Atlanta 3, la recensione: ci siamo persi, il viaggio è iniziato

Atlanta

Se di sperimentazioni sul mezzo cinematografico con un’impronta autoriale e editoriale tangibile, concreta, indirizzata, che vada oltre il confine dell’autoriferimento e dell’incasso, se ne vedono sempre meno, la realtà sul piccolo schermo è ancora più mortificante. Negli ultimi tempi si è mosso qualcosa di importante soprattutto dal punto di vista dell’animazione (anche perché lì c’è Pendleton Ward, uno dei veri pochi geni rimasti in giro), altrimenti bisogna ancora fare riferimento ai grandi nomi pop. Allora la risposta è nella nicchia e, perché no, nella minoranza. Anche culturale, anche sociale, che dalla riflessione su di sé e su di sé nel mondo crea, guidata dal più alto degli scopi della comunicazione: testimoniare se stessa nella realtà che vive.

Questo è un po’ ciò (parafrasando per carità) che disse Donald Glover nel 2016 e la cosa non è cambiata neanche sei anni dopo, ecco perché mi sembrava opportuno iniziare così la recensione della terza stagione di Atlanta, la meravigliosa serie originale FX i cui nuovi dieci episodi sono disponibili, dopo una pausa infinita, su Disney Plus dal 29 giugno.

È cambiato il mondo dal 2018, anno dell’uscita della seconda parte, letteralmente, ed è profondamente cambiato il pensiero e l’approccio al lavoro da parte degli autori. Lo spirito però è rimasto lo stesso.

Lo sottolinea anche la volontà di arrivare alla chiusura di un cerchio (è stato annunciato che la quarta stagione, già girata, sarà l’ultima), di prendere una distanza da una prospettiva più adolescenziale, street, immatura, chiusa, che era quella delle prime due stagioni. Lo si vede nei vestiti, nei dialoghi, nella riappropriazione di un età simile a quella degli attori e in una struttura sempre meno interessata al racconto di una storia e sempre più tesa all’espansione di una cifra stilistica in grado di ampliare lo sguardo analitico.

D’altronde non siamo più ad Atlanta, anche se Atlanta un luogo fisico non lo è mai veramente stato.

La serie ideata da Glover e co. ha fin dal principio avuto lo scopo di parlare di cosa voglia dire “essere nero“, non solo in America, in questo caso è lapalissiano, e per farlo si è affidata ad un tono che ha sempre avuto come unico punto fisso il suo essere estremamente mutevole.

Fino ad ora il ruolo della cornice era stato concorrere allo sviluppo dell’originalità formale di un contenuto comunque coerentemente ancorato a quello che la trama (per così dire) raccontava, questa volta, pur mantenendo la coerenza, l’importanza si è progressivamente ribaltata, portando la cornice in primo piano rispetto al contenuto.

Televisione come testimonianza

Se nelle prime due stagioni il riferimento narrativo era quello della genesi di Paper Boi, nome d’arte di Alfred (Brian Tyree Henry), che poi si estendeva ad racconto metropolitano / filosofico / esistenziale che coinvolgeva vari personaggi in cerca di autore come il cugino del rapper in erba Earnest (Donald Glover), suo aspirante manager, Vanessa (Zazie Beetz), che con Earn ha una figlia, e Darius (LaKeith Stanfield), l’amico bohemien.

Tutti quanti impegnati a trovare il proprio posto nel mondo e i cui destini, in qualche modo, si legano alla carriera del cantante.

Brian Tyree Henry

Racconti quotidiani, che intrecciano le vite dei personaggi a vere e proprie parabole sociali e culturali, nate hanno lo scopo di testimoniare la realtà nera nell’America contemporanea, nello specifico riferendosi al momento dell’emancipazione familiare e ai primi approcci nel mondo dello spettacolo.

La serie la scrive pur sempre Childish Gambino, insieme ad altri sceneggiatori, va bene, ma il riferimento principale è, dopo tutto, la sua esperienza personale, yo.

Questa rimane una delle due stelle dell’orientamento del prodotto, che fa da scheletro al discorso esistenziale sulla condizione black.

Gli episodi di questa terza stagione non sono legati in modo canonico (cambia sempre la penna vicino a Glover): il tour di Paper Boi in giro per l’Europa vive di parentesi e digressioni quasi sempre oniriche, grottesche e lisergiche; metafore per parlare di altro e che si vanno ad intrecciare con un altro piano esistenziale ancora più allegorico e che mette completamente da parte le vicende dei protagonisti per occuparsi di altri immaginari.

Zazie Beetz e Donald Glover

Così dalla riesumazione di una delle più grandi stragi razziali della storia recente americana si può passare alla vicenda di un adolescente nero che viene preso in affidamento da due genitrici schiaviste, per poi andare ad Amsterdam per incontrare Zwarte Piet (“Pietro il nero”) o a Budapest per conoscere il fandom tossico e approfondire la crisi artistica e accorgersi che stiamo assistendo alla storia di un cantante di cui non conosciamo la musica. Magari fare un salto in Francia e cercare di staccarsi dalla moralità bianca che permea il giudizio delle scelte black riguardo l’uso della loro popolarità e, infine, tornare in America per assistere ad una puntata di Black Mirror o ad un casting per essere riconosciuto ufficialmente come un nero.

Un viaggio diviso in tappe da 30 minuti inaspettati, stupefacenti, divertenti e il cui unico monito è farlo più volte possibile.

Nulla è come Atlanta

Scrivere una commedia e girare una drama, fondare uno stile sul non porsi mai limiti, attingere da ogni registro linguistico ritenuto opportuno (quanto era già bravo e quanto è migliorato Hiro Murai), come horror, thriller, sci-fi e camp; puntare sull’idea di format più che di serie televisiva, adoperare se stessi come lente per guardare il mondo che ci circonda. Il leitmotiv è parlare sempre allo spettatore, quasi suggerendo un approccio al testo audiovisivo filosoficamente vicino ad una dimensione alla Matrix (c’è una cosa sul COVID molto esemplificativo in questo senso).

Atlanta è un piccolo miracolo creativo, che nasce, cresce e attinge costantemente ad una realtà culturale che vive di una contraddizione esistenziale sempre più disturbante, specialmente dal post Obama, il quale doveva tirare una linea sulla percezione della comunità nera nel mondo e che invece l’ha solo stravolta ancora di più.

Gli autori lo sanno e adoperano questo paradosso come formula principale da cui parte ogni diramazione riflessiva.

LaKeith Stanfield e Zazie Beetz

L’eccezionalità che si è creata nella visione popolare dell’essere black è diventata un’arma a doppio taglio perché ha acquisito uno status talmente distaccato dalla storia e dalla condizione dei neri in America da non rappresentarli più. Essa è divenuta una condanna, un corpo estraneo, un insieme di regole da galateo sociale ed esistenziale di una violenza inaudita. Un etichetta che invece di liberare imprigiona, negando una prospettiva sulla vita più serena, autocentrata.

Si deve essere un buon nero prima di essere la persona che si vuole essere, anche se essere un buon nero è un concetto che ha un’importanza tangibile solo se diventa un’arma di discriminazione e autodiscriminazione.

Come un Super Io culturale la cui funzione è condannare fino a rendere bianco chiunque.

Al di là degli episodi “incursivi” (splendidi, forse i più belli), la serie si concentra molto di più su Paper Boi e Van, sacrificando gli altri due personaggi, che quasi fungono da guida e raccordo. Loro sono infatti le parti più importanti dell’anima dello show.

Il primo rappresenta il modo per analizzare cosa diventa un nero quando entra in un mondo culturalmente ancorato al potere white come lo showbusiness e la politica (siamo ancora con Trump e prima del Black Live Matters), focalizzandosi sulla fatica di continuare a percepire se stessi per quelli che si è, degli orfani in cerca di rifugio tramite quello che fanno, attraverso le mille sovrastrutture derivanti dai ruoli razziale e artistico. La seconda è invece il senso e il fine del viaggio stesso: spogliarsi di tutto ciò che dovremmo essere per ammettere a noi stessi che non sappiamo e forse non sapremo mai dove stiamo andando. Però siamo capaci di amare.

Viva Atlanta.

Atlanta è disponibile dal 29 giugno 2022 su Star di Disney Plus.

80
Atlanta
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

Dopo una pausa di quattro anni è finalmente arrivata anche in Italia, su Disney Plus, la terza stagione di Atlanta, la serie ideata e interpretata da Donald Glover (che qualcosa dirige pure), accompagnato da un cast composto da Brian Tyree Henry, LaKeith Stanfield e Zazie Beetz. Questi nuovi dieci episodi portano il gruppo in tournee per l'Europa e decide di riconcepire la prospettiva sul linguaggio della serie impostandola ancora di più come un format più che un racconto, ribaltando ancora di più l'importanza della sua cornice e della sua cifra stilistica sul contenuto della trama in sé. Un viaggio ancora più esistenziale, lisergico, onirico e politico in cui ogni puntata rappresenta in un'incursione su un aspetto sociale ed esistenziale sempre legato all'essere neri in America oggi.

ME GUSTA
  • La continua sperimentazione sul mezzo, in grado di sposare originalità e coerenza.
  • La straordinaria fusione di registri linguistici differenti.
  • Il doppio senso della scrittura di ogni puntata, autonoma, ma dipendente dalle altre.
  • Le prove attoriali e l'evoluzione di ogni personaggio.
  • La concezione innovativo del linguaggio seriale.
  • La brillantezza e l'unicità con cui affronta le tematiche che si propone di approfondire.
FAIL
  • La natura particolare della serie la rende un titolo non per tutti.
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