Sono quasi venti gli anni di onorata carriera di Adam McKay tra cinema e televisione, i primi passati ad occuparsi delle varie declinazioni della nuova commedia americana, mettendo per di più al centro il formato della gag da Saturday Night Live e lasciando i vari contesti dello sfondo. Interrogandosi di meno. Poi, con La Grande Scommessa del 2016, il deciso cambio di direzione. Si comincia ad indagarsi sul serio, si cerca il meta, e la commedia è sempre al centro, a dispetto di una ricostruzione dei fatti (dichiaratamente) piuttosto parziale. Fiction del reale per puro gusto di essere fiction o cinema del vero che si confessa finzione fin da subito. Ulteriore evoluzione in Vice – L’uomo nell’ombra, in cui si cerca di mettere la fiction al servizio del reale e la commedia come escamotage e non come cuore. Un biopic come metafora del male della più grande democrazia occidentale di fatto ottenendo lo stesso risultato della fase precedente, ma facendo meno ridere.

Nella recensione di Don’t Look Up vi parliamo del nuovo passo, ottenuto rimescolando abilmente le carte, in cui ci si interroga ancora di più, forse come mai prima d’ora. Per la prima volta il regista tenta di coniugare un tipo (il suo tipo) di commedia in una forma di satira pura, usata in modo che diventi sia cuore che veste della pellicola, e immaginando un cinema del reale ipotetico, cioè facendo una commedia su una parodia tratta da fatti (ahinoi) piuttosto reali. Tutto giocato (dichiaratamente, ancora, ma lui sincero lo è sempre) sull’ambiguità che si è instillata nel concetto di realtà da quando la sua narrazione è diventata così importante. Soprattutto per la politica, ma d’altronde ogni cosa è politica diceva qualcuno.

Il culmine di un percorso intimo, meta, appunto, per McKay, riguardante il suo modo stesso di fare cinema, in cui si è sempre chiesto cosa siano narrazione e realtà, in fin dei conti.

Probabilmente il suo film più ambizioso, a cui Netflix dona quella batteria di fuoco che gli permette di entrare di prepotenza nella stagione dei premi, sia per la messa in scena, che per il comparto musicale (c’è già chi grida all’Oscar per il brano di Ariana Grande) e, infine, per il cast stellare, guidato da un grandissimo Leonardo DiCaprio e da Jennifer Lawrence e nella cui lista troviamo, tra gli altri, Meryl Streep, Jonah Hill, Rob Morgan, Cate Blachett, Tyler Perry, Mark Rylance, Ron Perlman, Timothée Chalamet, Melanie Lynskey e Himesh Patel.

Dove preferisci guardare?

Il dottor Randall Mindy (DiCaprio) è il fortunato professore di astronomia della Michigan State University. Fortunato perché ha una moglie che lo ama, due figli con dei problemi sociali e psicologici accettabili e, soprattutto, una dottoranda eccezionale, che ha appena scoperto una nuova cometa. Un evento eccezionale, uno di quelli che ti consentono di vedere il tuo nome affibbiato ad un corpo celeste, in questo caso piuttosto grande, almeno 9 km di diametro, giusto giusto le dimensioni per far distruggere un pianeta come la Terra. Che poi è proprio il pianeta verso il quale la cometa Dibiasky, questo il nome della giovane scienziata (Lawrence), si sta dirigendo. Però niente allarmismi, in realtà la probabilità che ciò avvenga non è del 100, ma solo del 99,6. Praticamente un 70 in politichese.

Dicevamo però della fortuna del dottor Mindy… Cos’è? Non pensavate mica fosse una trovata puramente ironica, vero? No, no, lui è veramente fortunato.

Don't Look Up

Pensate che riesce subito a mettersi in contatto e ad essere creduto dalla NASA e dall’Ente per la Difesa Planetaria (pare esista sul serio), di cui un esponente, il dottor Teddy Oglethorpe (Morgan), lo accompagna, insieme alla sua studentessa, addirittura nello Studio Ovale, dove potrà avere tutta l’attenzione della Presidente degli Stati Uniti Janie Orlean (Streep). Sempre che la notizia venga presa sul serio, alla fine ci sono i dati… I numeri sono tutto, lo dice il dottor Mindy, quello fortunato.

E se non lo ascolteranno loro ci penseranno i media, lui ha il volto giusto: intenso, ma rassicurante; dolce, ma autorevole. Perfetto volto televisivo, uno scienziato da salotto prime time, ideale testimonial per un apocalisse. Perché non dovrebbero ascoltarlo?

La questione è anche semplice, comprensibile e l’urgenza è enorme.

Perché non dovrebbero ascoltarlo? Magari sarebbe troppo dura? Forse indorando la pillola, filtrandola con un formato social, fonderla con qualcosa che la renda meno reale e più trendy e smart. Farla diventare narrazione, in modo da spogliarla dalla potenza della realtà. Anche se poi si rischierebbe la mistificazione.

L’alternativa però sarebbe il panico, la fine del mondo prima della fine, la perdita della propria realtà impone sempre un autoriflessione: prendere in considerazione le nostre vite e ciò in cui crediamo. Per carità.

Si, in fondo, nella vita ci sono già tanti problemi, dopotutto perché dovrebbero ascoltarlo? Voglio dire, è anche facile, basta non guardare in alto.

Fiction e realtà

McKay scrive un film impostando la prima parte come altri momenti tipici dei suoi lavori: sviscerando numeri e dati, eventi certi, come se ci fossero degli alunni presenti in sala. Una introduzione completamente informativa, in cui si sfonda la quarta parete in modo diretto e in cui il film fa di tutto per essere serio, reale e documentaristico. Nel nostro caso componendo effemeridi. Peccato che nulla sia vero.

Dopodiché ci viene sussurrato all’orecchio che qualcosa sta cambiando e, improvvisamente, tutto diventa altro.

L’intelligenza della pellicola sta nel raccontare la fantasia come realtà e la realtà come una fantasia, usando i calcoli orbitali per parlare di una cometa che distruggerà la Terra e usando un presidente donna (bionda per un motivo specifico) per parlare di politica assoggettata al capitalismo. Un what if più reale della “versione ufficiale”, che nell’indagare le logiche del linguaggio mediatico sfuma sempre più i confini tra realtà e fiction. Un must della politica degli ultimi anni, non a caso McKay ha voluto come suo co-scrittore David Sirota, firma del The Guardian, ma anche speechwriter per la campagna 2020 di Bernie Sanders.

Don't Look Up

Il personaggio di uno straordinario DiCaprio, di nuovo, dopo C’era una volta a… Hollywood, in un ruolo in cui si prende poco sul serio, rappresenta proprio chi rimane a metà tra queste due potenze ontologiche. Sarà poi lui ad operare poi la scissione definitiva, come un ribelle ridestatosi dal sonno, per dare il via allo scioglimento della pellicola. Uno scossone, che di fatto serve per separare definitivamente le due realtà, solo per poi suggerire quanto possano rischiare di diventare la stessa cosa.

Comedy i love you

Se è vero che il film è facilmente divisibile nelle sue varie fasi e punta tutto il suo leitmotiv sulla separazione dei due piani esistenziali con cui gioca, lo stesso non si può dire per il linguaggio che adotta per raccontarli in tutte le sue sfumature. Unico dall’inizio alla fine.

Adam McKay è un adepto della commedia.

La venera in quanto forma più alta per analizzare la realtà e, ovviamente, la prende molto sul serio, utilizzandola come linguaggio per raccontare un kolossal visivamente imponente (anche se il montaggio non è sempre all’altezza degli standard a cui ci ha abituato il suo cinema), complessissimo per le tante cose che prende in considerazione, ancora più numerose dei volti del cast (la maggior parte dei quali parti di un circo mediatico di cui conosciamo ogni aspetto), e dal minutaggio veramente molto esteso.

Don't Look Up

La scelta di non prendersi mai veramente sul serio consente alla pellicola non solo di rendere tutto credibile, ma anche di far specchiare lo spettatore in una realtà solo leggermente più sincera di quella che vive, ridicola, ma perseguitata da una seriosità ossessiva.

Don’t Look Up, una commedia per parlare delle nostre miserie, come dall’alba dei tempi, talmente esagerata e brillante da essere lucida, scientifica, attinente e spaventosa.

 

Don’t Look Up è al cinema dall’8 dicembre 2021 e su Netflix dal 24 dicembre 2021.

80
Don't Look Up
Recensione di Jacopo Fioretti

Don’t Look Up è il kolossal Netflix diretto e co-scritto da Adam McKay, con un cast gigantesco capitanato da uno straordinario Leonardo DiCaprio e da Jennifer Lawrence, e nella cui lista infinita troviamo nomi come Meryl Streep, Jonah Hill, Mark Rylance, Cate Blanchett e Timothée Chalamet. Una pellicola molto complessa e la più concettualmente, oltre che economicamente, ambiziosa del regista, che da maestro della commedia americana, decide di farne una su di una parodia ispirata a fatti purtroppo molto vicini alla realtà. Tutta giocata sull'ambiguità del concetto di narrazione, l'arma più potente che ci sia al giorno d'oggi. Intelligente perché racconta la fantasia come realtà e la realtà come una fantasia, creando un what if plausibile per indagare le logiche di un linguaggio mediatico che sfuma sempre più i confini tra verità e fiction. Caratteristica che gli permette di sposarsi perfettamente con la natura umana, refrattaria da sempre alla crudezza del mondo reale. Un film spietato, brillante e riuscito forse proprio perché nel suo farci apparire ridicoli non si prende sul serio.

ME GUSTA
  • Le prove degli attori, da quelle volutamente macchiettistiche a quelle più profonde.
  • Il linguaggio parodistico, brillante, veloce, divertente, raramente ripetitivo.
  • Lo scontro tra realtà e la sua narrazione.
  • La rappresentazione del meccanismo con cui funziona il linguaggio mediatico e perché attecchisce così bene.
  • La brillantezza con la quale diventa specchio distorto e fedele della nostra realtà.
FAIL
  • Il minutaggio potrebbe essere sembrare esagerato ad alcuni.
  • La complessità della mole di contenuti da smaltire.
  • Alcuni momenti di montaggio non all'altezza dell'eccellenza a cui McKay ci ha abituato.