L’uscita di un film di M. Night Shyamalan è sempre un evento atteso. Il cineasta di origine indiana è indubbiamo uno dei pochi autori rimasti in grado di coniugare un’idea di cinema classica, che prevede un’impostazione dell’immagine riconoscibile, una formula di costruzione delle storie peculiare e una poetica originale, pur rinnovando sempre il proprio sguardo, così da riuscire a coinvolgere lo spettatore, fidelizzarlo (in un certo modo) e continuare a parlare del contemporaneo. Nel suo caso per parlare del mondo attraverso le sue piccole “umanità in miniatura”.
Nei suoi alti e bassi, nei suoi cambi di linea e nelle sue tendenze del momento, Shayamalan ha sempre mantenuto il suo status di regista e autore di culto. Ora per esempio ha deciso di dileggiarsi con l’adattamento (che un tecnica anch’essa straordinariamente attuale), perché dopo Old, tratto dalla graphic novel Castello di Sabbia (Sandcastle), scritta da Pierre Oscar Lévy e disegnata di Frederik Peeters, il suo nuovo film è Bussano alla porta, adattato da La casa alla fine del mondo (The Cabin at the End of the World) scritto da Paul G. Tremblay, al cinema dal 2 febbraio 2023 con Universal Pictures.
Che poi il regista adatta in un maniera veramente personale (come è suo costume), visto che, da bravo autore, è sempre geloso delle proprie opere, delle proprie idee e dei propri interessi. Ogni cambiamento è però votato a rimpolpare un disegno preciso, tra l’altro pensato per parlare direttamente la pubblico, esponendosi (al di là dei vari cameo) sempre. Stavolta il suo scopo è parlarci delle divisioni e degli egoismi che ci tengono lontani, anche di fronte alla fine del mondo.
Nel suo caso per parlare del mondo attraverso le sue piccole “umanità in miniatura”.
Con Bussano alla porta Shyamalan ci regala uno dei suoi film più belli degli ultimi anni, nel rispetto delle sue idee e dei suoi schemi, partendo da un’altra famiglia e un’altra umanità, in miniatura.
Spazi Frammentati
Avviso ai naviganti: non è consigliato andare in vacanza nei film di Shyamalan, che anche questa volta decide a subito di ribaltare il concetto di comfort zone facendo entrare il mondo all’interno del sistema familiare. Un tempo erano gli alieni o dei mostri o delle forze eteree ora è invece l’umanità stessa a violarlo, come se fossero due entità differenti. Come se tutti quanti noi avessimo due modalità di funzionamento e ci riconoscessimo solamente in quella rivolta verso l’interno.
In un’idea di approccio al mezzo cinematografico che lo ha avvicinato per larghi tratti della sua carriera a Spielberg, il cineasta americano non ha mai disdegnato una lavorazione sulla tensione vicino a De Palma e ancora prima ad Hitchcock. Una linea che si è ancor più rafforzata ultimamente, dato che ha trovato uno sfogo straordinario nella sua concezione degli spazi, pensata sempre con una funzione diegetica precisa.
La vivisezione della spiaggia di Old, che riusciva a rendere claustrofobico uno spazio immenso in modo da trasmettere l’idea della divisione tra i vari membri del gruppo dei protagonisti, diventa in Bussano alla porta una modalità di posizionamento degli attori all’interno di uno spazio casalingo in cui si svolge praticamente l’intero film.
Dal momento dell’assalto per entrare all’interno di quello che è stato un tipico focolare domestico fino alla sua trasformazione in uno luogo di prigionia, sono sempre ben visibili i confini all’interno dei quali sono distribuiti i personaggi, in special modo, ovviamente, nel momento della formazione della linea che divide gli aggressori, brillantemente guidati da Dave Bautista in un ruolo che sta divenendo sempre a lui più congeniale, e gli aggrediti, la famigliola di turno. Oppure è esattamente il contrario?
Come se tutti quanti noi avessimo due modalità di funzionamento e ci riconoscessimo solamente in quella rivolta verso l’interno.
Shyamalan gioca ancora una volta non solo con il significato simbolico della geografia cella casa in mezzo al bosco in cui mette in scena il tuo apocalisse personale, ma anche con la prossemica dei suoi personaggi e le inquadrature che i quali li ritrae. Da qui la grande bravura anche nella loro direzione, tramite la quale riesce ad orchestrare un crescendo emotivo coordinato benissimo, sfruttandi anche gli assoli di ognuno di loro, liberi di esprimersi più volte durante il film. Dopo tutto è tramite i loro punti di vista che il regista porta lo spettatore all’interno della situazione, tenendolo sul filo del rasoio per 90 minuti.
Una casa che dunque teatro di una umanità messa insieme a forza, spaccata, inerme, isterica, sospettosa, violenta, disperata e priva di punti di riferimento. Il campione perfetto per rappresentare la massa a cui crolla il cielo sulla testa.
L’umanità del XXI secolo
L’umanità di Bussano alla porta è quella del XXI secolo, divisa tra negazionisti, complottisti, democratici e iper razionali. Tutti contro tutti, tutti messi sotto scacco dalla cultura del sospetto e istruiti all’egoismo supremo, incapaci di vedere l’altro per chi è sul serio, ma vedendolo solo come un ennesimo pericolo per la propria felicità.
Estremizzazione della deriva capitalista e abitanti della società post pandemia, oramai diagnosticabili come un’umanità affetta da disturbo post traumatico da stress. Che preferisce isolarsi e ignorarsi a vicenda, sottrarsi alla sua stessa natura e alle leggi spirituali che la lega tra i suoi componenti. Anche laddove invece c’è amore e la capacità di accogliere.
In questo contesto irrompe la religiosità tipica del cinema del regista di origine indiana, portatrice, solitamente, di una tra condanna e speranza. Solitamente, ma non qui, dove è metafora di entrambe in questo film, dato che il futuro del mondo deve necessariamente passare per una scelta dolorosa, che tutti noi dobbiamo fare.
Estremizzazione della deriva capitalista e abitanti della società post pandemia, oramai diagnosticabili come un’umanità affetta da disturbo post traumatico da stress
Nella sua umanità in miniatura Shyamalan pone questa volta al centro la famiglia perché custode dell’amore primordiale, messo in questa epoca sotto chiave perché provato da delle persone appartenenti a un circuito ossessionato dalla sindrome di accerchiamento e quindi raggiungibile dall’esterno solo attraverso un varco causato da un gesto violento. Il pegno da pagare è proprio essere arrivati a dover fare questo per ristabilire un equilibrio, per riportare un frammento di quell’amore di nuovo in un modo divenuto solamente arido.
Ecco il perfetto meccanismo concettuale per realizzare la biblica parabola cattolica dell’estremo sacrificio per un bene superiore. Qui il film prende una posizione politica netta (altro gesto di grande coraggio del regista, che stravolge il finale del romanzo di Tremblay) modificando il modus operandi del rituale sacrificale canonico un modo tale da ribaltarne il senso, che da crudele perché incomprensibile diventa alla fine logico e quasi auspicabile.
Una delle migliori operazioni di Shyamalan, che fa un film dalla azzeccatissima visione concettuale e lo confeziona in modo impeccabile.