Manodopera: intervista al regista Alain Ughetto

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Arriva oggi nelle sale italiane Manodopera (Interdit Aux Chiens Et Aux Italiens), lungometraggio d’animazione in stop motion vincitore di numerosi premi – fra cui Miglior Film di Animazione agli European Film Awards 2022 e Premio della Giuria al Festival International du Film d’Animation di Annecy 2022. Grazie a Lucky Red abbiamo avuto l’opportunità di intervistare l’autore, sceneggiatore e regista, Alain Ughetto: ecco cosa ci ha raccontato di questo film molto personale, che racconta una storia che inizia in Piemonte, agli inizi del ‘900. La speranza di una vita migliore spinge Luigi Ughetto e sua moglie Cesira a varcare le Alpi e a trasferirsi con tutta la famiglia in Francia. Il regista Alain Ughetto ripercorre oggi la storia familiare in un dialogo affettuoso con la marionetta di nonna Cesira, che con il suo racconto fresco e poetico della vita sofferta e romanzesca degli emigranti di ogni tempo avvolge lo spettatore in un incanto a passo uno.

Manodopera è una coproduzione anche italiana: com’è stato lavorare con questa tecnica e perché l’ha scelta?

Ho scelto questa tecnica della stop-motion perché permette di far vedere l’importanza del lavoro manuale. Mio nonno era un “bricoleur“, ed è un’esperienza, un talento, una capacità che ha trasmesso anche a me, che amo fare bricolage. Quindi ho cercato proprio di mostrare l’importanza del lavoro manuale nel film con questa tecnica da una generazione all’altra.
E a realizzare il film hanno contribuito tantissime mani, venute dal Portogallo, dalla Svizzera, dall’Italia, dalla Francia. Tante mani che insieme hanno realizzato il film che avete visto.

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Quando ha pensato di realizzare questo film? Era un momento particolare della sua vita?

Mio padre mi raccontava che in Italia esisteva un villaggio dove tutti portavano il nostro nome e questa storia mi aveva sempre intrigato, ma né io né mio padre parlavamo italiano, dunque la cosa si è sempre fermata all’aneddoto. Poi però mi è venuta questa curiosità e sono andato personalmente in Piemonte, dove ho scoperto che esisteva per davvero Ughettera, ovvero “La terra degli Ughetto” e da lì mi è venuta la voglia di riscoprire a ritroso il percorso che avevano fatto i miei nonni quando sono arrivati in Francia. Ho raccolto testimonianze dal lato francese della mia famiglia e poi ho scoperto un libro, “Il mondo dei vinti” di Nuto Reverelli, ricco di testimonianze simili a quelle dei miei nonni, che parlavano di guerra, miseria… è stato in quel momento che ho avuto questa idea e ho cominciato a mettere in piedi questa macchina produttiva.

Il titolo francese fa riferimento a un cartello che si vede all’interno del film: Interdit Aux Chiens Et Aux Italiens, ovvero Vietato l’ingresso a cani e italiani. Ci parla di questo elemento così d’impatto?

In effetti quello era un cartello che veniva esposto in diversi bistrot in Francia e in Svizzera, era il segno di un’epoca e tenevo a mostrarlo, immedesimandomi nei panni dei miei nonni: ma come hanno potuto resistere ad arrivare in un posto e vedere un cartello come quello? Per questo per me è stato importante fare una scena intorno a quel cartello. Del resto, il razzismo è ancora fra di noi e i migranti non sono accolti a dovere, né in Italia né in Francia, e la storia continua a ripetersi.

Sono presenti anche elemento religiosi nel mondo di Manodopera: che valenza hanno?

Ho scoperto che mio nonno non era proprio vicino a parroci e sacerdoti, ma all’epoca, dato che le famiglie erano molto numerose, era normale che almeno uno in famiglia prendesse i voti per avere la certezza di avere di che mangiare tutta la vita. In questo modo ho rappresentato anche un altro elemento dell’epoca.

L’utilizzo dell’animazione stop motion può essere utile a comunicare in modo più ampio una storia, un concetto, al di là di censure e difficoltà?

Il mezzo della stop motion permette di andare in qualche modo verso la poesia, di mantenere una certa distanza utile a raccontare questa storia. Poi io volevo narrare una storia lunga tre generazioni, quando invece se le storie sono contemporanee prendono un’altra forma.

Nel film lei prende parte con la sua mano all’interno delle stesse scene. Cosa voleva raccontare con questo elemento apparentemente “estraneo” alla scena? 

Io sono il nipote di Cesira e Luigi, dunque non sono certo uno spettatore neutro, è anche grazie alla loro fatica e al loro vissuto se io sono qui oggi e voglio render loro omaggio e la mia “presenza” serve a questo, anche per raccontare la loro bellissima storia d’amore alla mia maniera.

Manodopera parla di un tempo lontano, in cui il senso della comunità era diversa quello di oggi, con famiglie numerose e allargate e un vivere comune più accentuato.

Sicuramente io racconto di questo tipo di comunità e di come oltre all’interno del cerchio più stretto di essa si guardava a un cerchio più allargato, a un senso di comunità in cui ci si aiutava. Gli operai si organizzavano in proposito e la solidarietà era un elemento molto importante. Al giorno d’oggi molte cose sono cambiate ma è auspicabile che la solidarietà continui ad avere i suoi spazi.

La sua è una storia personale che può entrare facilmente in risonanza con gli spettatori o quantomeno con buona parte di essi. È una storia intima e familiare ma che parla al cuore di chiunque abbia vissuto epopee simili. Ha avuto modo di raccogliere testimonianze esterne alla sua famiglia o è soprattutto qualcosa relativo all’esperienza del suo entourage familiare?

Sicuramente ho raccolto testimonianze in famiglia, ma per me è un concetto molto ampio, era una famiglia allargata e in Francia crescendo ho pensato non avessi subito discriminazioni razziste, ma riguardando una foto di scuola in cui avrò avuto dodici anni c’erano tanti altri ragazzi di origine italiana come me. Quindi ho raccolto testimonianze che erano solo relativamente al di fuori, perché all’epoca l’idea era quella di una famiglia allargata.

Il film racconta una storia seria, a tratti drammatica, ma non rinuncia a una certa ironia per stemperare e non ha timore di utilizzare anche qualche stereotipo classico sugli italiani: sul cibo, sul gesticolare, sull’organizzazione familiare, ad esempio.

Io ho origini italiane, mio nonno era italiano ma per il resto i membri della mia famiglia si sentivano francesi, ma la mia curiosità personale mi ha portato tantissimo verso l’Italia, e verso la letteratura italiana, il cinema italiano, la commedia italiana, tramite cui ho scoperto molto dell’Italia. Quindi quando ho pensato di creare questo film ho pensato a una storia triste, ma mi sono detto che non dovesse essere pesante. Quindi mi sono ispirato al cinema di Ettore Scola, che raccontava il dramma con un umorismo elegante. Penso a Scopone scientifico, a Brutti, sporchi e cattivi, che sono film con cui sono cresciuto e mi hanno ispirato.

Perché secondo lei è così importante ricostruire il legame col passato e cosa è cambiato in lei dopo aver scoperto le origini della sua famiglia?

Quello che ho scoperto e quello che ho imparato è da dove vengo, e questo film è qualcosa che ho voluto realizzare anche per i miei figli e nipoti: è importante sapere da dove si viene, le proprie origini, e adesso che lo so sono contento per i miei figli e per quelli che verranno dopo.

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