Il film di Greta Gerwig (e Noah Baumbach) è più o meno quello che ci aspettavamo dopo questi mesi di incredibile (incredibile) campagna promozionale e non è assolutamente un male, anzi, è forse proprio tutta quella parte di “imprevedibile prevedibilità” che funziona meglio. Funziona perché dentro c’è il mantenimento di quella promessa di anarchia cinematografica, coniugata con una potenza commerciale e politica militante, tale che non si vedeva da tempo (e in questi termini mai) uscire dal blockbuster americano. Peculiarità che non sono mai state nascoste dal film stesso tra l’altro e la cui sintesi è proprio sul cartellone, in bella vista: il nome della bambola, quelli dei produttori e quelli delle due star e i due autori dietro. E tantissimo rosa. Di una tonalità accuratamente selezionata.
Con la recensione di Barbie, nelle sale italiane con Warner Bros. dal 20 luglio, vi parliamo di una delle pellicole più attese dell’anno (complice anche il suo essere parte di un duetto che ha fatto, grazie all’internet, le fortune del cinema in termini di marketing e che forse salverà le sale in questi terribili mesi estivi), per il fascino inedito della sua ben ideata parte estetica (che bella la fotografia di Rodrigo Prieto), per ciò che la bambola della Mattel significa per la storia culturale del Nord America, per il tono del racconto nonostante ci sia proprio la Mattel dietro, ma anche per la sua volontà citazionistica, per la colonna sonora con Billie Eilish e Dua Lipa e per Margot Robbie (che è anche produttrice) e per Ryan Gosling.
E per Greta Gerwig, nome di prestigio proveniente dal cinema indie e ormai considerato una garanzia di pellicole generazionali in grado di leggere la società dal punto di vista femminile. Pellicole politiche e consapevoli di creare divisioni, a volte anche sorprendenti, ma il cinema è un atto politico, e quindi ben vengano le divisioni, lo diceva qualcuno molto più importante di tutti noi.
Tutti motivi giusti insomma, quanto meno per essere una delle pellicole più attese dell’anno.
E tantissimo rosa. Di una tonalità accuratamente selezionata.
Oltre loro c’è Will Ferrell, meraviglioso come sempre, in ruolo forse un po’ sprecato, ma incredibilmente vicino a quello di un altro film (molto bello) su un’altra icona del mondo dei giocattoli, Helen Mirren (per chi vedrà il film in lingua), Emma Mackey e mezzo cast di Sex Education (tutti bravi), Simu Liu, un Michael Cera in gran forma, America Ferrera, Kate McKinnon e una marea di altre scelte non banali.
Problemi di convivenza
La sceneggiatrice, attrice, regista di Sacramento ha raggiunto un enorme gradimento all’interno del circuito hollywoodiano (e non solo) dopo il suo lavoro con Piccole Donne, in cui è riuscita a sfruttare le contemporaneità dell’omonimo testo classico per tirarne fuori una rielaborazione efficacissima, sia per la sua funzione strettamente letteraria e sia per l’attualità, riuscendo a parlare ad una generazione intera pur mantenendo un nucleo coerente con il materiale di riferimento.
L’operazione con Barbie è enormemente più ambiziosa, ma i presupposti sono in un certo senso simili, dato che nella cornice del blockbuster si vuole raccontare una storia di formazione, che includa la critica del mondo reale partendo dal racconto di uno distopico, e impostando il tutto dalla destrutturazione di un altro testo “sacro”, che ha le fattezze di una bambola, ma è comunque un pezzo di cultura americana, cercando di renderlo contemporaneo, una volta ancora. Come? Ribaltandone le fondamenta: prendere il simbolo della donna prodotto del capitalismo per mandarlo totalmente in crisi di identità, rendendola umana. Un elemento che la avvicina alla realtà e anche al maschile.
Barbie Stereotipo (Robbie) vive a Barbieland, dove tutto è perfettamente finto. Dove tutti cantano, ballano e non bevono, non si fanno la doccia e non surfano. Comandano le Barbie a Barbieland (giustamente) e i Ken sono degli accessori, uomini superflui, ragazzi pon pon, che vivono solamente nel momento in cui la loro controparte femminile li degna di uno sguardo. Eppure il loro è un incedere fragile, dolce e malinconico.
Come? Ribaltandone le fondamenta: prendere il simbolo della donna prodotto del capitalismo per mandarlo totalmente in crisi di identità, per di più rendendola umana.
Loro sono le donne del mondo reale, il mondo dove vige il patriarcato, il mondo dove Barbie e il suo Ken (Gosling) vanno su consiglio di Barbie stramba (McKinnon) perché la prima non riesce più a stare sulle punte, scopre di avere la cellulite e fa solo pensieri di morte.
In California la sfortunata troverà il motivo di questo suo “malfunzionamento”, scontrandosi con “gli uomini che amano le donne a patto che stiano in una scatola della Mattel” e cercando una soluzione in una specifica bambina (o persona). Il problema è che la California e il mondo reale li scoprirà anche Ken e, in loro, troverà un moto di “riscatto”.
La bambola più complessa del mondo Occidentale
Pur con la presenza di uno squilibrio in alcune componenti di scrittura (regia, montaggio, scenografia e direzione attoriale tutte ottime) in maggior parte dovute ad una incomprensibile didascalia e un non sempre perfetto incastro a livello di ritmo narrativo, la Gerwig crea una pellicola interessantissima, impegnata, consapevole, densa e altamente cinefila, in grado di giocare con i ribaltamenti dei punti di vista (dei due sessi, ovviamente) e con uno humor a tratti veramente azzeccato. Di più, riesce a fare una cosa importantissima: mostrare al mondo la potenza di un’operazione cinematografica tutta al femminile e la sua capacità di raccontare di una battaglia tra sessi restituendo un immagine corretta e in grado di parlare a tutti, maschietti compresi.
Loro, tra l’altro, sono privilegiati (con quanta dolcezza li guarda la Gerwig? La stessa con cui guarda i maschi di Piccole donne) rispetto alle femminucce, le quali hanno però la forza di essere protagoniste nel modo più straordinario, perché in grado di fare il bene anche della controparte, grazie al fatto di essere più autoconsapevoli e, soprattutto, meno schiave di una virilità che pesa come un macigno. La sessualità e il rapporto con essa è un must di ogni rappresentazione della società capitalista che si rispetti.
La dimostrazione di questa logica è il rapporto sullo schermo tra Robbie e Gosling, in quanto attori e in quanto Barbie e Ken. La loro relazione dà forza all’aspetto politico del film, nel bene e nel male, e entrambi beneficiano in continuazione della presenza l’uno dell’altra, con l’interprete canadese che sforna una prova maiuscola per misuratezza e poliedricità e l’attrice australiana consapevole di essere nel ruolo della vita.
La sessualità e il rapporto con essa è un must di ogni rappresentazione della società capitalista che si rispetti.
Nonostante le risoluzioni di alcune trovate di trama possano risultare un po’ facilone (da non confondere con altre che invece sono straordinariamente demenziali) e la percezione di una certa difficoltà nel trovare il giusto tono di voce per dire quello che si ha da dire (infatti a volte si urla e altre si sussurra), la pellicola rimane di una coerenza incredibile. Perché, anche se a volte le tematiche, importanti, rischiano un appiattimento per gli scioglimenti a cui vanno incontro, probabilmente perché l’equilibrio tra le due anime (autoriale e blockbuster) è piuttosto complicato e anche perché il tipo di linguaggio metaforico scelto non è facilmente gestibile, il film riesce sempre a farsi sentire nel modo “imprevedibilmente prevedibile” di cui sopra.
Il nodo centrale della pellicola, sempre bene ricordarlo, è la storia di due esseri condannati alla superficialità che si ritrovano a dover gestire la necessità di scoprire una nuova complessità per trovare il proprio posto.
Poi c’è il discorso della Mattel, la quale sembra aver accettato di farsi fa carico di una serie di zavorre per tentare (comprensibilmente) di riattualizzare il proprio brand di punta. Su questo giudizio pesa soprattutto l’ultimo atto, che porta a pensare come il cortocircuito “Barbie che si ribella alla Mattel” sia molto più controllato di quanto un autore indipendente, che dovrebbe “fregare il produttore”, speri di ottenere. Questo compromesso continuo non pesa comunque troppo sul film, che rimane ottimo nel suo sfruttarlo per parlare di ciò che gli interessa sul serio.
Barbie è quindi una pellicola complessa, coraggiosa e difficilissima da realizzare. Una prova maiuscola della Gerwig anche se non perfettamente calibrata (pensate all’inizio e al finale), ma con un appeal straordinario e con cui bisogna necessariamente scendere a compromessi, sia per la bellezza della pellicola in sé e sia per la sua importanza nel panorama attuale. Le sue idiosincrasie, le sue imperfezioni, la sua giocosità non sempre opportuna e la sua bulimia immaginativa e tematica la potrebbero rendere un cult nella misura in cui c’è la possibilità che possa cominciare a vivere una vita parallela nella mente degli spettatori. Una vita emancipata dalle logiche produttive della pellicola stessa. Tipo quella che vive la bambola in funzione dell’idea e non delle logiche di mercato. Ai posteri l’ardua sentenza.
Barbie è al cinema dal 20 luglio 2023 con Warner Bros.
Barbie di Greta Gerwig (e scritto insieme a Noah Baumbach) è un film complesso, non perfettamente calibrato, ma dall’appeal straordinario e con cui bisogna necessariamente scendere a compromessi, sia per la bellezza della pellicola in sé e sia per la sua importanza nel panorama attuale. La parte estetica è ottima, Margot Robbie e Ryan Gosling sono straordinariamente accordati e forse mai si è vista un'operazione del genere, al femminile, figlia della militanza woke di questi tempi. Il film gioca benissimo con i ribaltamenti per parlare del rapporto tra uomo e donna, riuscendo a rivolgersi a tutti, ma pagando a volte delle soluzioni di trama e un focus linguistico complesso. Il problema maggiore infatti è la difficoltà nel trovare il modo di controllare la sua bulimia e il compromesso tra l'indipendenza e la forza che le tematiche e il registro linguistico pretendono e le logiche che muovono la Mattel nel produrre un film simile con tutte le zavorre del caso, anche se la pellicola in sé non accusa il colpo granché. Consigliatissimo.
- La parte estetica della pellicola è ottima.
- Questo senso di anarchia cinematografica ha un grande appeal.
- Il film è esilarante, originale e molto divertente.
- Ha in sé le premesse di un cult in grado di staccarsi dalle logiche con cui è stato pensato.
- Le prove di Robbie e Gosling, soprattutto quella di quest'ultimo.
- Il suo è un peso importante, soprattutto in quanto operazione cinematografica di grande impatto commerciale.
- La sua capacità di parlare un linguaggio attuale.
- Il messaggio politico rischia di perdere efficacia per l'anima Mattel, che ha ovviamente dei fini commerciali.
- La scrittura è delle volte un po'squilibrata, soprattutto in alcune soluzioni.
- Il terzo atto non riesce a reggere in toto il sovraccarico causato dai primi due.