El Conde, la recensione: Successione col vampiro

El Conde

Per il suo ritorno in Cile dopo il bellissimo Ema, Pablo Larraín decide di occuparsi di nuovo della figura di Augusto Pinochet, affrontata indirettamente nell’altrettanto valido No –  I giorni dell’arcobaleno del 2012,  quando raccontò la storia del referendum sulla sua presidenza che il dittatore fu costretto ad indire sotto pressioni internazionali nel 1980. Ultimo atto di una trilogia di impegno civile incredibilmente efficace. Lo fa con occhi, consapevolezze e ossessioni nuove, decidendo di affrontare la vicenda con un cinema horror folkloristico che nel Paese sudamericano ha una lunga tradizione.

Nella recensione di El Conde, il film Netflix del cineasta cileno, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura a Venezia80disponibile sulla piattaforma dal 15 settembre 2023 (c’è stata anche una distribuzione limitatissima dal 7 dello stesso mese), vi parliamo di un’altra storia di Larraín sui mille volti del potere, stavolta ripreso in una chiave horror (genere con cui ha flirtato con Spencer, ma in una chiave totalmente diversa, lì c’erano i fantasmi, qui c’è il mostro) dalle forti tinte satiriche. Il succo è sempre lo stesso delle sue ultime sortite: parlare di chi ha cambiato il corso della Storia soffermandosi sul punto di vista di chi sta a loro intorno, consumati da un’aura che li ha resi, in fin dei conti, miserabili.

Lo fa con occhi, consapevolezze e ossessioni nuove, decidendo di affrontare la vicenda con un cinema horror folkloristico che nel Paese sudamericano ha una lunga tradizione.

Si, perché pur essendo una pellicola su Pinochet, Larraín si vuole occupare della trattazione della sua eredità. Ancora una volta quello che interessa al regista non è quindi l’approfondimento umano della figura storica, ma le conseguenze che hanno creato le sue azioni nei riguardi degli altri, anche quando decide che con loro lo spettatore non deve empatizzare.

Da questo punto di vista la sceneggiatura (scritta insieme a Guillermo Calderón) poteva essere una trappola, diventa invece funzionale, perché se da una parte l’attrazione per la trovata del Pinochet vampiro (non lo avevamo ancora detto?) poteva monopolizzare l’attenzione degli autori, essa si consolida in poco tempo grazie (anche alla prova maiuscola di Jaime Vadell) e questo consente loro di avere un cuore forte da poter sviscerare piano piano per potersi, nel frattempo, concentrare su altro.

Da qui parte infatti tutto il resto.

La vera razza superiore

A Parigi, alla fine del ‘700, viene lasciato sull’uscio della porta di un orfanotrofio un pargoletto di nome Claude Pinoche. Cresciuto nella grazia di Dio scoprirà di essere un vampiro assetato di sangue con una spiccata propensione per la violenza verso chi si oppone al potere, motivo che gli ha reso incredibilmente antipatici i moti legati alla Rivoluzione francese e incredibilmente affini figure come Maria Antonietta e Napoleone Bonaparte.

Costretto ad assistere alla caduta della Nazione che tanto ama così per come l’ha conosciuta, Claude decide di cominciare a combattere per sedare i vari movimenti di opposizione alle dittature in tutto il mondo fino a stabilirsi in Cile, Paese notoriamente avvezzo alle tentazioni comuniste.

Lì si sposa e cambia il suo nome in Augusto Pinochet. Con il senno di poi è passato alla Storia come dittatore soprattutto per la prima delle due scelte.

El Conde

A Parigi, alla fine del ‘700, viene lasciato sull’uscio della porta di un orfanotrofio un pargoletto di nome Claude Pinoche.

In privato si fa chiamare El Conde perché innamorato di sé, di quello che è diventato e del fascino che emana sugli altri, questo fino a che non è costretto a simulare nuovamente la sua morte, diventando così un povero vampiro di 250 anni, eremita in Patagonia, ferito dalla nomea che il mondo gli ha affibbiato. In più appesantito da una moglie che disprezza, un servo dal fare algido e ambiguo e una squadra di calcetto costituita dai suoi figli, che aspettano solo che muoia.

Muoia per l’eredità, ovviamente, che però non può essere, metaforicamente, legata solo al suo patrimonio economico, ma porta con sé un peso, un lascito e una maledizione forse troppo gravosi per le spalle di quei poveri buoni a nulla.

Cambia tutto l’arrivo in loco di una suora / contabile, suo il compito di redigere il testamento di El Conde e poi accompagnarlo ad un trapasso sereno. Ma se invece fosse proprio lei, l’incaricata esecutrice della sua morte, a ridargli la voglia di vivere?

L’eredità impossibile

Larraín si concede questo divertissement di indubbia qualità, proponendo una storia che gioca molto bene con i topoi del racconto vampiresco elaborando una metafora chiarissima, incentivata da una visione cinematografica ancora una volta molto determinata.

Cita Murnau, ma cita soprattutto Dreyer e la sua La passione di Giovanna d’Arco, basti pensare all’aspetto del personaggio di Paula Luchsinger (già in Ema), protagonista di una delle sequenze più interessanti di El Conde, in cui il regista si diverte a mettere in croce i suoi personaggi, rappresentanti fantasiosi del Cile post Pinochet, inchiodandoli con i peccati veri dei loro reali corrispettivi.

Divertito nelle sequenze di caccia notturna, nel prologo, nell’arredamento della casa del protagonista o nello svelamento dell’identità della voce narrante tutta british e incredibilmente nichilista nella trattazione dell’eredità del dittatore, che nessuno sà gestire e che quindi è destinata a durare per sempre.

El Conde

Larraín si concede questo divertissement di indubbia qualità, proponendo una storia che gioca molto bene con i topoi del racconto vampiresco elaborando una metafora chiarissima, incentivata da una visione cinematografica ancora una volta molto determinata.

Ci sono i figli, che sono disposti a confessare tutto, sentirsi dire di tutto e poi uccidere il papà; c’è la moglie, a cui interessa quella vita eterna che il marito le ha negato per 60 anni; il maggiordomo, che vuole raccoglierne lo scettro da adorante e poi c’è la giovane suora, che tradirà la volontà di Dio cedendo alla tentazione, ma continuerà ad avere fede alla missione affidatale dalla Chiesa di incastrare i Pinochet e acquisire più ricchezza possibile.

El Conde diventa dunque una favola dark a tutti gli effetti, che piega le regole del genere al suo intento politico, una cosa che Larraín ha sempre fatto. La sceneggiatura ogni tanto si sfilaccia a lungo andare, soprattutto quando deve tenere ben saldi intreccio e mitologia, per poi riuscire a chiudere bene con il finale. La regia, tolto il lato citazionistico ed incredibilmente colto, vive di mezzi busti e di una fascinazione per un revisionismo da cameretta, ma difetta nel ritmo, che si fa a tratti piuttosto scattoso, compassato poi improvvisamente scosso e poi di nuovo compassato. Un po’ come Pinochet quando si muove col deambulatore. Ma quando spicca il volo…

El Conde è disponibile su Netflix dal 15 settembre 2023.

70
El Conde
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

El Conde di Pablo Larraín, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura a Venezia80, è un horror satirico con il mostro. Un divertissement di ottima fattura, eleganza e finezza che segna la sua prima pellicola con Netflix e il suo ritorno in Cile per riprendere in mano la figura di Augusto Pinochet, indirettamente già trattata in precedenza. Una fiaba dark che richiama l'estetica di Murnau e di Dreyer che si appoggia su una metafora molto forte per parlare dell'impossibilità della successione del potere, trovando un buon equilibrio, nonostante sfilacciamenti lungo il percorso, tra la denuncia e la mitologia del vampiro. Una pellicola che gioca con un revisionismo da cameretta, acquisendo delle libertà che usa per rendere il nichilismo attraente.

ME GUSTA
  • La metafora del vampiro è chiara e potente.
  • Il bianco e nero, estremamente citazionista.
  • La chiarezza di Larraín nella sua idea di cinema e nelle tematiche politiche.
FAIL
  • La sceneggiatura si sfilaccia a volte, soprattutto nella coniugazione tra mitologia e intreccio.
  • Il ritmo è spesso scattoso, compassato e improvvisamente scosso e poi ancora compassato.
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