Dopo un’attesa snervante e fatta di annunci e rivelazioni piuttosto controversi e mal digeriti da gran parte dei fan dell’opera originaria, con questa recensione di Cowboy Bebop possiamo dire che la serie live action è finalmente approdata su Netflix (anche) in versione live action.
Oggi proveremo a tirare le somme su questa bizzarra operazione, che scopriremo essere non così male come si poteva pensare, in fondo, ma comunque un prodotto decisamente strano, in grado di farsi contemporaneamente amare e odiare.
Netflix definisce la serie come un “western spaziale” ad alto contenuto d’azione: una descrizione che sicuramente calza ma che appare riduttiva, tanto per l’anime quanto per il live action.
Basilarmente il plot è lo stesso in entrambi i casi: i cacciatori di taglie dall’oscuro passato Spike Spiegel e Jet Black cercano di sbarcare il lunario risolvendo cacce all’uomo più o meno fruttuose in un futuro molto prossimo, in cui l’universo è stato forzatamente colonizzato dopo che il pianeta Terra ha perso le sue innate caratteristiche di abitabilità.
Il duetto diverrà presto un team piuttosto variegato, dato che alla singolare ciurma della loro astronave Bebop si uniranno un singolare corgi dalla spiccata intelligenza, Ein, una scaltra e sensuale malfattrice gitana, Faye, e una ragazzina problematica quanto geniale, Ed.
Un blues fuori da ogni schema
In molti hanno definito Cowboy Bebop una sorta di “Lupin the Third nello spazio”, e i punti di contatto sicuramente sono diversi, calcolando anche l’approccio scanzonato alle vicende criminali e romantico a quelle personali. Il regista Shin’ichirō Watanabe, tuttavia, ha applicato il “metodo Hajime Yatate” al massimo delle sue potenzialità per quest’opera. Per chi non lo sapesse, Hajime Yatate è lo pseudonimo tramite cui il collettivo della casa di produzione Sunrise ha firmato molte, seminali, opere d’animazione nel corso degli scorsi decenni: opere non originali di per sé ma rielaborazioni interessanti e sfaccettate di concept “già visti” ma portati in altre direzioni. Dalle svariate serie di Gundam a I Cinque Samurai, da I cieli di Escaflowne a Cowboy Bebop, gli autori dietro Yatate hanno trovato nuove strade per prendere stilemi, tropi e luoghi comuni dell’animazione nipponica e renderli forme nuove, raggiungendo il culmine in Cowboy Bebop, che tra inseguimenti e sparatorie regala ampi spazi a riflessioni esistenziali di grande respiro e facilmente recepibili al grande pubblico. A differenza di un altro classico di quelli anni, ovvero Neon Genesis Evangelion, Bebop è meno criptico nei suoi drammi e i personaggi, sebbene complessi e tormentati, restano ancorati a una dimensione a portata dello spettatore, che ne vive e convoglia i patemi con semplicità.
Un racconto dalle anime contrastanti
Tutto questo è convogliato nella versione live action? Sì… e no. Cowboy Bebop su Netflix è una vera e propria chimera, che omaggia e rispetta l’originale ma va spesso e volentieri per conto suo, per limiti e scelte (auto)imposte così come per problemi intrinseci.
Andiamo per gradi. Si tratta di uno spaccato retrofuturistico, in cui le colonie spaziali sono ancora giovani e gli ambienti abitati sono, in massima parte, ancora abbozzati dalla nuova civiltà spaziale, con una certa misura di approssimazione e degrado. Non c’è la pulizia, il rigore, la spinta a una civiltà migliore di uno Star Trek, per dire: lo spazio è un vero Far West, una periferia in cui possono sorgere polverosi quartieri in stile sudamericano o estasiatici; in cui una Las Vegas spaziale trova il suo compimento. Sembra del tutto naturale, quindi, volgere lo sguardo alla cinematografia e alla resa di registi come Robert Rodriguez e Quentin Tarantino, che in location simili ci sguazzano e che bene hanno compreso le potenzialità scenografiche di questi contesti applicati all’iconografia degli anime. Non è un caso, del resto, che la miglior trasposizione occidentale da un manga/anime sia stata realizzata proprio da Rodriguez in un’ambientazione relativamente simile (stiamo parlando, naturalmente, di Alita – Angelo della Battaglia).
Il problema sorge nel momento in cui la resa scenica appare posticcia. Stranamente, però, questo non accade per limiti tecnici o economici che rendono le scenografie povere, poco credibili e mal sinergizzate con la CGI, problema solitamente enorme per i serial sci-fi. La computer grafica di Cowboy Bebop è davvero ben realizzata e integrata con il tutto, non sembra presa di peso da una cutscene di un videogioco su cui poi i personaggi si stagliano con evidenti rimasugli di green screen, come ci aspettavamo. Il problema, piuttosto, è il presentare tutto fin troppo sopra le righe, cavalcando regia, fotografia e messa in scena come se fosse normale rendere il tutto assolutamente camp, quasi fosse Batman ’66, o quello portato in scena da Joel Schumacher in Batman Forever e Batman & Robin. Il che non sarebbe sbagliato di per sé, ma è un molto diverso da quel che l’anime portava in scena, pur nel suo essere anticonformista.
Cowboy Bebop – l’anime – ha uno stile tutto suo, difficile da replicare ma anche da rendere, e lo showrunner André Nemec ha deciso di andare all-in traslando il ritmo originale nipponico in qualcosa di molto più simile al pulp americano, rendendo un ibrido che spiazza. Spiazza in misura maggiore i fan dell’opera originale, che non viene tradita nei suoi intenti ma risulta comunque lontana, ma anche chi apprezza opere occidentali di questo tipo, in cui l’influenza originale risulta palpabile ma quasi in forma di “corpo estraneo”.
Che qualcosa non quadri, in questo mix, lo si nota quando si tenta di replicare in tutto l’originale, nelle sequenze più pedisseque all’anime, colonna sonora compresa: il risultato è goffo, monco, poco funzionale, il tutto assume le sembianze di un ottimo fan-film girato da grandi appassionati che, però, vogliono sopperire ai loro limiti unicamente con la passione, senza capire che le trasposizioni 1:1 spesso sono ridicole o devono limitarsi a corti e spot pubblicitari.
Paradossalmente, le scene migliori sono quelle in cui lo show trova una sua identità specifica, prende dall’originale senza volerlo scimmiottare e va per la sua strada, raccontando le vicende secondo punti di vista nuovi.
Gli stessi personaggi soffrono moltissimo di questa cosa: se li si vede come reinterpretazioni allora funzionano anche bene, dato che gli interpreti sono bravi. John Chu, in un contesto simile, funziona alla grande, ma restituisce un feeling assai differente dall’originale, pur partendo dalle stesse premesse. I personaggi, nell’anime, sono molto più beffardi ed equilibrati, mentre in questo caso sono sempre in bilico tra la tragedia e la commedia, con note pulp spesso rese male o con troppa semplicità, utilizzando una scurrilità che sembra la scappatoia più facile per rendere il tutto più “adulto” ma in realtà anche meno accurato.
In conclusione della recensione di Cowboy Bebop, quello che possiamo dire è che sebbene lo show si lasci guardare, intrattenendo lo spettatore grazie anche al lavoro svolto dagli attori principali, ma quel che viene meno è sicuramente il fascino dell’opera e dei suoi motori narrativi, non travisati ma visti attraverso una lente banalizzante che ne sminuisce il significato.
Cowboy Bebop vi aspetta su Netflix dal 19 Novembre
Trattare Cowboy Bebop mischiando gli approcci di Rodriguez a Sin City e Alita, di Ang Lee su Hulk e di Schumacher su Batman lo rende una miscela esplosiva ma di difficile digestione. Nemec, in fondo, non fa altro che mescolare acqua di fonte e olio extravergine, risultando in un amalgama che fa a botte con se stesso.
Chi scopre Cowboy Bebop per la prima volta, in questa forma, troverà uno show fresco, divertente e con svariati spunti di riflessione... certo, recuperare l'anime sarebbe preferibile per svariati motivi. Chi ama la versione originale, al contrario, storcerà inevitabilmente il naso di fronte a un prodotto che si lascia guardare in maniera divertita e divertente, ma che ti fa sentire un po' in colpa nel dedicargli del tempo quando potresti semplicemente rivedere il classico.
Un fallimento? No. Un esperimento poco riuscito? Sì. Ma segna una strada, che andrà percorsa per capire dove può portare.
- Gli interpreti ci credono e fanno tutto quel che possono per salvare il salvabile
- La colonna sonora riprende quella classica
- Lo show intrattiene e ha bei momenti
- La messa in scena a metà tra il camp e il pulp spiazza e svia dall'originale
- La resa e il feeling dei personaggi principali è completamente diversa e meno interessante
- Dialoghi altalenanti, con inutili parentesi scurrili