Leonora Addio, la recensione: Paolo non sarà mai da solo

Fabrizio Ferracane

Nel momento del lutto si è soliti cercare il conforto di una persona vicina, una faccia amica, una compagnia conciliatoria, qualcuno in cui riconoscersi. Un modo per sentirsi ancora capiti, magari proprio come la persona scomparsa era solita fare, o almeno per sentire un abbraccio reale, l’affetto e l’attenzione di qualcuno che stimi. Un moto per una riconciliazione con se stessi. Paolo Taviani lo ha trovato in Luigi Pirandello nel momento di dover affrontare la morte del fratello Vittorio (scomparso il 15 aprile 2018) e, a ben pensare, ce lo si poteva anche aspettare. I fratelli di San Miniato non hanno mai fatto mistero della loro passione per l’intellettuale siciliano, tanto da adattare per il cinema in ben due occasioni i racconti contenuti in Novelle per un anno, per la precisione a distanza di 14 anni l’una dall’altra, prima con Kaos (1984) e poi con Tu ridi (1998).

In questa ottica si può aprire la recensione di Leonora Addio, primo film in solitaria di Paolo Taviani, premiato con il FIPRESCI alla Berlinale 2022, osservandolo come una trasposizione di un funerale o, meglio, di una veglia funebre o, ancora, come un ultimo capitolo di una trilogia (di fatto diviso a sua volta in tre atti ben scanditi) che va ad esaudire un desiderio espresso quasi 40 anni prima, quando i fratelli chiesero di poter realizzare una pellicola sulla vicenda delle ceneri di Pirandello e si videro declinare la proposta.

Tutto molto logico, dunque, e tutto molto puntuale.

Costringersi a rivivere un lutto di un fratello per elevarne la celebrazione della memoria fino alla sublimazione, tramite la vicenda che da sempre si era voluto raccontare, attraverso le più ardite passioni artistiche, la propria storia personale e quella del proprio Paese.

Il risultato è una riflessione a tutto tondo sul rapporto tra la vita e la morte, l’assenza e la presenza, la dipartita e l’arrivo. Ciò che unisce e ciò che divide cambia nel momento della separazione?

Il cinema lo può raccontare.

L’ultima novella di Pirandello

Il massimo momento di celebrazione, spezzato da una frase che afferma il dramma dietro quei passi dell’8 novembre del 1934, per poter rivelarsi sul serio. Confessare la dimensione teatrale per immergere nella sua, particolarissima, finzione, l’inizio, la genesi, che è, di fatto, una fine.

Il Nobel a Pirandello, raccontato con le immagini di archivio, per poi ascoltare la voce le maestro, che suona come quella di Roberto Herlitzka, un’inquadratura di un soffitto di quello che pare essere un teatro, gli applausi del pubblico, il bianco e nero (del grande Paolo Carnera) e la morte. La morte che fa invecchiare i figli, già stanchi di continuare a vivere, che preferiscono tornare bambini, non reagire, solo lasciarsi andare ad una dolce disperazione. Forse la stessa che ha provato anche Paolo davanti all’evidenza della scomparsa del fratello, un bambino costretto a rendersi conto della propria età.

È morto Pirandello, è morto Vittorio Taviani. Ora si va a cominciare.

Fabrizio Ferracane

La storia di tre funerali. Il primo dei quali è quello di Stato, voluto da Mussolini stesso, quello che vede traditi i desideri del defunto, il quale voleva in ultima battuta che i suoi resti fossero trasportati nella povera campagna della sua Agrigento, invece che depositati nel monumentale Verano fascista.

Poi la processione dopo la morte, invocata dalla necessità di una funzione legittima, espressa per volontà di alcuni studenti siciliani, che ottengono dal governo che un funzionario (Fabrizio Ferracane) vada a prevelare l’urna con le ceneri a Roma per trasportarle al Sud ed esaudire le ultime volontà del fu Pirandello. I figli non ci sono più, ma la morte non basta per esaurire la memoria.

Una piccola epopea tutta italiana, mirabilmente pirandelliana, squisitamente tavianiana, che in funzione di un’assenza impone una presenza che non solo causa la realtà, ma la racconta. Oggetto condizionante e condizionato, perfetta espressione del rapporto di potere tra vita e morte che il film vuole raccontare.

Le superstizioni che impediscono il viaggio via aria e che impongono la dimensione del microcosmo, pensato attraverso i vagoni di un treno che ospita le mille realtà di un’Italia post Seconda Guerra Mondiale che si avvia a ricominciare attraverso la solita ironia, l’indulgente malinconia e l’insana nostalgia.

Il bianco e nero scompare quando i desideri di sepoltura si realizzano, spazio alla memoria che ora può distaccarsi dalla volgarità del terreno e arrivare alla sublimazione espressiva, magari proprio attraverso il racconto. Un racconto. Una novella, l’ultima di Pirandello. Il chiodo, con cui si chiude Leonora Addio. Il terzo funerale, quello che fissa nell’eternità.

La morte unisce, ancor di più di quanto la vita stessa può pensare di fare.

Non ci lasceremo mai

Paolo Taviani decide di raccontare la morte del fratello in modo sia personale (e dunque puramente di stomaco, sentito e in totale assenza di una funzione) sia analitica (uno spunto di riflessione sul rapporto di forze tra assenza e presenza) e dunque racconta una storia che deve vivere in un tempo eterno, sospeso.

Grande schermo e palcoscenico.

Leonora addio

Si apre e si chiude con la presenza di un pubblico, la direzione degli attori è fortemente teatrale, così come tutta la sequenza di apertura, quasi anticinematogafica, ma che fuga qualsiasi tipo di anarchia con la prima inquadratura del letto di morte di Pirandello, ritorno subitaneo al gusto e al rigore del cinema dei Taviani (dei e non del).

Sono in tre a raccontare un film e dunque il film non può che essere su di loro e solo su di loro. Di come hanno vissuto, di come si sono vissuti e di come sono morti. Il tutto al sicuro nello spazio della narrazione filmica.

Il cinema lo può raccontare. Ricordate?

Vita e morte, presenza e assenza, cosa resta e cosa rimane. C’è differenza? Chi se ne va se ne va sul serio? Qual è il giusto spazio del ricordo? Nessuna risposta, solo una riflessione, solo uno spunto, un umile punto di vista. Un inizio, per parlarne e trovare un po’ di conforto.

Leonora Addio è la nuova pellicola dei fratelli Taviani, non è un debutto e non è un nuovo esordio. Leonora Addio non è il racconto di una dedica, ma un lavoro in cui l’assenza di Vittorio è così pesante da occupare la sedia del regista che Paolo ha sempre avuto vicino a sé al momento delle riprese. È lì, è ancora con lui, basta girare la testa per accorgersene. Pirandello li ha uniti e ora continuerà a farlo per sempre. Noi, d’altra parte, abbiamo il privilegio di assistere al loro ultimo saluto, reciproco e, dunque, anche nostro.

Leonora Addio è al cinema dal 17 febbraio distribuito da 01 Distribution.

70
Leonora Addio
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

Leonora Addio è la prima pellicola in solitaria di Paolo Taviani, dedicata, ovviamente, alla memoria del fratello Vittorio, scomparso nel 2018, e premiata con il FIPRESCI alla Berlinale 2022. Dopo Kaos e Tu ridi il cinema tavianiano torna a raccontare le novelle di Pirandello, chiudendo una sorta di trilogia pensata quasi trent'anni fa, con la storia vera dell'epopea delle ceneri del Premio Nobel per la letteratura che si fa vicenda simbolo della celebrazione di un'assenza, un modo per approfondire il rapporto tra vita e morte nello spazio immortale del cinema e del teatro. Tre funerali per far dialogare chi se ne è andato e chi è rimasto, uniti come prima e più di prima. A Berlino è stato premiato un film dei fratelli Taviani, che si sono incontrati di nuovo e non si lasceranno più.

ME GUSTA
  • Il bianco e nero curato da Carnera.
  • L'uso della dimensione teatrale e cinematografica.
  • La potenza e la funzionalità della vicenda delle ceneri di Pirandello.
  • La capacità di Paolo di portare Vittorio con sé, dietro e davanti la macchina da presa.
FAIL
  • La caratteristica estremamente personale del film potrebbe impedire un coinvolgimento.
  • Il tono anarchico a volte rischia di diventare dispersivo.
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