La quarta stagione di Boris ha calato la banda di René Ferretti in un contesto completamente nuovo: non più il mondo nepotista, caotico e corrotto delle fiction della televisione di Stato e nemmeno l’esuberanza ‘troppo frizzante’ e avvezza alla telespazzatura della Concorrenza, bensì l’universo della grandi piattaforme americane — con il loro management inebriato di parole straniere, una insincera ossessione per la diversity e la promessa disattesa di poter fare finalmente Cinema con la ‘C’ maiuscola (e di conseguenza ‘non così italiano’, direbbe Stanis).
Sarà perché quella a cui deve lavorare è una co-produzione con Stanis, sarà che la banda, appunto, è la stessa di sempre (o quasi, che la buonanima della segretaria alcolizzata Itala riposi in pace), ma René si accorgerà ben presto che lavorare con la Piattaforma non è poi così diverso da farlo per la TV di Stato. Insomma, si fa tutto ancora una volta a cazzo di cane. La Piattaforma non ti affibbia l’attrice cagna raccomandata, ma in compenso ti impone un San Matteo di colore, perché il Manuale Cencelli della Inclusion richiede di mettere le spunte sulle caselle della diversità etnica e “sessuale” [sic]. I cambi in corso d’opera alla sceneggiatura non vengono imposti dalle eminenze grigie di Viale Mazzini, ma da un oscuro ed enigmatico algoritmo che vuole a tutti i costi inserire dinamiche da teen drama all’interno del racconto della vita di Gesù Cristo. E così via.
Se perfino la Rai, quella vera, si svecchia e punta su Il Collegio e su Rai Play, è evidente che la satira di Boris doveva obbligatoriamente cambiare indirizzo e farsi attuale. Il risultato è un racconto più sincero di quanto si possa pensare di tutte le discrasie che Netflix&Co hanno introdotto nell’industria del cinema.
Non si parte a girare senza il ‘lock’ dell’algoritmo
Un’altra televisione in Italia è possibile? Non se di mezzo c’è l’algoritmo, il nuovo Dio-padrone della creatività che farà presto rimpiangere a René l’imperscrutabile Dottor Cane delle prime stagioni. Chissà se e quanto l’algoritmo, quello vero, avrà influito sulla sceneggiatura di questa quarta stagione di Boris, per la prima volta ospitata sulla piattaforma Disney+.
Come suggerisce Boris, piattaforme come Netflix non hanno cambiato solamente il modo in cui guardiamo film, ma anche come vengono prodotti. Ovviamente non esiste veramente un “Unico Algoritmo” semi-senziente che influenza in corso d’opera la produzione dei film e delle serie TV, ma poco ci manca.
Abbiamo un grande algoritmo globale, che è estremamente utile perché ci permette di soppesare i gusti di tutti i consumatori del mondo
aveva confessato l’Head of product innovation di Netflix, Todd Yellin, in tempi non sospetti (correva l’anno 2016). La stessa Netflix nel 2019 suggeriva che quello stesso algoritmo valesse oltre 1.000 miliardi di dollari.
Ed è vero che Netflix utilizza anche il machine learning per determinare quali prodotti mandare in produzione – il lock, per riprendere il linguaggio di Boris – e quali invece cestinare. Nel 2018 Netflix sosteneva di selezionare le sceneggiature da mandare in produzione utilizzando un processo ibrido basato per il 70% sull’analisi dei suoi consulenti e per il 30% su un algoritmo che analizza costantemente le preferenze e le abitudini degli abbonati. Questo algoritmo monitora i contenuti più guardati dagli utenti, analizza quanti utenti iniziano una determinata serie per poi terminarla e via dicendo.
Secondo un interessante (e pungente) commento a cura di No Film School, il modello Netflix avrebbe creato una sorta di “inferno cinematografico”, con gli spettatori che sarebbero costretti a guardare e riguardare film virtualmente indistinguibili tra di loro, proprio perché frutto di un algoritmo che non soltanto sceglie quali film girare e quali invece cassare, ma alimenta anche l’home page della piattaforma, scegliendo quali contenuti imboccare all’utente e quali invece devono essere nascosti negli angoli più remoti dei risultati di ricerca.
Siccome Netflix è una data company, sanno esattamente quello che i loro spettatori vogliono vedere. Quindi possono dare una letta a quello che hai scritto e dire: “Sulla base dei nostri dati sappiamo che se fai una scena del genere allora perdiamo questo numero di spettatori”. È un tipo di approccio diverso a quello tradizionale. Non si tratta di dire: “ok discutiamone” e forse come autore potrei averla vinta. Il punto di vista dell’algoritmo vincerà sempre
aveva raccontato – forse usando un iperbole – il regista di No Time to Die, Cary Fukunaga, alla rivista GQ.
Ma non tutti gli algoritmi vengono per nuocere (per così dire). A volte succede che il sistema di ranking di Netflix finisca per premiare film e serie TV che difficilmente avrebbero ottenuto un’importante campagna di marketing e che pertanto rischiavano di passare rapidamente nel dimenticatoio o rimanere sconosciuti al grande pubblico. Nel 2021 Netflix ha distribuito una serie TV nata da una sceneggiatura che per oltre dieci anni era stata respinta dalle case di produzione tradizionali. Doveva essere un riempitivo, una serie TV destinata al mercato coreano e ad una nicchia di appassionati del genere distopico. E invece è stato un successo clamoroso che, proprio grazie agli algoritmi che aiutano Netflix a scegliere cosa mettere in evidenza nella home, ha rapidamente bruciato ogni record della piattaforma venendo vista tutto d’un fiato da centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Ovviamente parliamo di Squid Game. “Sapevamo che sarebbe andata benissimo in Corea e in Asia”, aveva raccontato all’epoca Ted Sarandos, N.1 di Netflix. “Ma non ci aspettavamo nulla del genere”.
La Piattaforma sa già cosa guarderai questa sera
Il modello Netflix, poi replicato da dozzine di competitor, non ha influito solamente su gli insider, ma anche sugli spettatori, plasmando le nostre abitudini e perfino i nostri gusti.
Aprendo Netflix, due utenti diversi non vedranno mai la stessa home page. Netflix tiene traccia di quello che guardiamo e ci chiede di manifestare attivamente il nostro giudizio: il film era bello? Un pollice in su. Brutto? In giù. Lo abbiamo adorato? Due pollicioni. Da qui nasce il formidabile sistema di raccomandazioni di Netflix. La piattaforma è così sicura della capacità del suo algoritmo che nel 2021 ha lanciato un nuovo metodo di riproduzione casuale: si chiama Riproduci qualcosa e consente all’utente di delegare a Netflix la scelta dei contenuti del catalogo da riprodurre. La scommessa è che Netflix ti conosca così bene da sapere meglio di te cosa mostrarti.
Dopo appena qualche giorno di visione Netflix ci ha già capito alla perfezione. O così pensa. L’home page viene fatta su misura sartoriale: non cambiano soltanto i film e le serie TV, ma anche il modo in cui ci vengono proposti.
Nel 2017 diversi media avevano scoperto che Netflix utilizza locandine diverse per proporre lo stesso contenuto a tipologie di abbonati diversi. Ami l’horror? Ecco che per spingerti l’ultima stagione di Stranger Things ti mostreranno un poster con l’inquietante Vecna. Sei una ragazza che vuole immedesimarsi in donne forti e combattive? A te mostreranno Nancy. La sera prima hai visto Stand by Me tutto d’un fiato? Vada per la squadra di furfantelli che inforcano le loro biciclette.
La notizia aveva in realtà suscitato diverse polemiche, perché si era scoperto che questo approccio è anche piuttosto… razzista. Ad esempio Netflix tende (o quantomeno tendeva) a mostrare poster con attori di colore agli abbonati afroamericani, anche quando gli attori in questione avevano ruoli da poco più che comparse. Il risultato è che gli spettatori venivano ingannati, finendo per pensare che si trattasse di un film con protagonisti di colore quando si trattava dell’ennesima produzione con un cast prevalentemente caucasico. E questo il meno: non è carino targhetizzare le persone sulla base del colore della loro pelle. Anzi, a dire il vero, è incredibilmente inquietante.
Parola d’ordine: Inclusività
Cercasi un San Marco cinese. E perché no, pure una cameraman omosessuale e se non si trova va bene uguale il direttore della fotografia asessuale. La minoranza di calabresi? No ok, quella ce l’abbiamo.
Non senza abbondare di cinismo, la quarta stagione di Boris se la prende anche con l’inclusività asettica delle produzioni americane. Le persone vengono ridotte al colore della loro pelle e all’orientamento sessuale, con risultati talvolta grotteschi. Sparare sul sentimento ‘woke‘ esasperato delle produzioni Netflix è troppo semplice, così soprassediamo ben volentieri.
Sulla carta garantire a tutte le sfumature di umanità la giusta rappresentazione è encomiabile, ma ovviamente l’industria dell’intrattenimento statunitense è riuscita nell’impresa di dare risvolti distopici anche ad una battaglia così nobile.
Così succede che partire dal 2024 l’Accademy non terrà più in considerazione le candidature di film che provengano da produzioni che non rispettino determinati requisiti di diversità. Vale per il cast e anche per le maestranze: requisito 1) almeno uno dei ruoli principali deve andare ad una minoranza sottorappresentata 2) il 30% del cast è composto da persone che appartengono a minoranze sottorappresentate 3) la trama o il tema del film è incentrato su tematiche legate alle minoranze 4) almeno due dirigenti dei team di produzione (dal regista al responsabile della scenografia) devono appartenere ad una minoranza. Per ambire alla statuetta bisogna soddisfare almeno due di questi requisiti. Lasciamo a voi i commenti.
Succede anche che, in nome delle affirmative action, i talenti di colore vengano usati dagli studios come pedine da muovere a piacere. Utili finché c’è una casella da riempire e facilmente rimpiazzabili quando non è più necessario.
Di recente lo sceneggiatore e produttore Anthony Q. Farrell ha raccontato di come nel 2009 è passato dall’essere uno sceneggiatore della popolare sitcom The Office a finire a piegare magliette per Macy’s, una catena di negozi di vestiti statunitense. Farrell era stato assunto in virtù di un programma della NBC creato con lo scopo di aumentare la diversità all’interno delle produzioni televisive. In pratica il suo stipendio veniva pagato direttamente con il budget della rete televisiva, e non della produzione di The Office. Un sistema di incentivi perverso, che di fatto faceva sì che gli autori afroamericani non potessero mai scattare di livello e che venissero assunti praticamente soltanto quando c’era un “diversity slot” da riempire. Peraltro il programma aveva una durata di appena tre anni e potete immaginare cosa succedeva al suo termine. Si finiva a piegare magliette per Macy’s, appunto.
“È il motivo per cui se prendi in mano il curriculum di un creativo di colore non trovi mai posizioni di medio-livello: si passa da un salario base garantito dai diversity program ad un altro, finché non spunta improvvisamente una posizione da dirigente esecutivo”, spiega Anthony Q. Farrell. Ovviamente si riferisce agli artisti di colore che, esasperati dalle discriminazioni degli studios, decidono di fondare le loro case di produzione e produrre direttamente da soli i loro show. Tutti gli altri vengono confinati nell’eterno limbo di una gavetta infinita, finché non diventano troppo vecchi per riempire gli slot riservati ai nuovi talenti delle minoranze.
Tornando a Boris: dopotutto, forse c’è più empatia e tatto nell’approccio alla diversità di Diego Lopez che in questa cosa qui.