I figli degli altri, la recensione: l’altro volto della maternità

recensione di I Figli degli Altri

Il tema di una “maternità diversa” ritorna al Festival di Venezia dopo La Figlia Oscura presentato nel concorso dell’edizione nel 2021. Questa volta, con la recensione di I Figli degli Altri di Rebecca Zlotowski, non andiamo ad inquadrare una “cattiva madre”, ma bensì una donna, un’amante, una matrigna che generalmente, al cinema, non occupa mai il ruolo da protagonista.

Non è infatti così comune che “l’altra” all’interno di un film, di una serie o di una storia in generale, sia la protagonista, lo sguardo dominante su tutto il racconto. Generalmente è sempre la donna tradita, o l’uomo, a ricoprire questo ruolo. La persona che soffre. La madre abbandonata. La compagna ingannata che deve ricostruire la propria esistenza. Ma l’altro o l’altra che pensa? Che fa? Qual è la sua vita?

Indubbiamente sono domande che spesso non ci poniamo all’interno delle storie, empatizzando ovviamente con la “vittima” della situazione, eppure questo ruolo così marginale, spesso anche designato con degli accenti negativi e violenti, viene proprio messo al centro del racconto da Rebecca Zlotowski in quello che potremmo quasi definire un arco di trasformazione e consapevolezza del sè.

C’è anche da dire che la tendenza comune è anche quella di colpevolizzare chi ha “indotto” a tradire, come se la colpa possa davvero essere dell’amante e non della persona fedìfraga. Possiamo dire che anche in questo senso la regista francese pone l’accento su di una sorellanza abbastanza atipica, dove addirittura la comprensione tra una moglie ed un’amante risulta estremamente naturale, mettendo l’accento sul vero colpevole della sofferenza di entrambe.

Rachel, del resto, non è una persona che prova rancore. Non è neanche una donna che ha bisogno di un uomo o di un figlio per sentirsi completa. Lei si sente già completa, non ha mai avuto bisogno di nient’altro nella vita se non di sè stessa. Realizzata, brillante, intelligente e spigliata. È una donna di quarant’anni con un lavoro più che soddisfacente – insegna infatti lettere alle superiori – con diverse passioni e l’inizio di una stuzzicante relazione con un uomo. Un uomo single ma ancora fresco di separazione con la moglie, ed una bambina di cinque anni al centro di tutto.

 

Rachel non si preoccupa. Si gode i piccoli momenti di questa nuova avventura, lasciandosi piano piano travolgere da una routine che non pensava di poter davvero apprezzare. Improvvisamente il mondo intorno a lei, lo sguardo, sembra cambiare. Orologi biologici. Maternità. Piccole gelosie e merende dopo le lezioni di Judo, entrano con prepotenza nell’esistenza di Rachel, la quale comincia davvero a credere che forse l’idea di una famiglia non è così bizzarra.

Nel film l’accento viene posto più e più volte su quanto la protagonista non abbia bisogno di essere madre per sentirsi realizzata, per sentirsi davvero donna; che un compagno non sia fondamentale per anellare ad un certo tipo di felicità. Semplicemente Rachel prova sulla sua pelle un’esperienza che non le dispiace affatto e, affezionandosi sempre di più alla bimba piccola del compagno, comincia a sentirla un po’ sua. Comincia a sentire la propria esistenza girare attorno a lei, ma anche il desiderio di costruire una propria famiglia con Ali.

Cosa vuol dire essere madri?

recensione di I Figli degli Altri

Mentre Rachel prova a sentirsi sempre più parte della routine di Ali e della piccola Leila, e il desiderio di una propria prole si fa prepotente e rabbioso, si ritrova messa in un angolo. Assume nuovamente il ruolo di una comparsa, usata e abbandonata, per poi essere costretta a sparire.

Rebecca Zlotowski, partendo da una sua esperienza personale, pone l’accento esattamente su questo. Usa lo sguardo di Rachel per portare alla luce un punto di vista di cui spesso e volentieri facciamo a meno. Ma la famosa altra o altro non sono fantasmi. Non sono creature ciniche e privi di emozioni. Sono persone. Persone che si affezionano, che amano, che desiderano.

La maternità che viene estrapolata da I figli degli altri è un tipo di rapporto del quale ci si preoccupa sempre troppo poco. Non è il semplice legame di sangue che rende una madre o padre tale, per quanto la retorica de “la vera madre” o “il vero padre” è una cantilena alla quale siamo fin troppo abituati, ma è qualcosa che a volte può andare ben oltre questo.

Ne I Figli degli Altri assistiamo assieme a Rachel ad un bisogno nuovo e differente, a qualcosa che la rende improvvisamente insoddisfatta di se stessa e incompresa dagli altri. Un po’ come se si fosse rotta una bolla e mentre il mondo è andato avanti, lei fosse rimasta indietro. Al tempo stesso la rabbia di Rachel è dettata non solo dall’indifferenza del compagno nei confronti dei suoi sentimenti, ma anche dalla semplicità con la quale lui la mette da parte, quasi come a voler svuotare di valore e di importanza nei confronti del legame creato con Alice. Un po’ specchio del mondo nel quale viviamo. Sentimento condiviso da molte donne.

La delusione, la rottura ed anche il dolore, portano però la regia della Zlotowski e la sua Rachel a fare un’altra riflessione, ovvero che la maternità si manifesta in diversi modi. Rachel, in fondo, la cui vita è stata anche segnata dalla perdita della madre quando era solo bambina, è sempre stata un po’ la madre di suo padre, di sua sorella più piccola e perfino dei suoi alunni.

A suo modo Rachel è una figura di riferimento per molte persone e quando si sente sul bordo del baratro, comprende che invece le sue scelte l’hanno portata più lontano di quanto lei stessa abbia immaginato. La sua maternità è un altro tipo di maternità. Il suo essere al centro del racconto, ma sempre vista con lo sguardo di qualcun’altro, ci fa capire di quanto Rachel sia una di quelle persone che lascia una traccia, una vera traccia, nell’esistenza degli altri.

La fragilità delle piccole cose

Continuando con la recensione de I Figli degli Altri, possiamo essere sicuri di affermare che è una pellicola che fa molto riflettere sul senso di essere donna oggi senza essere madre o moglie o amante. Rachel fa un percorso. In questo percorso scopre nuove strade, nuovi bisogni, nuovi modi di intendersi in relazione agli altri. Magari per qualche momento sembra essere sul punto di cedere, di cadere, eppure Rachel non sente davvero su di sé la pressione sociale.

Quello che questa donna prova è un sentimento semplice dettato dalla forza dell’amore, della passione, del suo essere buona, paziente, generosa e sentirsi realizzata nell’essere effettivamente una guida per gli altri. A volte risultando un po’ troppo “angelo del focolare”. Non arriva subito a realizzare questo pensiero, ma appunto è una risoluzione che sopraggiunge in un momento di incertezza e di dolore.

Dall’inizio alla fine del film, Rebecca Zlotowski è fedele a se stessa e al suo credo e lo fa trasparire attraverso la sua protagonista. Con semplicità e delicatezza, porta a riflettere sulle conseguenze di alcune scelte, sulla determinazione di sé stessi al di là degli altri e su quei punti di vista che troppo spesso diamo per scontato, ma che invece hanno anche loro una storia da raccontare.

Nonostante questo va detto però che I Figli degli Altri non è una pellicola che convince davvero fino in fondo. Il tema è potente, attuale e che facilmente colpisce lo sguardo di chi si sente complice o parte della situazione di Rachel. Merito è anche della sua interprete, Virginie Efira (che probabilmente avrete anche visto più volte nei film di Paul Verhoeven come Bendetta ed Elle), la quale riesce immediatamente a creare un legame con lo spettatore. Sentita. Empatica. Si scivola con facilità nei panni di Rachel. Si ama con lei. Si soffre. Ci si sente frustrati. Abbattuti. E poi nuovamente carichi di speranza. Eppure il ritmo non regge per tutta la pellicola.

Il film sembra essere troppo patinato. Risente un po’ dello schema stereotipato del cinema francese di contemporaneo: esasperante, melodrammatico, stucchevole. Alcune scelte di montaggio, legate soprattutto alle transizioni, lasciano particolarmente perplessi. È come se si volesse dare un senso amatoriale, come a voler seguire la vita di questa donna, eppure non si riesce completamente nell’intento. Una pellicola piccola e semplice dal tema importante, ma che forse soffre anche troppo del peso della cornice nel quale viene inserita.

Una visione piacevole che lì per lì fa anche un po’ riflettere sulla rappresentazione odierna della donna, costante “oggetto” di discussione sul cosa ci rende più o meno donne, ma che poi lascia davvero molto poco nella memoria dello spettatore.

Per quanto la vita di Rachel vada avanti, è come se si rimanesse fin troppo in sospeso, in attesa di qualcosa ma che poi, alla fine, non arriva per davvero.

Segui la nostra copertura del Festival di Venezia dal 31 Agosto al 10 Settembre direttamente dal Lido sul nostro hub dedicato: leganerd.com/venezia79

recensione di Monica

 

 

65
I figli degli altri
Recensione di Gabriella Giliberti

La Zlotowski confeziona un film dall'anima pura ma dal corpo imperfetto. Una pellicola semplice e con una protagonista reale ed autentica, ma forse nella sostanza un po' fragile. Non riesce a convincere del tutto per quanto diverse sono le intuizioni interessanti dal punto di vista della tematica e scelta stilistica. Un film sicuramente leggero e per quanto dal tema importante forse un po' troppo inferiore rispetto alle pellicole presentate in questo Concorso.

ME GUSTA
  • Portare l'attenzione su un punto di vista diverso, generalmente reso comparsa all'interno delle storie
  • Virginie Efira semplicemente meravigliosa, sensibile e piena di trasporto. Facilissimo entrare in contatto con lei
  • L'accento su quanto non ci sia un tempo giusto o sbagliato per essere madre o che la maternità non definisce una donna, così come la famiglia può aver forme e risvolti differenti
FAIL
  • Un impianto un po' fragile, spesso traballante non convince fino in fondo
  • Per quanto il conflitto della protagonista si percepisca forte e chiaro, non c'è mai una vera svolta, un vero punto d'azione, si ha l'impressione di restare in un perenne stato di stasi
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