Alessandro Rak, napoletano, è un regista, sceneggiatore e fumettista, ma soprattutto uno dei più importanti esponenti del cinema di animazione del nostro Paese.
Figlio d’arte, il suo percorso artistico parte dalla letteratura con i baloon e dall’illustrazione per poi approdare all’animazione, che studia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Dopo il diploma comincia a insegnare presso la Scuola Italiana di Comix e nel 2001 dà avvio a una proficua collaborazione con l’amico e collega Andrea Scoppetta, con il quale forma lo studio Rak&Skop.
L’arte della felicità è il suo debutto nel mondo del lungometraggio animato, prima collaborazione con Mad Entertainment.
Il film ha aperto la 28° Settimana della Critica della 70esima Mostra del Cinema di Venezia, da lì in poi ha riscosso premi, riconoscimenti e applausi in tutto il mondo. Soprattutto è divenuta una pellicola che ha rivoluzionato l’idea del cinema di animazione nel nostro Paese, emancipando il linguaggio dall’idea tradizionale che lo ha visto sempre legato al mondo dell’infanzia.
Nel 2017 esce Gatta Cenerentola, lavoro che non solo ha confermato la tendenza di questo nuovo corso inaugurato da Rak e il suo team qualche anno prima, ma ha, se possibile, ulteriormente espanso la portata della loro visione, bissando i successi di Venezia nella cornice della 73esima edizione, ma anche portando a casa David di Donatello, Nastri d’argento e Ciak d’oro, e infine riuscendo ad aggiungere un contributo fondamentale a livello di software, aprendo così la via ad utilizzi futuri per progetti animati in tutto il mondo.
Un vanto, un’eccellenza nel panorama italiano.
La sua ultima fatica è Yaya e Lennie – The Walking Liberty presentato Locarno nel 2021, pellicola che ci ha permesso di intercettarlo e disturbarlo mentre era tranquillo a gustarsi un caffé in mattina soleggiata, speriamo non gli sia andato di traverso dopo la nostra conversazione.
Quello che ci ha regalato è stata la condivisione di un pensiero artistico libero, mosso da una visione della missione cinema precisa e appassionata, oltre che una lezione magistrale sul senso stesso dell’animazione e la sua capacità di rapportarsi con il mondo.
Intervista ad Alessandro Rak
È sempre più difficile trovare una visione del futuro dell’umanità nel cinema contemporaneo, sia in quello italiano che tra le grandi produzioni internazionali. Anzi, le storie a cui assistiamo su schermo sembrano testimoniare sempre più una rottura tra passato, presente e futuro. I tuoi film rappresentano una meravigliosa eccezione da questo punto di vista.
Già dall’Arte della felicità mi era abbastanza chiaro quale fosse il mandato umano: è come se fossimo progettati per cercare un’idea di felicità, anche se non ne conosciamo il motivo.
Il “lieto fine” come obiettivo perenne dell’esistere, anche se nella nostra esperienza di vita come singoli c’è sempre l’idea della morte e probabilmente anche della sofferenza subito prima.
Il punto è che per me scrivere una storia non può prescindere dall’idea di questo mandato, ovvero contribuire all’umana battaglia che riguarda la ricerca di una felicità.
Questo perché io credo semplicemente che il destino dell’umanità non abbia la medesima corrispondenza di quello del singolo individuo, tant’è che anch’esso, quando diventa partecipe del tutto che lo circonda, può vedere su quello stesso orizzonte dove prima vedeva morte e sofferenza una sorta di bellissimo ballo dove la prima contribuisce ad un concetto di rigenerazione e la seconda ad un’idea di battaglia di comprensione.
L’idea quando scrivo è di trovare prospettive e soluzioni, altrimenti mi ammutolisco.
Quello che vedo nel cinema italiano è invece un minimalismo, un chiudere gli occhi al macroscopico e legarsi unicamente a questo presente per descriversi umilmente miseri, mentre nel cinema americano ci vedo una grandezza così spregiudicata (e volgare in alcuni casi) da pensare di poter conquistare il mondo e la vita senza però offrire delle reali prospettive se non distopiche o folli o drogate.
Mi hai fatto pensare a come effettivamente la morte sia sempre presente nei tuoi film, anche quando è fuoricampo e di come l’utilizzo che ne fai non è mai di un elemento di fine, posto all’orizzonte appunto, ma di inizio. Tu cominci a raccontare proprio da lì. Penso sia rivoluzionario per il contemporaneo.
È un versante su cui mi batto continuamente, cercando di contrastare il pessimismo che si insinua quando si pensa alle prospettive e al modo inesorabile che ha il nostro mondo di incedere.
La nostra società sembra costruire delle macromacchine di fronte alle quali il singolo si disattiva, sentendosi esautorato, spinto a porsi col capo chino di fronte ad un ineluttabile. Eppure quelle macromacchine ci dovrebbero vedere responsabili e partecipi, il problema è che sono troppo più grandi, prive di un potere quartierale e lontane dallo scontro condominiale. Vivono in una dimensione in cui il conflitto tra gli individui non conta più nulla.
Le politiche nazionali sono quasi annichilite di fronte alla grande macchina capitale o ai temi più grandi dell’economia e le micropotenze come l’Italia sono le prime a rendersi conto di quanto il discorso politico si azzeri completamente, ecco perché anche il cinema italiano è così minimalista: è riflesso della politica.
Guarda la guerra in Ucraina: nessuno è in grado di fare un passo verso la pace perché oggettivamente nessuno capisce come si possa fare visti gli interessi in ballo. L’Italia si sente interprete di niente, dal momento che può essere solo un oggetto aggregante, ma aggregante in cosa? In un percorso senza nessuna direttiva o illuminazione. Io invece penso che la politica, intesa in un senso più ampio, sia al di sopra del cinema e al di sopra di tutto il resto, in quanto è amministrazione della cosa pubblica.
È nel momento in cui ti rendi conto che è il gestire senza illuminare che ti sta obbligando al minimalismo e al pessimismo che la risorsa della fantasia deve intervenire, perché se accetta questo è meglio che stia zitta, ha fallito la propria missione, diventa solo una voce in più che compromette la realtà e basta, senza prometterle niente.
Riallacciandomi a questa cosa meravigliosa che hai detto, quanto ti ha aiutato l’animazione, in quanto linguaggio a tenere fede, alla missione di fantasia e creatività? È per questo che lo hai scelto?
Se ti dicessi che l’ho scelto per questo ti direi una bugia.
Quello di cui sono certo è che sia però sicuramente il linguaggio migliore per assecondare queste intenzioni dal momento che l’animazione è la pietra filosofale del cinema, il grande calderone dentro il quale si trova anche il live action. Questa è una cosa molto trascurata.
Di base l’idea dell’animazione è la possibilità di creare l’illusione del movimento proponendo dei singoli fotogrammi in una sequenza veloce e quindi fregare la percezione umana, convincendola che stia accadendo qualcosa di reale o irreale davanti a lei. Il cinema classico, live, si appoggia su questa cosa: possiamo rubare alla realtà 24 fotogrammi al secondo, riproporli alla stessa velocità con la quale li abbiamo presi e magari l’occhio non riesce a capire che sono singoli fotogrammi, percependo qualcosa che si muove realmente e pensando quindi di vedere qualcosa che chi sta filmando ha realmente visto. Cosa assolutamente falsa.
L’animazione lo sa, quindi se vuole può fare esattamente quello che fa il live action, ma subito dopo può prendere 50 fotogrammi al secondo e riproporli a 24, stai facendo rallenty? No, sto facendo animazione. Può prendere 3 fotogrammi al secondo e proporli singolarmente all’interno di un secondo, poi riproporli a 24, ma disegnandoci sopra ecc…
Tutto questo è animazione: giocare con i fotogrammi nella libertà più assoluta. Il grande calderone del gioco dell’illusione.
Fin dal primo film sembrava tu avessi questo scopo di giocare con queste varie possibilità di “illusione” della percezione, anche rifacendoti al live action, è così?
Nel primo film l’idea era di fare un cartone animato per adulti e dunque giocare un po’ con la volontà di sfatare l’idea del pubblico italiano che lega l’animazione ad un linguaggio per bambini.
Per farlo però si doveva passare per una mortificazione del linguaggio.
Nel cartone animato un personaggio può cadere dall’ultimo piano di un grattacielo e rimbalzare, dunque proporre in animazione una realtà in cui questo personaggio invece muore può creare un cortocircuito, perché da una parte nega alla fantasia la sua natura che le dice che può fare quello che vuole, ma dall’altra può creare un legame empatico molto forte con l’individuo.
Un’idea del linguaggio efficace dal momento che la pellicola si basa sull’idea di un’anima che può fare tutto, ma che si autolimita perché va dietro al proprio corpo, salvo poi librarsi improvvisamente sciogliendo i vincoli.
Un altro esempio delle potenzialità dell’animazione, poi diventa una questione di equilibrio.
Quando fai la regia dei film d’animazione hai quindi a che fare con un linguaggio dalle infinite possibilità. Riesci a portare questo l’equilibrio tra corpo e anima anche nell’occhio del regista?
Diciamo che in linea di massima, quando io faccio la regia dei film, al di là tutti i pensieri che mi muovono, da intellettuali a intellettualoidi, cerco di seguire un istinto e una curiosità figlia del momento.
Quindi non voglio avere tutta questa proprietà di linguaggio, mi piace anche assistere a quello che la mia anima vuole illustrarmi, pagando magari anche le conseguenze di un’ingenuità di approccio volontaria, dove vengono ovviamente introiettate anche passioni cinematografiche mutuate probabilmente dal mio essere un fruitore, oltre che dalla mia percezione della realtà.
Questa passione liberamente fluttuante si riflette anche nel contenuto oltre che nel linguaggio, perché nei tuoi film si vede veramente qualsiasi cosa.
Un nostro film di animazione “ci costa” in media 2/3 anni di lavorazione e quindi se fossimo agganciato ad un solo genere cinematografico ci annoieremmo a morte, c’è bisogno di metterci un po’ di tutto innanzitutto per noi che ci lavoriamo. Diciamo poi che ognuno di noi ha il piacere e lo sfizio, quando costruisce per esempio una scenografia, di metterci un segno, una particolarità, un qualcosa di suo.
Devi sempre tenere presente che l’animazione parte da un foglio bianco quindi qualsiasi cosa ci metti dentro è ragionato, anche un mobiletto deve essere preciso e unico, e io, che mi ritrovo a fare la regia, spesso mi ritrovo una ricchezza incredibile di decisioni, di pensieri e invenzioni di altra gente a cui cerco il più possibile di dare sia una coerenza.
Com’è cambiato il cinema di animazione in Italia da quando hai cominciato a lavorarci?
Io penso che con la Mad Entertainment, tutti i ragazzi con cui ho lavorato in questi anni, qualcosa abbiamo contribuito a cambiarla nello scenario italiano. Poi io non credo che questa cosa abbia assunto le sembianze di un movimento cinematografico o roba del genere.
Diciamo che abbiamo fatto quello che potevamo partendo dalla nostra città, che poi non è neanche mai stata considerata una realtà particolarmente ricca o particolarmente, diciamo, centrale nel cinema, anche se devo dire che negli ultimi anni qualcosa è cambiato in questo senso.
Ecco, noi abbiamo contribuito all’idea che si può fare un mestiere che deriva da una passione nella propria città, soprattutto legando quello che si fa all’amore per il territorio.
Rimane un piccolo esempio di qualcosa, che è senza dubbio un valore nel palcoscenico dell’animazione italiana. Questo è quanto.
Per quanto riguarda i cambiamenti nella parte del lavoro più tecnica?
Io cominciato nel 1996 nel CSC, il corso si chiamava “Animazione nuove tecnologie”, dove le nuove tecnologie erano una piccola macchinetta in VHS (o in BETA, non mi ricordo), che ti permetteva di previsualizzare l’animazione che stavi andando a fare, perché prima l’animazione si faceva al buio: si disegnava fotogramma per fotogramma e poi si trasferiva su pellicola, che poi si sviluppava e si stampava e solo dopo potevi vedere se l’illusione del movimento funzionava o meno.
Mentre io partivo da questo in giro già circolavano i primi computer e le prime macchine fotografiche digitali. Chiaramente il discorso si è spostato poi a livello software, sulla loro implementazione e sperimentazione. Un aspetto a cui noi abbiamo anche contribuito, utilizzandone alcuni che ancora non erano stati utilizzati, un discorso che è valso sia per L’arte della felicità che per Gatta cenerentola.
A noi piace l’idea di ottenere un aspetto bidimensionale anche quando partiamo da un approccio tridimensionale all’immagine, dato che quest’ultimo è quello più agevole nella misura in cui riesci ad ingabbiare il segno. In alternativa non potremmo contare su disegnatori così spiccatamente bravi, conservare le fisionomie realistiche dei personaggi aggiungendo a questo una qualità dell’animazione altrettanto dignitosa, anche per via del budget che abbiamo a disposizione.
Invece siamo riusciti grazie alla sperimentazione dei software, ai ragionamenti sulle sue potenzialità e strumenti ad ottenere il risultato e la qualità che avevamo in testa.
La serialità può dare una mano all’animazione in Italia? Penso a capolavori come Arcane, ma anche a splendidi esempi più vicino a noi come Strappare Lungo i Bordi.
Il problema è che esiste una sorta di alienazione quando si fa animazione, dovuta al fatto che ci vuole tanto lavoro per un risultato molto breve.
Uno degli errori più comuni è proprio quello legato ai tempi, nel senso che l’animatore spesso mette troppe informazioni in un tempo troppo breve, non rendendole comprensibili per lo spettatore.
Ci metti anni a fare quello che nel live action richiede qualche settimana e questo si lega anche ad un problema nel budget: i film di animazione durano di meno perché costano parecchio e io sono convinto che i nostri lavori spesso avrebbero avuto bisogno di un respiro in più, di una scena in più, ma proprio per deformazione professionale finiscono pe essere più brevi del necessario.
La questione seriale risolverebbe questo problema narrativo, è vero, ma tu pensa che se già nel lungometraggio devi stare 3 anni su un singolo progetto che ti può aver stufato, allora una serie ti inchioderebbe definitivamente.
La nostra è una macchina piccola, quindi in ogni caso chiedi alle persone che lavorano per te un grande sacrificio, capisci quindi che solo nel momento in cui la macchina si allarga e sai che puoi contare di finire il lavoro in un tempo più breve che puoi pensare a realizzarlo.
Il problema per noi e per me è il sentirsi vincolati per un tempo eccessivo ad un unico soggetto.
Ti sei fatto un’idea del futuro dell’animazione in Italia?
Io penso che l’animazione è una realtà in crescita, proprio a livello internazionale, considerando che anche i videogiochi fanno parte di questa partita. Anzi, se uno va a vedere il bacino di utenza forse ora è proprio il videogioco che trascina l’animazione, essa è quasi al servizio di.
Il videogioco mette a disposizione degli strumenti in più, pensa a tutte le potenzialità di interazione, e questa cosa può diventare una via al servizio di un pensiero artistico o commerciale e, a seconda di questi percorsi, si potrebbero aprire nuove strade per l’arte contemporanea o per un nuovo tipo di cinema.
Il punto fondamentale è: l’animazione è un settore in ampliamento, esistono anche molte più scuole e più persone che si formano, ma bisogna capire se l’Italia avrà l’intelligenza di capire queste potenzialità e prospettive, saperle indirizzare e trattenere, sviluppandole internamente, evitando di regalare talenti ad altri Paesi, come sta accadendo.
Quanto è importante l’originalità nel tuo lavoro, anche in una dimensione diciamo da valore produttivo?
Chi viene dal mondo dell’illustrazione ha spesso un comportamento emulativo, perché ha acquisito la passione guardando gli altri e questa cosa io la sento anche su di me, ma il rapporto con le altre persone, che l’animazione ti offre, essendo un continuo incrocio di desideri, impellenze e problematiche, ti porta dimenticare quel desiderio emulativo e ti obbliga a trovare una strada “originale”.
Dall’altra parte diciamo che esistono delle forze che insistono per la tua non originalità, ovvero la richiesta del mercato, che l’industria cinematografica tutta è molto propensa ad assecondare, ma è così per i grandi marchi di qualsiasi settore: la partita si gioca con le richieste primarie delle persone. Questo piega le realtà creative e obbliga l’originalità alla retorica sempre funzionale.
In questo senso non esiste una strada. Capisco i mestieranti, persone che rispondono ad una richiesta di mercato che è sempre presente, che lavorano sull’importanza della ripetizione delle storie: tramandare e non inventare per farti capire. Ha un senso che comprendo.
Premesso questo io mi rompo le palle, quindi posso anche dire basta con l’animazione e con questo mondo che mi si è creato attorno perché non mi piace quello che mi chiede o come ci sto io dentro, che per esempio non sono riuscito a proporre alternative in maniera corretta o col giusto vigore. Non so da questo punto di vista come andranno le cose.
L’originalità è la mossa disperata di una vita che vuole cercare qualcosa che prima non c’era.
Che dovrebbe essere la missione dell’arte, no?
Io cosa “dovrebbe” non lo so dire, quello che sento io riguardo la missione è questo: tu vuoi raccontare una cosa alle persone? Ok, cosa stai cercando di nuovo da raccontare? Di nuovo nel senso nuovo per te, poi magari qualcuno lo ha già scoperto, ma quando senti un bambino che ti racconta che ha scoperto l’acqua calda è emozionante perché è vera l’emozione della ricerca e della scoperta.
Parimenti, un autore è per me interessante quando è una persona che ti riporta la ricerca e la scoperta che ha fatto quando le corrispondenti emozioni sono ancora vive.