Il franchise di Transformers aveva bisogno di una ripartenza, di un risveglio, guarda caso. Sembrerebbe un gioco di parole poco illuminato, ma dalle mani di Steven Caple Jr. passa un film che non solo deve fungere da sequel di Bumblebee, lo spin-off pubblicato nel 2018, ma anche come secondo prequel della saga diretta da Michael Bay. Unendo quella che era la trama del cartone animato Biocombat, noto in originale come Beast Wars, il nuovo film continua a occuparsi di quella che è la vicenda di Optimus Prime e i suoi trascorsi, prima di quello che fu l’incontro con Sam Witwicky per rivelare la guerra contro Megatron. Un viaggio che prova, tornando nel passato, a riportare a galla un franchise che dopo i primi quattro film ha visto una caduta a picco degli incassi sia de L’ultimo cavaliere che di Bumblebee, rispettivamente fermatasi a 600 e 470 milioni, contro il miliardo e più del terzo e quarto film. Lanciamoci, quindi, alla scoperta di Transformers: il Risveglio.
La chiave di Noah
È il 1994, siamo a Brooklyn e Noah, un ex militare appassionato di elettronica, si ritrova a dover lottare su due fronti: da un lato la malattia del fratello, che dev’essere seguito con grande attenzione, dall’altro la ricerca di un lavoro, che gli permetterebbe di aiutare la madre e l’intera famiglia, sempre sull’orlo del baratro. Scartato all’ennesimo colloquio, si ritrova a prendere una scelta estrema: passare dal lato oscuro della civiltà, provando a diventare un ladro di auto. Quell’auto altri non è che Mirage, un Autobot che lo porterà a imbarcarsi in un’avventura più grande di quanto si potesse pensare. I robot di Optimus Prime, infatti, stanno cercando di evitare che Unicron, un dio oscuro, e Scourge, il Terrorcon suo vassallo, possano impadronirsi di una chiave transdimensionale che agli Autobot permetterebbe di tornare al loro pianeta, agli oscuri di distruggere la Terra.
Se con Michael Bay Transformers aveva da sempre mostrato quanto fosse massiccia la condizione degli esseri pronti a trasformarsi da auto in megarobot, con la direzione di Steven Caple Jr. ci ritroviamo dinanzi a qualcosa di più ragionato e pacato. Il regista di Creed II, d’altronde, vuole andare a sviscerare problematiche diverse da esplosioni, lotte e uno script che si basa su scontri di proporzioni bibliche. C’è più dialogo, ci sono delle storie di esseri umani, con i robot che diventano dei personaggi reali, non più vittime di condizioni pachidermiche che ne congelano gli stessi movimenti. Optimus Prime, quindi, si ritrova a confrontarsi con il leader dei Maximal, nonché con Scourge, il principale villain della vicenda, leader dei Terrorcon, una sorta di hulk che vuole distruggere la Terra per raggiungere il proprio obiettivo e guadagnare una sorta di approvazione dal suo dio.
Il vero problema di Transformers: Il Risveglio, ma anche della saga in sé, è che continua a proporre il medesimo canovaccio senza innovare nessun aspetto del suo intreccio narrativo, se tale può essere definito. Dinanzi all’ennesima minaccia aliena, connessa a una tecnologia avanzata che potrebbe permettere agli Autobot di tornare al proprio pianeta, servirà l’ennesimo umano in cerca di riscatto e di autodeterminazione a fare da risolutore. Lo stesso Noah, il protagonista bipede dell’avventura, è figlio di cliché narrativi che non riescono a farci empatizzare nemmeno per un attimo nei confronti dei suoi problemi familiari: disoccupazione, tentativi maldestri di sbarcare il lunario, un fratello malato del quale non viene approfondita la reale condizione, rimanendo in un limbo di incomprensione per lo spettatore.
Pose plastiche e action derivativo
In tutto questo gli unici personaggi che riescono a lasciare un minimo ricordo sono Mirage, per la sua parlantina e per il suo esser stato caratterizzato in maniera adeguata, e Optimus Prime, circondato da quell’alone di epica che lo ha permeato in tutti questi anni. Entrambi giovano anche di una buona caratterizzazione facciale, che permette di esprimere dei sentimenti, delle emozioni, a differenza degli altri. Intorno a loro nessun altro riesce nell’impresa di identificarsi e di proclamarsi ben riuscito, tantomeno i Maximal e il loro leader, Primal, la cui presenza è quasi del tutto impalpabile se non in sede di spiegazione su ciò che sta accadendo. Sempre perché dire è più facile di fare, mostrare è sempre più difficile di raccontare. E in questo approccio stantio alla sceneggiatura anche i momenti che dovrebbero consegnare alla regia dei momenti di gloria finiscono per essere ridondanti, derivativi da un costrutto action che abbiamo imparato a memoria, soprattutto nel loro provare a scimmiottare Avengers: Endgame. Dalle pose plastiche degli Autobot dopo un’acrobazia scenica quanto inutile, fino ai combattimenti che continuano a proporre scontri titanici che abbiamo già visto in tutti i precedenti film. Persino i momenti più toccanti vengono spogliati del pathos necessario per provare anche solo a temere che qualcosa possa andare per il peggio o sorprenderci: tutto scorre in maniera scontata fino alla scena finale, forse l’unica in grado di fornire un sussulto nel nome del fan service.
L’impegno per portare lo scontro a una dimensione umana è visibile, si percepisce lo sforzo di voler spostare i problemi dei Transformers a una sfera più privata, mettendo in gioco destini, vite, comportamenti e atteggiamenti da famiglia, da squadra. Si parla tanto di collaborazione, per rinnegare la singolarità, per fare in modo che tutto possa essere ricondotto alla salvaguardia del prossimo, al messaggio caritatevole del non lasciare nessuno indietro. Si lascia apprezzare l’impegno, soprattutto nel momento in cui ne giova l’intera proposta contenutistica, sacrificando quello sferragliare che aveva caratterizzato i film firmati da Michael Bay, tra esplosioni e scoppi. Ed è un peccato non aver insistito su questo aspetto, andando a intensificare l’acceleratore sulle peculiarità di ogni Autobot o anche dei Maximal, totalmente sprecati nell’insieme.
Ciò che traspare dalla realizzazione scenica, inoltre, è che l’aver scelto come collocazione temporale il 1994 sia solo dovuto al fatto che questo film è il sequel di Bumblebee, ambientato nel 1987: per il resto nessuno degli elementi a schermo ci aiuta a collocare il film in un determinato periodo, anzi. Tutti gli Autobot continuano ad avere lo stesso design visto nei film di Bay e non basta qualche riferimento a Super Mario e ai Power Rangers nei primi 15 minuti di film per ammantarsi di credibilità: qualche sparuto oggetto qui e lì e poco più, tra l’altro subito sovrastato da tecnologie accessibili ai musei che nemmeno negli sci-fi movie vedremmo. Transformers: Il Risveglio potrebbe essere ambientato in qualsiasi momento, senza che nessuno se ne possa lamentare in alcun modo. Ciò che resta di positivo, quindi, nel finale è l’apertura a una sorta di Hasbro Cinematic Universe, con l’intenzione, forse, di mettere da parte dei Transformers che non riescono più a proporre contenuti nuovi, facendo sì che possano cedere il passo ad altro, a qualche intreccio più elaborato, all’obiettivo di esaltare altri franchise dell’azienda, spremendo altre idee, altre meningi.
Transformers: Il Risveglio è un film per chi, da vero fan, non riesce proprio a fare a meno dell'ennesimo film dedicato al franchise Hasbro. L'aggiunta dei Maximal non va a costruire nessun tipo di fan service per chi si aspettava di poter andare a nozze con i Biocombat, anzi rischia di rovinare anche quei ricordi nostalgici. L'unico aspetto affascinante, rispetto ai precedenti lavori di Bay, è l'aver ricondotto il dramma a una sfera umana, più riflessiva, ma per il resto non c'è molto di salvabile in un film che propone una regia stanca, una sceneggiatura spoglia e delle vicende prevedibili. Resta tanta curiosità, adesso, per scoprire in che modo dalla scena finale si possa generare un Cinematic Universe.
- Un dramma più umano dei precedenti
- Non c'è nulla di nuovo nei contenuti
- Contesto temporale impalpabile