Non c’è niente da fare, dobbiamo accettarlo: non c’è nulla per cui essere ottimisti. Soprattutto per quanto riguarda lo stato di salute del cinema. Per non parlare del suo futuro poi! Che Dio ci aiuti. Ce lo dicono tutti da anni in ogni modo possibile, dalle grande pellicole commerciali (il mondo sta finendo, il mondo è morto, il mondo sta per morire) agli altrettanto grandi nomi autoriali (meglio pensare al passato, meglio pensare alla nostra infanzia). Shyamalan in realtà continua ad essere ottimista, beato lui. Scusate il riferimento, ma vi scriviamo dal marzo 2023, facciamo riferimento a titoli e nomi usciti di recente, sperando i posteri rideranno di queste affermazioni. Sia chiaro. Vi prego diteci che stare ridendo.
Sam Mendes con Empire of Light ha fatto entrambe le cose.
Ci ha infatti raccontato dell’importanza del cinema rievocando un periodo (anche politico) a lui molto caro, ma anche molto complicato per la sua Inghilterra, nel quale ha deciso di ambientare una storia d’amore atipica e fra outsider, puntando tutto sulla messa in scena (come qualcuno molto più bravo di chi scrive ripete da tempo) e sfruttando al massimo la fotografia (candidata giustamente al Premio Oscar 2023) di un mostro sacro, nonché suo ormai assiduo sodale, sua maestà Roger Deakins. Probabilmente la cosa migliore di una pellicola che a livello di scrittura ha purtroppo diversi problemi.
Sam Mendes con Empire of Light ha fatto entrambe le cose.
Al centro di tutto c’è una donna complessa, interpretata da una sempre splendida (ma scopriamo l’acqua calda) Olivia Colman, contraltare perfetto per il personaggio interpretato da Micheal Ward che è invece l’emblema dei difetti di cui sopra. A completare il cast nomi forti come Colin Firth e Toby Jones.
Una polaroid, com’è stata quella di qualcun altro che bazzicava la San Fernando Valley, ma più fredda, più triste, più ferma, più a fuoco, straordinaria, ma meno sincera. Come una località di mare in pieno inverno, immagine che cattura una realtà all’apparenza in pace, ma che invece nasconde un furore terrificante, pericoloso per i più deboli e in un certo senso anche per se stessa, preda di una confusione mossa soprattutto dall’odio seminale.
Una tempesta sulla terraferma, all’interno della quale però Mendes, pone un faro, l’Empire, il nome del suo cinema, vuoto perché specchio del mondo in cui è posizionato, ma che ha al suo interno il potere di guidare le persone. Persone come i due outsider. Basta accenderla, ‘sta luce. Light.
La solitudine di chi strappa i biglietti
Sam Mendes è nato a Reading, nel 1965, figlio di un docente trinidadiano di origini portoghesi ed italiane e di una scrittrice di origine ebraica. Il suo primo amore fu il teatro, oltre che la sua prima occupazione come regista. Empire of Light nasce da questi due elementi fondamentali nella sua biografia.
Sebbene al centro del film ci sia un cinema, infatti, l’intera impostazione registica, dalla costruzione dell’immagine, la gestione degli spazi e la direzione attoriale, è praticamente tutta quanta di stampo teatrale. Persino il personaggio della Colman, Hilary, sembra cambiarsi più volte vestiti e ruoli a seconda dell’ambiente in cui si muove (sfruttando brillantemente la patologia di cui soffre).
Il periodo invece è quello della prima adolescenze del cineasta, visto che siamo nella città di Kent e nel 1981, ovvero primi anni del governo Tatcher, anni in cui in Inghilterra si stava andando diffondendosi un sentimento di rabbia sociale che prendeva di mira soprattutto le persone di origine africana e in genere gli outsider.
Sebbene al centro del film ci sia un cinema, infatti, l’intera impostazione registica, dalla costruzione dell’immagine, la gestione degli spazi e la direzione attoriale, è praticamente tutta quanta di stampo teatrale.
Un sentimento che porta a moti sempre più grandi e che tendono a creare una società che sfilaccia i rapporti tra le persone, le porta ad isolarsi, impedisce loro di riflettere, di ascoltarsi, di capirsi, di entrare in sintonia gli uni con gli altri. Una violenza, quella più grande, che poi invade ogni livello, ogni stanza, ogni vita e ogni relazione. Non solo quindi gli skinhead che si rendono protagonisti di assalti in giro per le città o l’ostracismo di università che impediscono ai ragazzi neri di accedervi a discapito di meriti invece più che sufficineti, ma anche quelli che si consumano in stanze buie, dove i datori di lavoro si approfittano di chi invece dovrebbero proteggere.
Una violenza, quella più grande, che poi invade ogni livello, ogni stanza, ogni vita e ogni relazione.
Una paesaggio desolante, in cui a volte possono sbocciare dei fiori inattesi, originali, incomprensibili ai più, anche a chi li ha curati fino a quel momento. Come un amore tra due persone che, al di fuori di certi ambienti, ora decadenti eppure così meravigliosi per il loro significato pregresso, per la vita e la realtà che rappresentano, non può brillare.
Tipo i piani superiori di un cinema che per la crisi ha dovuto chiudere le sale lì poste? Può darsi?
Delle premesse meravigliose che purtroppo si perdono nel momento in cui vengono approfondite e sviscerate, proprio come le polaroid, se ci pensate: belle proprio perché non parlano, perché catturano solo un’istante, perché si limitano ad accendere una Light nella testa di chi le guarda.
Il cinema ci salverà solo se noi salviamo lui
Molto banale il parallelismo tra il cinema vuoto di inizio 1980 e quello della prima parte degli anni 2020. Banale perché ormai scontata come tematica e anche perché se uno dovesse soffermarsi su questo si riscontrerebbero talmente tante differenze tra la condizioni dell’epoca e quelle di oggi, da far infine risultare questo parallelismo, francamente (e non vogliamo offendere nessuno, specialmente un cineasta come Sam Mendes), stupido. Funziona invece molto meglio la parte del non detto nel film, il lavoro per opposizione: svelare il buio, concentrandosi sulla luce.
Passando oltre questo, quindi, che non è interessante e probabilmente neanche così importante nell’economia di Empire of Light. Sarebbe il caso di soffermarsi sul ruolo che hanno avuto il cinema e le arti per il regista e, soprattutto, quello che potevano fare per gli avventori all’epoca e che, magari, possono fare adesso. Questo è un parallelismo sicuramente più gustoso.
Funziona invece molto meglio la parte del non detto, il lavoro per opposizione: svelare il buio, concentrandosi sulla luce.
C’è chi il cinema lo gestisce, chi pensa alle serate di gala, chi pensa ad esso solamente come un luogo in cui poter avere una propria carriera o dove commettere adulterio. Quasi commettendo peccato mortale in un luogo sacro. E poi c’è chi il cinema lo impara ad amare, magari all’inizio staccando solo i biglietti, pulendo le scale o servendo i popcorn ai clienti. Si passa tanto tempo nelle sale quando ci si lavora, ma non è scontato imparare ad amarlo sul serio. Persino quando ci occupiamo di dargli vita, lavorando in sala di proiezione. Anche a quel punto possiamo smettere di parlare con lui, fissandoci solamente su delle cose stupide (come quelle su ci soffermiamo noi maledetti teorici).
E poi c’è chi il cinema lo impara ad amare, magari all’inizio staccando solo i biglietti, pulendo le scale o servendo i popcorn ai clienti.
Fortuna che è il cinema di Mendes a parlare a noi. Ci parla della realtà politica attraverso Nessuno ci può fermare di Sidney Poitier, la meravigliosa buddy comedy con un’altra coppia improbabile, interpretata da Gene Wilder e Richard Pryor, e Momenti di gloria (con una coppia un filo più tradizionale), o indicando una strada genuina, sincera e (scusate, ormai ci odiate) luminosa per affrontare il mondo con Oltre il giardino, l’ultimo film del meraviglioso Peter Sellers.
Empire of Light, insomma, ci invita ad ascoltare il cinema, a parlare con lui, a dargli fiducia, perché ha ancora la forza per ispirarci, per non farci sentire sbagliati. Ci può salvare, ma deve essere salvato. Questo è un parallelismo più convincente, che si lega bene alla storia nucleo narrativo del film. Melenso, un po’ scollato, un po’ anziano, un po’ poco ispirato. Ad ogni modo genuino. Non la via per andare in paradiso, questo è certo, ma ascoltare cosa da ha dire il cinema può essere un buon suggerimento a livello personale.