siamo reduci da tre anni di pandemia globale, una guerra e una crisi economica come non se ne vedevano da tempo, abbiamo un innato bisogno da un lato di essere rassicurati, ma dall’altro forse sentiamo più la necessità di veder rappresentata la nostra rabbia per ciò a cui ci è toccato (soprav)vivere o che stiamo ancora vivendo. Una sorta di specchio della società, come spesso capita con l’intrattenimento e l’audiovisivo in generale. Solo che questa volta l’immagine riflessa è un buco nero.
Società dell’immagine
Da un grande potere derivano grandi vanità. The Boys ha ben rappresentato la società dell’immagine in cui viviamo ed ecco come sono nati gli antisupereroi: sono persone incredibilmente insicure, vanesie, che hanno un disperato bisogno di piacere agli altri e che ucciderebbero la madre pur di avere cinque minuti di notorietà e l’apprezzamento della folla. Questo è testimoniato anche dal fatto che dietro i Supes – o i Sette come viene chiamata la squadra che dovrebbe salvare il mondo ma pensa solo a salvare se stessa – ci sia una vera e propria azienda, la Vought International, che cura le relazioni pubbliche e soprattutto l’indice di gradimento dei membri della squadra.
A metà strada tra la gestione di una campagna politica e quella di star dell’intrattenimento, tutto viene studiato a tavolino per apparire il più casuale e spontaneo possibile, ma il marcio è dietro l’angolo ed è pronto ad essere sbugiardato dai Boys. Tutto ciò ci dice molto della nostra società, sempre più improntata sulla percezione, alla base dei social media, anziché sulla sostanza; su ciò che gli altri pensano della tua vita piuttosto che su ciò che ne pensi tu stesso, per finire in un baratro precario di insicurezze potenzialmente e incredibilmente dannoso.
Verso la Generazione V
Dai boomer e millennial di The Boys passiamo all’ultima generazione di supereroi con Gen V, spin-off della serie madre che prende ispirazione e distanze dal fumetto originario, con il quale Prime Video vuole provare a bissarne il successo e raccontare ancora una volta supereroi spregiudicati che non dovremmo voler imitare a casa. Creata sempre da Kripke questa volta insieme a Craig Rosenberg e Evan Goldberg, produttori di The Boys, Gen V fin dal titolo strizza l’occhio alle ultime generazioni, la Gen Z e la Gen Alpha, che bisogna raccogliere tanto in termini di target meta-televisivo quanto in termini di giovanissimi da influenzare. Il nome parte dal Composto V che ha fatto diventare le persone Supes, come una droga che crea dipendenza.
Uno sballo che gli adolescenti cercano continuamente, affinché sia più nuovo e fresco del precedente – abituati ad annoiarsi subito, con una soglia dell’attenzione bassissima tra i 30 secondi e il minuto di cui deve essere necessariamente composto un reel – e da cui forse non riescono a tornare indietro. Per un mondo migliore? Solo il tempo ce lo dirà ma vi potrebbe essere sotteso un messaggio di speranza in questa serie nuova di zecca, dietro e dentro tutto quel marciume nerissimo a cui siamo stati abituati dal franchise e della società. Eppure abbiamo bisogno anche di quello perché solo scontrandosi con esso possiamo provare a cambiare le cose. Forse.
Gen V è disponibile dal 29 settembre 2023 su Prime Video.