La serie di The Last of Us, in onda dal 16 gennaio su Sky e su NOW in streaming, sta continuando a riscuotere consensi positivi anche da parte del pubblico dopo esser stata premiata dalla critica. Eppure qualche anno fa ci saremmo aspettati tutt’altro, con molto più scetticismo rispetto a quello che abbiamo avuto in questo frangente. Ripercorriamo quella vicenda che quasi dieci anni fa ci fece temere per il futuro di una saga che ha avuto la capacità di condizionare un’intera generazione videoludica.
L’adattamento di Sam Raimi
Nel marzo 2014, meno di un anno dopo dall’uscita di The Last of Us su PlayStation 3, in attesa dell’arrivo anche della versione rimasterizzata per PlayStation 4, Screen Gems annunciava di aver acquisito i diritti del videogioco di Naughty Dog per realizzare una trasposizione cinematografica dell’opera di Neil Druckmann. Sarebbe stato sempre quest’ultimo a occuparsi dello script del film, così da mantenere quella continuità narrativa che avrebbe dato a The Last of Us la possibilità di restare fedele all’opera originaria, con il team creativo che sarebbe stato composto da Evan Wells e Christophe Balestra, insieme a Bruce Straley, tutti uomini di Naughty Dog.
La vera notizia era che a occuparsi della regia ci sarebbe stato Sam Raimi, che con la sua Ghost House Pictures si sarebbe occupato anche di parte della produzione. Dalle parole di Clint Culpepper, presidente di Screen Gems, arrivò la conferma che Neil Druckmann avrebbe lavorato a strettissimo contatto con Sam Raimi per poter realizzare quella visione cinematografica dell’autore di The Last of Us, oltre a esserci anche la benedizione da parte di Evan Wells, all’epoca co-presidente di Naughty Dog: “Abbiamo parlato con moltissime produzioni sin da quando il gioco è uscito, a giugno, ma non potevamo trovare un partner migliore per questa avventura”. A chiudere il cerchio, Screen Gems è una società di proprietà di Sony, che comunque avrebbe sempre continuato a monitorare il tutto e assicurarsi che The Last of Us fosse stata in grado di funzionare.
Un progetto fallimentare
Ma cos’è successo, quindi, in questi anni? La casa di produzione voleva rendere The Last of Us una versione molto simile a World War Z, film distribuito nel 2013 con protagonista Brad Pitt alle prese con un’infezione che ha colpito l’umanità trasformandoli in zombie. L’idea non affascinava Druckmann, che non ha mai voluto un approccio incentrato su una storia di non-morti, bensì su una storia intima tra un padre al quale viene data una seconda possibilità. La base da cui voleva partire il direttore creativo della saga era Non è un paese per vecchi, film del 2007 dei fratelli Coen, nel quale si esaltavano i concetti di amarezza e di inadeguatezza nello stare al mondo: elementi che il Joel Miller di The Last of Us lascia trasparire in ogni momento della sua esistenza.
Era chiaro, insomma, che la direzione fosse ben diversa da quella nella quale stiamo andando anche adesso. Inoltre, riuscite a immaginare un videogioco di circa 20 ore condensato in un lungometraggio di circa 2? Neil Druckmann no e pur non avendo informazioni certe sulla rottura e sui perché, sappiamo che a distanza di pochi anni Screen Gems ha deciso di rinunciare ai diritti sul videogioco, che Naughty Dog ha ripreso a proporre in maniera insistente con una sola idea in testa: farne una serie televisiva. Idea che incontrava la medesima volontà di Craig Mazin, sceneggiatore di Cernobyl, l’acclamata serie Sky Atlantic.
Riuscite a immaginare un videogioco di circa 20 ore condensato in un lungometraggio di circa 2?
Dalle mani di Screen Gems erano arrivati i film di Resident Evil, per darvi qualche riferimento: era inevitabile, quindi, che The Last of Us sarebbe diventato un blockbuster molto più action, con numerosi combattimenti contro i clicker, annullando quasi del tutto l’empatia che si andava a creare tra i due personaggi. Tra l’altro, all’epoca si era pensato anche a Maisie Williams nei panni di Ellie, sfruttando anche quello che era il suo momento d’oro grazie all’interpretazione di Arya Stark in Game of Thrones. Un elemento che, poi, è stato del tutto offuscato da quella che è stata la fine del progetto: cancellato in tutto e per tutto.
Il tempo che si prende la serie TV
Ma perché una serie televisiva, adesso, ci sembra un’ottima idea e quell’adattamento cinematografico, invece, non funzionava per niente? Anche e soprattutto perché lo stesso Neil Druckmann non era d’accordo con il medium finale, ma principalmente perché tante cose non avrebbero funzionato. Partiamo, in maniera banale, dal tempo stesso: in due ore di film non avremmo potuto mai lasciarci affliggere dall’evento che scatena il cambiamento di Joel e spinge l’uomo a rivedere la propria esistenza e la propria vita; la serie televisiva sfrutta tutte le sue nove ore a disposizione per riuscire a dare il giusto respiro e spazio a Sarah, che – anzi – ne acquisisce ancora di più rispetto al videogioco.
Abbiamo già ripetuto, più volte, di quanto la serie stia fornendo più elementi allo scenario realizzato da Druckmann, permettendosi di far partire il prologo da decine di anni prima, anticipando di molto lo scoppio della pandemia. The Last of Us si prende il proprio tempo, ci accompagna mano per mano attraverso la scoperta di ciò che accade in un mondo dilaniato da una pandemia che tanto ci riporta alla mente momenti tristi vissuti di recente. Lo fa proprio perché ha 9 ore a disposizione, un tempo nel quale non solo riusciamo a capire meglio il rapporto tra Joel ed Ellie, ma durante il quale riusciamo a vederli crescere e creare una complicità che smuovono l’umanità cristallizzata di Joel.
The Last of Us racconta un viaggio, che di per sé potrebbe quasi essere solo un pretesto narrativo per riuscire a dipanare una vicenda che, come già detto, racconta il riscatto e la seconda possibilità concessa a un padre di riconquistare il proprio rapporto con una nuova figlia. Il tempo che Joel si prende per digerire il trauma mai superato e per vincere quegli spigoli che lo condizionano nelle fasi iniziali del rapporto con Ellie, è fondamentale per permettere anche a noi di godere a pieno di quell’empatia crescente e di quel climax che si fa leitmotiv del percorso non solo in senso fisico, ma anche figurato compiuto dai due protagonisti verso la salvezza.
L’idea di Screen Gems, che avrebbe proposto la sua versione action fatta di combattimenti e azione pura, proprio come era World War Z, avrebbe completamente imputridito quella che era la visione originale di Neil Druckmann, in cerca di qualcosa di più riflessivo. Il terzo episodio, che avrete modo di vedere presto, vi farà capire quanto il lavoro del creatore di The Last of Us si stia basando su questo concetto e quanto abbia lavorato nel suo sottotesto dei personaggi e nella caratterizzazione: tutti aspetti che, dovendo scendere al compromesso del tempo inferiore alle tre ore per un film, in un lungometraggio si sarebbero totalmente perse. Con buona pace per quel blockbuster di Screen Gems.