E quindi ci risiamo. L’analisi della condizione umana contemporanea e dunque del linguaggio cinematografico (che è il miglior modo di raccontarla, ricordiamo) continuano ad essere figli dell’incredibile paura verso il futuro e della conseguente idolatria verso il passato, che però è pericolosa, dato che rischia di far scattare nello spettatore la macchina del rimpianto, ma per questo c’è l’effetto what if. Ecco perché il senso narrativo delle pellicole attuali è sempre più orizzontale (anche quelle ambientate nel passato ne sono soggette, dato che tutto viene narrato secondo un’ottica revisionista che di fondo attualizza un po’ tutto ciò su cui poggia lo sguardo). Di norma si cerca la non fine, ma la non fine la si può trovare solo ai lati, non di certo andando avanti. Un fenomeno anche metacinematografico, se volete, basti pensare alle ormai migliaia di costellazione composte da film che si collegano a spinoff seriali, universi talmente tanto in espansione da non farsi bastare più neanche i propri confini.
La Marvel è una delle entità più attente alla piega della narrazione audiovisiva (al punto che ha un ruolo fondamentale anche nell’indirizzarla) e lo è anche la A24, non a caso c’è un po’ della prima (i fratelli Russo) e l’intera forza produttiva della seconda dietro a quella che rischia di essere la pellicola simbolo sul multiverso di questo ultimo decennio, pregi e difetti. Nella recensione di Everything Everywhere All at Once vi parliamo della nuova pellicola dei “Daniels“, chiamati così non per motivi di parentela come i signori citati poco sopra, ma perché entrambi fanno di nome Daniel, i cognomi sono invece Kwan e Scheinert.
Il loro primo film era Swiss Army Man, quello in cui Daniel Radcliffe si emancipava dal ruolo di Harry Potter interpretando un cadavere che scoreggiava, ossia l’amico ideale di un tizio triste che per andare avanti ha bisogno di trovare aiuto addirittura oltre i limiti canonici della vita di noi tutti.
Si. A pensarci bene forse potevamo aspettarci una seconda opera del genere. Anche se mai avremmo potuto pensare ad una deriva così visionaria, lisergica, rocambolesca, colorata e immersiva come quella di questa giostra irrefrenabile che si diverte a mischiare generi, epoche e culture diverse.
Vi sento comunque, state pensando ancora “eeh, addirittura la pellicola simbolo del decennio“! Perché l’ho scritto? Ma è presto detto.
Perché si è accorta che la nuova corsa all’oro è quella all’uso del multiverso come nuovo elemento per narrare la sfera emotiva dell’uomo moderno.
La riuscita poi è tutta un’altra cosa.
Ci sta anche il fatto che mette insieme la tendenza indie del nuovo cinema pop /autoriale statunitense con una delle tematiche metalinguistiche di riferimento per chi lavora alle (misere) frontiere creative dell’industria, oltre che a basarsi, di fondo, sulla più grande ancora di salvataggio narrativa per i malati di nostalgia. Ma chi se ne frega direte voi.
E va bene.
Intanto il film vedetelo sullo schermo più grande possibile, vi sarà bastato il trailer per capirlo, Everything Everywhere All at Once debutta nei nostri cinema il 6 ottobre 2022 distribuito da I Wonder Pictures. In America ha fatto sfaceli al box office.
Le insospettabili peripezie di quando si va a pagare le tasse
Una gestazione lunghissima quella di Everything Everywhere All at Once, che ha visto i suoi due autori più volte tornare sui propri passi, cercando di ottimizzare al meglio la cifra non troppo importante stanziata per la loro creatura (circa 25 milioni di dollari) e cercando di capire quale fosse il miglior modo per arrivare a coronare un’ambizione che non è quella di realizzare semplicemente un film sul multiverso, quanto di riuscire a renderlo casa abitabile per un cammino emotivo compiuto universalmente valido.
Quando si parla di un film giocato da quel punto di vista allora una delle cose da non sbagliare assolutamente è il casting, che poi è stato uno degli oggetti di riflessione maggiore per i Daniels, i quali avevano pensato a Jackie Chan in prima battuta, salvo poi decidere addirittura per Michelle Yeoh.
Mai scelta fu più azzeccata.
Lei è Evelyn, il perfetto punto di riferimento di una famiglia cinese tradizionale, ma matriarcale (ambivalenza molto carina), immigrata negli Stati Uniti, dove gestisce la più classica delle lavanderie a gettoni.
Gli altri due componenti del nido sono il marito Waymond (interpretato da Jonathan Ke Quan, uno degli attori bambino più famosi di Hollywood, lo trovate ne I Goonies e Indiana Jones e il tempio maledetto) e la figlia adolescente Joy (la bravissima Stephanie Hsu di Shang Chi e de La Fantastica Signora Maisel). Ci sarebbe poi anche lo spaventoso padre della matrona, Gong Gon (James Hong, ladies & gentlemen), la cui visita per il capodanno cinese è sinonimo di uno dei giorni di maggior tensione per il trio (che di problemi già ne ha da vendere), per di più combaciante con la data della dichiarazione dei redditi.
La storia è ambientata praticamente tutta nelle poche ore che ci vogliono per farsi dare dei ladri e dei bugiardi dall’impiegato di turno, in questo caso impersonato da una Jamie Lee Curtis divertita come non mai. Un’attività ordinaria e noiosa, resa straordinaria da una vita passata a rinunciare alle proprie ambizioni, dopo tutto i motivi del debito della famiglia stanno nei tanti hobby di Evelyn, che ha dovuto mettere da parte tutto nel momento in cui ha deciso di seguire il ragazzo che amava.
Su questo paradosso si fonda tutto l’impianto del film dei Daniels: “come si fa a convivere con i rimorsi che accumuliamo lungo la nostra strada?“
Le possibilità di un “se”
La struttura è lineare, comprensibile, efficace.
Una storia divisa in tre parti che sono sinonimo del cammino di un’eroina resa speciale dalla sua totale mancanza di talento, la quale si ritrova ad essere scelta come l’eletta per salvare il multiverso da una minaccia rappresentata dal suo esatto opposto. Per Evelyn, infatti, avere altre versioni di se stessa vuole dire riuscire ad entrare in contatto con tutte quelle sue parti che hanno portato avanti i percorsi che lei non ha avuto la forza di percorrere, mentre l’entità che è chiamata a lottare vede nelle proprie nient’altro che la prova provata che nulla ha realmente importanza.
Motivo per il quale tanto vale distruggere tutto.
Una sorta di ribaltamento del disturbo dissociativo di personalità, in cui la scissione che scompone i vari Sé può diventare motivo di rinascita, a patto di riuscire a non frammentarsi.
Tra l’altro, anche una bellissima intuizione sui desideri di rinascita che accomunano fruitori e creativi e su cosa il cinema sta diventato in questo momento storico, cioè un modo per sfuggire a qualsiasi ferita narcisistica e un riparo per ogni paura connessa alla realtà che viviamo.
Il tutto avvalorato da una messa in scena caotica, ma comunque molto coerente (non ci sta nessuno che spiega il funzionamento di nulla perché è tutto chiaro) ed altamente spettacolare, che si diverte a mischiare generi (wuxia, commedia e fantascienza), citazioni (cinema pop britannico, fumetto, dita a hot dog, plug anali e Wong Kar-wai, che di contaminazioni se ne intende) e momenti surreali divertentissimi.
La via del what if era però mortificante per l’eco che poteva raggiungere Everything Everywhere All at Once, almeno secondo i Daniels, motivo per cui hanno deciso di spingersi oltre, provando a intavolare un discorso che potesse intrecciare all’avventura del multiverso il percorso di formazione esistenziale a forte impronta familiare di un personaggio a metà tra due culture. Idea che però porta la giostra fuori giri, trascinando il film verso una deriva ridondante. Il problema principale è che su questo aspetto la scrittura ci punta tantissimo, specialmente dopo aver smaltito la bellissima parte di introduzione all’avventura, arrivando a tentare di dar vita ad un trattato antropologico/filosofico/esistenziale che perde mordente man mano che si avanti e finendo con il depotenziare un ultimo atto dedito (anche fastidiosamente) a gonfiare a tutti i costi una rivelazione che non arriva mai.
Everything Everywhere All at Once è al cinema dal 6 ottobre 2022 con I Wonder Pictures.
Everything Everywhere All at Once è la seconda fatica dei Daniels, prodotta dai fratelli Russo e dalla A24, con Michelle Yeoh, Jonathan Ke Quan, Stephanie Hsu, James Hong e Jamie Lee Curtis. Un film che parte da una riflessione cinematografica moderna e intelligente, riuscendo a costruire su di essa una macchina visivamente interessante e narrativamente solida, ma che naufraga nel momento in cui viene piegata ad un percorso che prende la strada di una emotività mai coinvolgente e che vede nella sua meta il raggiungimento di una rivelazione esistenziale che non arriva mai, nonostante la si cerchi in tutti i modi. Anche il comparto visivo passa dall'essere sorprendente al ridondante, nonostante una spettacolarità e una creatività fuori dal comune, come sono fuori dal comune le riflessioni e le visioni da cui parte. Peccato sul serio.
- Lo scheletro della storia, semplice e funzionale.
- L'intero comparto visivo, spettacolare e coerente.
- La bellissima prova del cast.
- La metafora su cui si basa il multiverso e la chiarezza del suo funzionamento.
- La ridondanza di alcune trovate, dagli effetti alla scrittura, che finiscono con lo stancare.
- La confusione nello sviluppo emotivo dei personaggi.
- La debolezza del discorso esistenziale, che finisce con non coincidere con la potenza catartica che il finale evoca.