One Piece, la recensione della serie live action: un viaggio inaspettato

ONE PIECE

Cosa rende grande One Piece? Parliamo dell’opera originale, il manga ideato e realizzato dal Maestro Eiichiro Oda oramai da un quarto di secolo, con un meritatissimo successo mondiale.
One Piece incarna tutto ciò che rende appassionante il genere shonen, amplificandolo e rendendolo trasversale, irresistibile pur nella sua apparente assurdità. Questo lo ha reso non solo amabile dal fandom e valutabile in quanto opera d’arte, ma anche spendibile come franchise, facendone “il” best seller del genere, superato solo, per storicità e notorietà popolare, da Dragon Ball, che è stato letteralmente seminale e, nella sua maggiore semplicità, ha trovato la chiave per una diffusione più capillare.
Era tuttavia solo questione di tempo che arrivasse – dopo essere stato trasposto in praticamente ogni altro media – anche in una versione live action che fosse semplicemente uno spot televisivo o una rappresentazione teatrale. Ora il serial tv di One Piece è una realtà ed è a disposizione di tutti, su Netflix. Noi abbiamo potuto visionarlo in anteprima e abbiamo fugato, nel bene e nel male, i numerosi dubbi che avvolgevano il progetto.

Traviati dal pregiudizio o scottati dall’esperienza?

one piece

 

Impossibile non tener conto del pregiudizio che accompagna praticamente da sempre le trasposizioni live action di manga e anime: si tratta, in verità, di un sentimento più che altro occidentale, dato che in Giappone si sono sempre fatte e anche, spesso, con buoni ritorni di pubblico e investimento e risultati anche gradevoli (vedasi, ad esempio, diverse pellicole del genere dirette da Takashi Miike), per quanto spesso non paragonabili alle produzioni hollywoodiane tratte, ad esempio, dai comics supereroistici. Il problema è che il bias sulle trasposizioni da manga deriva proprio da Hollywood, che ha sistematicamente proposto adattamenti che andavano dallo sbagliato al disastroso. Netflix, di suo, ha rincarato la dose prendendo sotto la sua ala progetti dal risultato quantomeno opinabile – da Death Note a Cowboy Bebop – che le hanno valso una nomea non lusinghiera in merito a queste operazioni. Con questa base di partenza, pensare di riuscire a trasporre efficacemente qualcosa come One Piece diventa un azzardo di proporzioni cosmiche, perché si tratta di una delle opere mainstream più complesse del genere shonen, per via di world building, relazioni tra personaggi, delicatissimo equilibrio tra trovate bizzarre, umorismo spesso grottesco, buoni sentimenti, adrenalina e drammi morali. Davvero un’impresa improba coglierne l’essenza e asciugarla in una miniserie tv, restituendo le stesse emozioni e, oltretutto, senza rinunciare alla vena di follia che ne caratterizza (interiormente ed esternamente) i personaggi.
Eppure… in qualche modo, ve lo anticipiamo, la sfida è stata vinta. Non una partita perfetta, ovviamente, ma le cose sono andate meglio di ogni più rosea aspettativa.

Cosa c’è di più importante dei propri sogni?

One piece

Parliamo di un mondo sospeso in un tempo indefinito, con elementi moderni e altri arcaici, alcuni fantastici e altri futuribili; sicuramente almeno in parte distopico, in cui i popoli del mondo, sotto l’ombrello di un singolare Governo Mondiale, assistono al perpetuo scontro tra le forze anarchiche dei migliaia di pirati che solcano i mari e i tutori dell’ordine della Marina.
In mezzo al tumulto scatenato dal Re dei pirati, Gold Roger, un giovanissimo sognatore spende le sue energie per realizzare la sua più grande ambizione: raccogliere l’eredità di Roger, radunando una variegata e imbattibile ciurma che sia in cerca di avventure e abbia un sogno da realizzare come lui.

One Piece, tuttavia, presenta un livello di trovate e design che riescono a trovare enorme forza espressiva con un tratto disegnato, ma… riproposti in maniera verosimile rischiano di risultare forzati, ridicoli, senza senso. Trasporre Naruto o Le bizzarre avventure di JoJo, per quanto ricchi di elementi weird, risulterebbe comunque meno ostico. Inevitabilmente ci si scontra con tutta una serie di cose che, a partire dall’anatomia e dalle proporzioni “creative” a scopo simbolico per arrivare ai super poteri o alla “scienza” dietro di essi, sulla pagina disegnata si accetta per quello che è, mentre in live action… be’… che ne dite dei telefoni sostituiti da speciali lumache adeguatamente cyborghizzate? E questa è solo la punta dell’iceberg.

Lo stesso Oda non era convinto, inizialmente. Si possono trasporre le storie e i sentimenti alla base di esse, ma pubblico, produttori e sceneggiatori spesso dimenticano che ogni media ha caratteristiche differenti che vanno rispettate, coltivate, incentivate o abbandonate a seconda dei casi. È facile perdere il punto dell’operazione pensando che basti azzeccare qualche elemento di fan service, le citazioni, qualche bel dialogo recuperato dall’originale. Di trasposizioni sbagliate in questo modo è piena la produzione cinetelevisiva degli ultimi quarant’anni, vedasi l’ultimo live action di Resident Evil, o anche prodotti pur gradevoli ma blandi, come Uncharted o Assassin’s Creed. Esempi tratti da pellicole trasposte da videogiochi, ma il concetto è lo stesso: è un attimo sbagliare il punto di vista e prediligere l’elemento sbagliato, senza adattare al media di arrivo in maniera ragionata, come ad esempio fatto (con successo) da The Last of Us. E, c’è da dirlo, One Piece in questo è stato graziato perché chi ha contribuito alla sua creazione ha capito l’opera primigenia ma ha anche capito dove andare a parare nella trasposizione.

Sicuramente, poi, l’apporto dell’autore originale ha aiutato, e non poco, a non deragliare. In questo ci sono molte similarità con il The Sandman di Neil Gaiman, trasposto in maniera rispettosa e ragionata, ma non senza necessari cambiamenti, traendone l’essenza ma rimodernando il tutto… e inevitabilmente perdendo qualcosa che poteva essere garantito solo dal media di partenza.

WE ARE!

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Il serial di One Piece racconta, in appena otto episodi, un arco narrativo che nel manga si sviluppa in ben cento capitoli: inevitabile tranciare tante, tantissime cose, rielaborarle, accorparle. Il problema è non tagliare niente di davvero significativo, che magari abbia ripercussioni future. Il lavoro svolto in tal senso è stato davvero notevole, perché ci si è concentrati su situazioni e personaggi che potessero accentrare informazioni e scene madri senza troppi rigurgiti di informazioni a scopo narrativo e, al contempo, riuscire anche a svecchiare alcuni aspetti, addirittura aggiungendo ulteriori strati di profondità. Oda ha sempre detto che ha deciso di diventare fumettista perché gli piaceva disegnare, ma la realtà è che i suoi fan lo adorano per le storie che inventa e il vissuto dei personaggi che lo popolano: ebbene, Matt Owens e Steven Maeda sono riusciti ad approfondire i villain e restituire versioni dei protagonisti al contempo assolutamente fedeli nello spirito ma più verosimili in quanto persone reali.
I “cattivi” che incontriamo nel corso della serie (così come i personaggi “grigi”) sono ora più tridimensionali che mai, grazie ad alcuni dettagli nei dialoghi, nelle situazioni e nei retroscena. Bugy non è solo un clown sì pericoloso per via del suo potere, ma sostanzialmente ridicolo: qui fa paura, così come sono inquietanti, per il loro sprezzo della vita altrui, le motivazioni e il loro atteggiamento, tutti i villain che incontriamo, che tuttavia risultano al contempo umani e non solo macchiette che fungano da punching ball per il protagonista. C’è da dire che, a livello di possanza fisica, in alcuni casi non ci siamo, perché se da un lato ci si è impegnati per rendere al meglio il look dei personaggi, non si è voluto esagerare nel far figurare certi personaggi oltremodo alti e corpulenti come nel manga: in particolare, gli Uomini-pesce soffrono questo aspetto, ma si tratta di una scelta di caratterizzazione dovuta a un limite intrinseco rispetto al manga.

I componenti della ciurma di Cappello di paglia stupiscono per freschezza e impatto: sembrano oggettivamente usciti dalle pagine del manga, e non parliamo (solo) di accuratezza nei ritratti ma di impersonificazione dei tratti caratteriali. Lamentarsi di dettagli fisici come il naso di Usopp quando la caratterizzazione è così perfetta è sciocco e controproducente, anche perché non stiamo guardando una gara di cosplay ma una trasposizione filmica, che si deve basare sull’interpretazione. Risulta inoltre davvero ingeneroso lamentarsi di un quella che è, a conti fatti, una delle operazioni di casting più riuscite di sempre, con interpreti sempre in parte e che dimostrano di aver colto nel segno le caratteristiche dei propri personaggi… riuscendo anche a riproporle. Svecchiate, magari. Sì, perché occhio che Luffy, qui, è ingenuo ma non stupido, Nami è tentatrice ma non meschina, Sanji è galante ma non è uno zerbino.
La rielaborazione, inoltre, tiene conto di raccordi temporali inaspettati all’inizio della saga e, inaspettatamente, coinvolge anche il rating dell’operazione: ci aspettavamo di assistere a una violenza molto blanda e zero riferimenti ad argomenti come l’alcool o il fumo. E invece… potreste essere stupiti dalla crudezza di alcune scene e da alcuni elementi che non nomineremo, per evitare spoiler di qualunque tipo.

Leggi anche:

75
One Piece
Recensione di Marco Lucio Papaleo

One Piece in live action restituisce un livello di amore, rispetto e comprensione verso l'opera originale che supera ogni possibile difetto, manchevolezza o carenza strutturale. Dovete accettarlo nella sua teatralità, nel suo essere un teatrino dell'assurdo che in certi casi catapulta a un'epoca in cui i serial televisivi erano da prendere o lasciare... eppure sono diventati cult per il loro cuore, non per i loro mezzi. Che poi, oggettivamente, i set sono perfetti, la CGI è di buona fattura, i costumi stupiscono per varietà e fedeltà, quindi se qualcosa sembra “strano” non è una questione di penuria o scarso utilizzo di mezzi ma proprio a monte nel voler riprodurre in live action qualcosa che, in live action, non dovrebbe aver senso. Eppure... al cuor non si comanda, e il cuore di One Piece è un tesoro inestimabile, ben replicato in questa appassionante versione Netflix che, incredibilmente, non risulta monca, stramba, ridondante come tanti si aspettavano. Può interessare chi non conosce già la saga? Sì. È meglio l'originale? In gran parte sì. Ce n'era bisogno? Probabilmente no, ma è un prodotto con un'anima, oltre che con un cuore.

ME GUSTA
  • Palese amore, rispetto e comprensione verso l'opera originale
  • Cast azzeccatissimo
  • Rielaborazioni ben orchestrate...
  • ...che addirittura approfondiscono alcuni personaggi
  • Scenografie e costumi curatissimi
FAIL
  • Non tutti gli elementi weird si possono prestare a trattamenti di verosimiglianza
  • I combattimentti trasposti in live action riportano alla mente i film di Asterix, per forza di cose
  • Certi elementi e situazioni vanno presi "per buoni" a prescindere
  • Alcuni personaggi risultano, per forza di cose, meno massicci e minacciosi fisicamente
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