Roy Menarini, docente di Cinema e Industria Culturale all’Università di Bologna e collaboratore della Cineteca di Bologna, è uno fra gli studiosi e critici cinematografici più stimati del panorama italiano contemporaneo. Nel corso della sua carriera ha scritto numerosi volumi sul cinema contemporaneo, sulla critica cinematografica e sulla cinefilia, pubblicando saggi nelle principali riviste nazionali di settore. Spettatore appassionato, studioso scrupolo e mente brillante e molto elastica, una qualità che ha portato Menarini ad aggiornarsi nel corso degli anni, riuscendo ad adattare il suo lavoro e il suo pensiero critico a tutte le nuove forme di linguaggio che le numerose rivoluzioni del dopo internet hanno introdotto nel settore, dalla carta stampata alle videorecensione, passando per tutte le formule che si sono susseguite in un modo in continuo movimento (se ne volete un esempio vi basta fare un salto sul suo sito).
In occasione dei suoi 50 anni, Menarini ha deciso di scrivere uno dei suoi testi più accattivanti, La grande illusione: Storie di uno spettatore (Edizioni Mimesis, 2022), un lavoro a metà tra memoir e saggio in cui l’autore ha deciso di ripercorrere la sua intera esperienza da spettatore attraverso 10 stanze (o capitoli), dal ’77 fino al 2020, in cui ha raccolto altrettante esperienze personali di visione, coincidenti le diverse stagioni della sua vita (da bambino, da studente, da padre, da critico), tutte accomunate dalla relazione intima e confidenziale che ha avuto con il cinema.
Si tratta di un libro che riesce nel suo intento di essere una lettura universale, adatta a tutti, dai cinefili ai lettori in cerca di qualcosa di leggero, ma stimolante, fino agli addetti ai lavori. Un testo in cui l’autore ha racchiuso le tre anime che hanno riempito la sua vita (spettatore, cinefilo e critico cinematografico) costruendo una struttura semplice, chiara e molto efficace, in cui si parte dall’aneddoto personale per poi spaziare con delle riflessioni più ampie sul cinema, sulla sua realtà e sull’evoluzione dello spettatore.
Con Menarini abbiamo avuto il piacere di conversare dei nuovi linguaggi cinematografici, della rivoluzione del digitale, del presente e del futuro della sala, del cinema italiano, del rapporto tra autore e Studios e del potere dello spettatore contemporaneo.
Solo alcuni tra i tanti spunti contenuti ne La grande illusione: Storie di uno spettatore.
Alla domanda “Che cos’è uno spettatore?” si potrebbe rispondere in tanti modi. Non solo perché ciascuno ha in mente una propria idea di spettatore, basata il più delle volte su di sé e sui propri comportamenti, ma anche perché nel corso del tempo guardare un film ha assunto significati culturali e sociali molto diversi tra loro. Basti pensare al fatto che, fino a metà del Novecento, per vedere un lungometraggio lo spettatore poteva solamente andare in una sala cinematografica, mentre oggi meno del cinque per cento dei film prodotti ogni anno viene visto
collettivamente su grande schermo. Un tempo si poteva solo stare seduti in una poltrona a orari stabiliti da altri, oggi possiamo vedere film in piedi o sdraiati o mentre pranziamo, a orari stabiliti da noi. Il volume attraversa la storia degli spettatori partendo da esperienze cinematografiche personali e giungendo a riflessioni di valore universale sul guardare i film tra forme sociali e prassi culturali.
Intervista a Roy Menarini
Volevo cominciare dal titolo, La grande illusione: storie di uno spettatore, intanto se c’è un riferimento alla pellicola del ‘37 e poi cosa ti affascinava in una autobiografia tramite i film?
Il titolo è, a dir la verità, per lo più strumentale.
Il riferimento è ad un grande film, nonché uno dei miei film preferiti, ma non sono certo il primo a definire il cinema “una grande illusione”, lo fece Enrico Ghezzi, tanto per citarne uno. A me interessava il senso che assumeva la definizione se guardata dalla parte del pubblico: “illusione come immaginazione”.
Scegliendo una biografia di uno spettatore tramite più film ho potuto ribaltare la prospettiva di volumi come quelli scritti da illustri critici, che hanno creato delle vere e proprie raccolte composte invece da più opinioni spettatoriali, cosa che in futuro potrebbe accadere anche partendo dal mio libro grazie a delle rubriche che si stanno organizzando.
In sintesi volevo raccontare la mia esperienza partendo dalla dimensione di spettatore/critico/cinefilo, tre entità per me inseparabili, per poi sviluppare in ciascun capitolo un discorso che ragionasse su termini come la spettatorialità, l’immaginario cinematografico e il nostro momento storico in modo da creare un testo di interesse universale. E spero di esserci riuscito.
Tu parti dalla domanda “Che cos’è uno spettatore?”, descrivendone i vari aspetti e le evoluzioni attraverso il tempo. Possono esistere più spettatori in uno e, come accademico, qual è stato il ruolo dell’analisi dello spettatore negli studi sul cinema e sui media in generale.
Ci sono almeno due grandi filoni di ricerca universitaria.
Uno è legato alle reazioni piscologiche e cognitive personali dello spettatore, cioè rispondere alla domanda: “Cosa accade nella mente di uno spettatore quando si trova davanti allo schermo?”.
L’altro è quello degli audience studies, che ha allargato il raggio di interesse dallo spettatore cinematografico a quello dei media nel loro complesso.
Essi parlano però di “comunità di spettatori”, ragionando dunque in termini di “massa”, così da divenire preziosi nel momento in cui si decide di studiare flussi, gusti e mode, ma tralasciando però il problema dello studio della singolarità, la storia di ogni spettatore. Essa necessita di altri strumenti.
Il merito del mondo accademico è stato ad ogni modo quello di reintrodurre dopo diverso tempo lo spettatore nell’equazione cinematografica e nell’equazione cinematografica del cinema italiano.
Partendo da questo, posso chiederti una riflessione sulla realtà del nostro panorama cinematografico, inquadrando proprio il rapporto con lo spettatore?
Credo esista un cinema italiano che parte dal basso, indipendente, che è molto ricco. Un altro cinema che si sta muovendo sui generi, tramite nomi come Mainetti, i Manetti Bros e altri autori, e che sembra avere incontrato i gusti di un pubblico attento e cosmopolita, perché guarda ad un immaginario sfaccettato, complesso e pieno di spunti. E di questo ne sono felice.
Nel mezzo non c’è più tanto, perché anche in quel cinema che parlava al famoso pubblico medio / borghese, come i film di Ozpetek e di tanti altri autori e autrici, noto una certa fatica. Lo stesso vale per la realtà della commedia, un settore che storicamente è stato una colonna del nostro panorama e dove invece stanno cominciando a moltiplicarsi i flop.
Certo c’è stato il COVID, che ha portato ad una crisi molto profonda, dunque non è neanche corretto essere troppo severi.
Quello che a me sembra però è che ci sia una mancanza di idee a proposito della direzione da prendere, a cui si aggiunge il fatto che finanziariamente, tra tax credit, product placement e altro, capita sempre più spesso che i film arrivino in pareggio prima ancora di uscire e questo significa che come va in sala interessa poco.
Ciò origina un controsenso, perché se da una parte permette di non andare in perdita, dall’altra fa venir meno il rischio imprenditoriale e, dunque, anche la voglia e la necessità di sfidare se stessi, gli altri e il pubblico.
Nella prima stanza, quella in cui è protagonista Guerre Stellari, mi ha colpito molto quando parli del merchandising come modo di espandere l’esperienza filmica, cosa riscontrabile ancora oggi, che siamo in un contesto non più analogico. Questo ci conferma come l’esperienza filmica trascenda le due ore di visione, ma ci fa riflettere anche sul ruolo della rivoluzione tecnologica. Quando il digitale ha cambiato il cinema?
Il digitale racchiude qualsiasi tipo di fruizione mediatica al giorno d’oggi e dunque una risposta univoca non c’è.
Sicuramente esso ha trasformato dal profondo il cinema, dato che tutte le attività che interessano l’industria, dal girare al proiettare e al vedere un film, sono tutte digitalizzate.
Per quanto riguarda il processo creativo si può discutere delle cose positive che ha portato questa innovazione, senza le quali, c’è poco da fare, il cinema stava affondando. Parlo di riduzione dei costi, la possibilità di far viaggiare più facilmente i file con i quali si lavora, i benefici delle nuove tecniche di montaggio eccetera.
Dall’altra parte il digitale ha significato anche la costruzione di infrastrutture che non sempre hanno fatto bene al cinema, come la sostituzione della critica attraverso i social media, la sostituzione della sala come luogo di costruzione unica di un immaginario con il consumo casalingo, le piattaforme e tutto il resto.
Questo ha reso il cinema un medium come tanti altri, specialmente per i più giovani.
Rimanendo su questo aspetto della tecnologia, un’altra cosa che mi viene in mente è come è cambiata la quantità di informazione per lo spettatore prima della visione cinematografica: oggi è praticamente impossibile andare al cinema a scatola chiusa, come succedeva a te da ragazzo. Ce lo racconti nel capitolo con L’ultimo squalo, sottolineandolo come un momento per te molto importante. Manca oggi la possibilità di un approccio del genere?
Io rimpiango quel tipo di visione lì, che, come racconto nel libro, ha permesso questo mio apprendistato nella sala parrocchiale che faceva vedere tutto e il contrario di tutto e in cui si andava alla cieca qualsiasi cosa arrivasse purché arrivasse lì, dato che ce l’avevamo nel quartiere. Lì si poteva imparare senza informazione preliminare un po’ di tutto e forse era anche troppo.
Oggi però secondo me questo un po’ manca. Ho la sensazione che con questa infodemia si arrivi al cinema fin troppo informati, assorbiti dal film, e dunque ci si creai un’aspettativa che nel 90% dei casi viene disattesa.
D’altro canto quando non abbiamo informazione sul singolo film allora finiamo con l’affidarci ad altro per decidere cosa vedere. E non parlo del critico, ma del famigerato algoritmo.
Lui decide cosa vedono i consumatori dei colossi dello streaming, che hanno sostituito di fatto la mia cara sala parrocchiale.
Leggendo il tuo libro ci si accorge di come, nonostante gli anni, una delle magie, se non la magia, del cinema sta nella sua dimensione collettiva, divenuta sempre più mentale e meno fisica. I suoi residui appartengono ormai solo alla cosiddetta bolla cinefila di appassionati?
Non ancora, ma il rischio è quello.
Io ho fatto quella digressione nel libro, cercando di raccontare dal ‘77 fino al 2020 con TENET, perché mi sembrava giusto ricordare che non esiste solo il mondo del post e pre digitale, ma che in mezzo ci sono stati 20 anni in cui generazioni come la mia non andavano al cinema a vedere Bergman o Fellini a meno di eccezioni, come la conoscenza di buoni cineclub.
Tantissimi dei film che io studiavo per gli esami li vedevo in VHS. Tarantino lo ha spiegato mille volte.
Detto questo, i processi sono più lunghi di quello che si immagini, il cinema è più resistente di quello che si immagini, ma i casi in cui c’è il recupero di un’esperienza in sala sono sempre meno.
I film evento come quelli del Marvel Cinematic Universe sono dimostrazioni evidenti che quel tipo di fruizione che viene considerata “magica”, con cori da stadio e applausi, avviene solo in sala.
Questo da una parte ci rassicura, ma dall’altra… quanti sono i titoli che possono fare questo? Pochi.
Quello che si sta perdendo (e in parte si è perso) è la pratica dell’andare al cinema, non c’è più una continuità e questo si può attribuire non solo ad un cambiamento sociale e culturale, ma anche dalla disponibilità abnorme di titoli, nella cui complessità perde importanza la singolarità.
Il rischio sono cinema per lo più vuoti, tolti i film evento e quelli che si sono coltivati un loro pubblico.
Tutto il resto lo discutiamo nella bolla cinefila di cui parlavi tu.
Hai accennato ai cineclub, questi non potrebbero rappresentare una strada per il futuro della sala come spazio fisico? Un modo per continuare a rendere “reale” la famigerata bolla? I capitoli dedicati ad Heimat 2 da studente e Il cameraman in Piazza Grande sono molto significativi…
I casi che ho citato sono dei film evento per il pubblico cinefilo, come può essere quello del Cinema Ritrovato o del cineclub che proiettò Heimat 2 per 13 martedì, dunque qualcosa che psicologicamente viene percepito come eccezionale parimenti agli esempi di cui parlavo prima.
Rimane il problema dell’eccezione.
Ecco forse i cineclub non devono fare qualcosa di eccezionale, ma devono rendere l’eccezionale continuativo, per stabilizzare e risincronizzare la passione cinefila.
Come si fa? Solamente ridando in mano ai programmatori e agli esercenti una grande libertà perché ora, a livello contrattuale, non c’è.
In Italia manca una liberalizzazione delle sale, impedita da una legislazione, che invece è riscontrabile in altri Paesi in cui le sale hanno la possibilità di fidelizzare il proprio pubblico tramite un palinsesto personale.
Citi diverse esperienze di visioni e parte di questi ricordi è sempre il pubblico con cui hai visto il film, dalla visione con lo spettatore medio fino a quelle festivaliere, come quella di Vive L’amour, presente nel libro. Allora ti chiedo: quanto è importante il tipo di pubblico con cui si vede un film?
Importantissimo.
Nel capitolo post scriptum io cito anche qualche “incidente” e le cose antipatiche che possono succedere al cinema, ma in verità credo che il pubblico abbia una dimensione importantissima, dopotutto a chi non è capitato di vedere un film in sala traendone un’idea per poi cambiarla dopo una seconda visione con un amico?
La funzione collettiva della sala trascina, forse proprio perché il cinema è nato per essere visto in quel modo e perché solo così può ottenere il tipo di rapporto col pubblico a cui punta. E ti dirò di più: anche quando il pubblico reagisce male in verità è un’esperienza positiva.
La visione con il pubblico è essenziale perché non vuol dire solo essere tutti insieme, ma anche dividersi tutti insieme, questo permette di crearsi una propria identità cinefila.
I ricordi che io racchiudo nel libro sono per lo più avvenuti in una sala, ma non l’ho scelto apposta, sono quelli che sono rimasti indelebili. Qualcosa vorrà dire.
Un’altra riflessione molto affascinante che si ritrova nel libro è quella riguardante la coincidenza della visione filmica, in cui avviene una sincronizzazione tra il momento della vita di chi guarda e il tema del film. In termini anche puramente teorici, esiste un’età giusta per una data visione?
Il discorso è che il cinema è principalmente fatto per il pubblico, dà emozioni e costruisce esperienze.
La storia del cinema, specialmente nel secolo scorso, è stata caratterizzata dalla sua capacità di produrre continuamente una serie di esperienze di vita per lo spettatore, qui sta il suo status di medium di importanza universale.
Su questo si innesta una componente di casualità, riferibile al momento di vita in cui ci troviamo noi come spettatori, ciò ci fa percepire un film più o meno giusto per noi a seconda di come entra in connessione con la nostra esperienze e maturità.
La classica frase: sembra che questo film parli di me.
In uno dei capitoli parli della visione di Shrek 3 insieme a tua figlia. Quanto cambia quando ci si ritrova a fare da mediatore tra un film e l’esperienza fruitiva di un altro spettatore?
Anche qui: quando si va a vedere un film non si è solo spettatori, ma si è spettatori con una propria vita.
Quando succede di diventare genitori e si va per la prima volta in sala con il proprio figlio si ha la sensazione di essere responsabile di quello che vedrà.
Vedi il film con i tuoi occhi ma, allo stesso tempo, anche con i suoi. Ti capita di pensare: “Che starà pensando? Come percepirà questa scena?”. Questo produce una sorta di visione bipolare.
Un esercizio utile in verità, perché che ci permette di entrare nella testa di un altro spettatore. Un modo per uscire dai nostri paraocchi.
Un cinefilo ha negli autori i propri compagni di vita, per te sono stati David Lynch e Woody Allen, nominati entrambi nel libro. Trovi che questa importanza dell’autore continui ad esserci anche oggi, nonostante la quantità gigantesca di titoli e una fidelizzazione più riferibile ai grandi Studios o agli streamer che ad altro?
Si, è un aspetto intramontabile nel cinema, a dispetto di un sistema contemporaneo in cui si è cercato di fare di tutto per ridurre l’importanza dell’autore a favore dei brand e delle case di produzione.
Intanto i fenomeni cinematografici che non sono blockbuster passano sempre e comunque attraverso l’autore, almeno quell’autore che ha saputo costruirsi un registro e un immaginario sempre riconoscibile.
Lo sanno anche le mega industrie, che hanno compreso come sia più logico e dia migliori risultati affidarsi a delle figure autoriali, modificandone però i ruoli, rendendoli anche manager culturali, showrunner produttivi e così via.
La loro è diventata una mansione molto più ampia, che pone il creativo sul piedistallo, ma a che allo stesso tempo lo coinvolge sul marketing e nel piano produttivo, tutto per “armonizzarlo” con gli Studios.
L’autore è centrale, ma anche snaturato dal suo ruolo originale e prettamente creativo.
Sono rimasto colpito dalla tua analisi di Avatar nel libro. Quanto oggi un critico può completare l’esperienza cinematografica di uno spettatore e, se lo fa, il critico è esso stesso diventa, di fatto, parte di essa?
Il critico non dovrebbe essere autoriferito, ma cercare di offrire una via per arricchire la visione di uno spettatore medio… o almeno aggiungere stimoli.
Affermare poi che la critica abbia ancora un impatto diventa invece sempre più complicato.
Il suo ruolo è tuttora importante per certi settori, come il cinema indipendente e d’autore, quando invece si parla di grandi film, allora subentra la critica nel suo complesso. Mi riferisco agli aggregatori, che hanno un enorme impatto sul titolo e sul suo potenziale successo.
La parola del critico che ti illumina mi sembra invece appartenete a contesti sempre più piccoli, soprattutto perché la sua importanza sociale è un po’ tramontata.
Chiudendo il cerchio, torniamo a parlare dello spettatore. Qual’è e quant’è oggi il suo potere?
Oggi lo spettatore ha un enorme potere, ma dovrebbe esserne consapevole.
Forse manca un po’ di educazione al potere dello spettatore.
Pensa che innanzitutto egli è spiato e profilato, una cosa da una parte molto invadente, ma dall’altra sintomatica dell’importanza di una figura che con un telecomando in mano può cambiare il destino di ciò che vede.
A tal proposito bisogna tenere in mente due cose importanti capire: punto uno è che gli spettatori tendono ad essere molto più mobili di quanto si creda e che, punto due, il cinema e gli audiovisivi sono stati, sono e saranno sempre legati all’innovazione: proporre prodotto non solo nuovi, ma originali.
Questo, nel bene o nel male, fa venire fuori cose inedite e orientate dalla profilazione del pubblico, che è sempre la bussola dell’industria, ecco perché siamo così potenti.