Il cinema di Wes Anderson è sempre stato riconoscibile. Una firma che è diventata, negli anni, un elemento distintivo di quello che è diventato un autore prezioso a livello narrativo e di immagine stessa per il cinema moderno. Sfociare in quelli che sono gusti prettamente soggettivi su quanto possa piacere e quanto possa non essere gradito il suo cinema non è il nostro primario interesse: esaltare quella che è la sua autorialità, il suo aver trovato una cifra stilistica in grado di distinguersi dalla contemporaneità cinematografica e interrogarci sui perché e i come dei suoi film è parte della nostra missione. Asteroid City, che in Italia arriva con diversi mesi di ritardo rispetto alla distribuzione americana, nonché a quella avvenuta al Festival di Cannes di quest’anno, risponde a tante delle esigenze filmiche di Wes Anderson, forse non imponendosi come uno dei suoi film migliori, ma restituendoci quel piacere tipico nell’osservare un film del regista.
Incontri ravvicinati negli anni Cinquanta
1955, Asteroid City è la cittadina americana dove si ritrovano giovani scienziati pronti a cambiare le sorti dell’umanità con esperimenti surreali e idee al limite del paranormale. Durante la loro sosta in questo luogo isolato dal resto del mondo e che sembra quasi un non-luogo, tutti i visitatori lì sopraggiunti per accompagnare i rispettivi figli alla partecipazione di un festival per eleggere il miglior esperimento, assistono a un incontro ravvicinato con un alieno. A seguito di ciò, ad Asteroid City viene ufficializzato uno stato di quarantena, durante il quale nessuno degli ospiti potrà uscire e diffondere informazioni su quanto accaduto. Nel mentre, tutti i sopraggiunti devono fare i conti con quelle che sono le loro brutture, storpiature dell’animo e vicende che li stanno condizionato: Schwartzman e il suo personaggio apatico vive il disagio della morte della moglie, vicenda tenuta nascosta ai suoi quattro figli, mattatori della linea comica offerta dal film stesso; nel mentre, ogni genitore deve affrontare quelle che sono le assurdità che appartengono agli atteggiamenti dei loro eredi, tra chi vive di sfide eterne e chi invece anela un successo interplanetario a poco più di dieci anni.
La narrazione di Wes Anderson assomiglia più a un pretesto per poter raccontare delle trame verticali che si appoggiano in maniera quasi approssimativa su quella che è la vicenda di base. I personaggi i Anderson, d’altronde, sono così: vivono all’interno di bolle che finiscono per essere difficilmente inficiate da ciò che accade loro intorno. Per questo tutto il cast allestito, davvero eccezionale sulla carta, finisce per essere ingabbiato in personaggi che a volte potrebbero non essere adeguati alle loro esigenze attoriali. Asteroid City, d’altronde, si potrebbe arrivare a definirlo come una grande passerella che parte da Scarlett Johansson e finisce con Tom Hanks, arrivando a Bryan Cranston e Adrian Brody. A parte la prima, che ha un ruolo da femme fatale, gli altri finiscono per essere un po’ offuscati da un susseguirsi di vicende raccontate con quella patina apatica che appartiene a tutti gli eventi tipici di Anderson. La stessa presenza di Margot Robbie finisce per essere quasi del tutto incomprensibile.
Se volessimo paragonare Asteroid City ai precedenti film di Wes Anderson, così da poter capire cos’è che è mancato all’intero racconto, finiremmo subito per dire che Grand Budapest Hotel aveva un gusto anche narratologico importante, riuscendo a raccontarci una storia che aveva degli snodi in grado di appassionarci alla vicenda. Asteroid City, invece, oltre ad avere una costruzione cervellotica, come se volesse sottintendere un messaggio aulico, affidato alla doppia rappresentazione scenica sulla quale Anderson gioca anche con toni registici diversi, manca proprio di quello snodo narrativo in grado di condizionarci e appassionarci.
Un cervellotico andirivieni
Dalla narrazione di Bryan Cranston nelle fasi per lo più teatrali emerge l’esigenza di Anderson di provare a raccontare qualcosa che non è nelle sue corde, lui che ha fatto dell’aspetto scenico e visivo il proprio cavallo di battaglia: elemento che, tra l’altro, viene ampiamente confermato da Asteroid City, piacevole da vedere e da gustare, nel rispetto di quella cifra stilistica di cui parlavamo poc’anzi. I colori sono sempre molto accesi, una saturazione molto alta, proprio per tenere fede a quella fotografia che ha sempre rappresentato un marchio di fabbrica. Inoltre, proprio questo intrecciare due linee temporali diverse, come a volerci dire che Asteroid City non è altro che la storia di qualcuno che sta scrivendo la storia rappresentata, Anderson perde quello che è il grande pregio del suo film: il raccontare storie surreali che, con quei dialoghi serrati e funzionali a un ritmo sempre molto veloce, diverte oltre ad appassionare. Banalmente, si arriva quasi a disdegnare la presenza di una seconda linea narrativa e si spera che possa quanto prima essere portata a compimento per lasciare più spazio alla scena principale su Asteroid City.
Tornando sull’aspetto visivo, il lavoro svolto da Robert Yeoman, direttore della fotografia del film, fa in modo di recuperare quello stile retro che apparteneva alla televisione degli anni ’60 / ’70: tutta la fase del contest sembra voler replicare quasi uno show televisivo, proprio a mettere in scena un evento che sia davvero figlio di quegli anni ’50 che Anderson vuole raccontare. E forse proprio l’utilizzo di alcuni effetti speciali che sembrano replicare l’approssimazione che era tipica di Ed Wood (il regista, non il film di Tim Burton) vuole insistere su questo aspetto: non solo siamo in un’epoca passata, ma siamo anche in un meta-racconto che non ha l’occasione di sfoggiare chissà quale budget per ricreare un alieno e la sua venuta sulla Terra. Tutti contenuti che trovano il proprio compimento in quello che è uno scambio tra Schwartzman, protagonista indiscusso di Asteroid City, e Adrien Brody, che interpreta Schubert Green: l’attore gli dice di non aver ancora compreso il senso dello spettacolo, mentre il regista lo invita a continuare a raccontare la storia, d’altronde non importa se non l’ha capita. Ed è proprio l’abilità nella scrittura dei suoi dialoghi e in una sceneggiatura che si basa su giochi di parole, scambi ad effetto, delle comparsate di Steve Carrell che quasi meritano il prezzo del biglietto, che Asteroid City viene salvato fino ad arrivare alla sufficienza.
Asteroid City è un film infarcito di elementi che finiscono per mandare in confusione forse anche il suo stesso regista. Non lo bocciamo, perché c'è quello stile inconfondibile di un autore che nella scrittura dei suoi dialoghi e nella composizione dell'inquadratura resta unico e capace di una qualità che fa notare la propria firma in ogni dove. Allo stesso tempo, però, la trama orizzontale è vacua, così come l'alternanza proposta dalle due linee temporali che provano a creare un meta-racconto non funzionale alla vicenda, anzi a tratti pedante. La stessa passerella di attori è inconsistente e finisce per creare un susseguirsi di cameo mal sfruttati, da quello di Tom Hanks fino a Margot Robbie. Abbiamo visto Wes Anderson in condizioni migliori, ma i fan che vorranno tributargli l'ennesima soddisfazione di aver accontentato i loro gusti troveranno pane per i loro denti saturati.
- Visivamente mantiene la cifra stilistica di Anderson
- Fedele ai tempi raccontati, con un'ottima ricostruzione scenica
- Una passerella inconsistente di attori e star
- Doppia linea narrativa troppo cervellotica
- La trama orizzontale finisce per essere surclassata