The French Dispatch, la recensione: voglio vivere in una rivista di Wes Anderson

Non sono tanti i registi che, grazie alla loro estetica immediatamente riconoscibile, si sono meritati il proprio aggettivo. Uno è Federico Fellini, con il suo “felliniano”. Un altro Quentin Tarantino: lo stile “tarantiniano” è uno dei più copiati degli ultimi venti anni. Poi Tim Burton: le spirali, il bianco e nero, i mostri. Tutto molto “burtoniano”. Wes Anderson con le sue geometrie perfette, la simmetria, i colori pastello, la passione per il design e la moda si è conquistato sul campo l’aggettivo “andersoniano”. La recensione di The French Dispatch, ultima fatica del regista texano, in sala dall’undici novembre, parte quindi con un avvertimento: questo è forse il più andersoniano dei film Anderson. Nel bene e nel male.

 

 

Selezionato dal Festival di Cannes per l’edizione 2020, quella fantasma, The French Dispatch è stato presentato davvero sulla Croisette lo scorso luglio, nel corso di Cannes 2021. Ha senso che la pellicola sia stata mostrata per la prima volta lì: si racconta di una rivista fittizia, The French Dispatch appunto, supplemento culturale del quotidiano americano Evening Sun di Liberty, Kansas, che racconta cosa succede nella città francese, inventata anche questa, di Ennui-sur-Blasé. Un nome che è tutto un programma: significa infatti “noia su apatia”. Il fondatore e direttore è Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray, con Wes Anderson fin dal suo esordio Rushmore), uno che non vuole si pianga nel suo ufficio e che soprattutto tiene ai propri autori più di ogni altra cosa.

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Le sue penne magiche sono: Herbsaint Salzerac (Owen Wilson), che si occupa di cronaca e ha un debole per barboni e criminali, che incontra girando per i vicoli della città in bicicletta. J. K. L. Berensen (Tilda Swinton), esperta d’arte. Lucinda Krementz (Frances McDormand), che scrive di politica. Roebuck Wright (Jeffrey Wright), virtuoso delle pagine dedicate al cibo. Ognuno di loro è più di un giornalista: sono creatori di mondi, raccontano storie. Ognuno dei loro pezzi viene trasformato in immagini da Wes Anderson: abbiamo quindi la storia del pittore Moses Rosenthaler (Benicio Del Toro), pazzo assassio chiuso in prigione, che trova nella guardia carceraria Simone (Léa Seydoux) la sua musa. Zeffirelli (Timothée Chalamet), giovane idealista che guida una rivolta studentesca. Il formidabile chef Nescaffier (Stephen Park), che crea per il Commissario di polizia piatti dagli accostamenti arditi.

The French Dispatch: il parco giochi di Wes Anderson

La voglia di vivere in un film di Wes Anderson di cui cantano I Cani può essere ora sostituita con quella di vivere in una sua rivista. The French Dispatch è un gioco, un divertimento per il regista americano, che porta il proprio stile e la sua poetica alle estreme conseguenze. I vari frammenti che compongono il film sono uniti dal filo di carta del giornale e sembra davvero di sfogliare il supplemento mentre vediamo le immagini susseguirsi sullo schermo. Ci sono episodi più e meno riusciti, alcuni più approfonditi (come quello sul pittore, forse il migliore) e altri più brevi (quello iniziale con Owen Wilson), ma tutti sono un concentrato di estetica andersoniana.

Cura maniacale per ogni dettaglio, dai caratteri con cui è stampato il giornale agli oggetti che vediamo sulle scrivanie dei giornalisti. Abiti raffinati, colori pastello, geometrie perfette (bellissimo il risveglio della città nell’inquadratura fissa). E poi la scelta del bianco e nero che si alterna al colore, proprio come nelle pagine delle riviste di moda.

A inframmezzare i vari episodi ci sono anche delle animazioni che riprendono i disegni del The French Dispatch, impreziosendo la confezione di un film che fa dell’estetica il centro e il cuore di ogni cosa.

The French Dispatch

Wes Anderson e le sue ossessioni

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Chi ama Wes Anderson e l’universo che ha costruito in venti anni di cinema impazzirà per questo esercizio di stile studiato al millimetro, in cui ogni inquadratura, ogni scena nasconde oggetti, riferimenti e piani di lettura che rendono la confezione molto più interessante di quanto non sembri. C’è poi chi sicuramente rimarrà ubriacato da tanto sfoggio, pensando a un semplice marchio di fabbrica ripetuto all’infinito. Eppure in The French Dispatch c’è anche una nota malinconica, la nostalgia per un mondo che non esiste più e forse non è mai esistito se non sulle pagine delle riviste culturali. La ricerca di un significato, dell’amore, del senso della vita: tutto è assoluto in The French Dispatch. Così come è sempre stato in tutti i film di Wes Anderson.

Forse è vero, è uno modo di sognare e vedere il mondo infantile, adolescenziale. Ma se non si può sognare al cinema dove?

Il regista lo sa bene e per questa sua ennesima avventura alla ricerca della bellezza ha voluto con sé tutti i suoi più fedeli e storici collaboratori. Oltre agli attori già citati ci sono infatti anche Adrien Brody, Mathieu Amalric, Edward Norton, Willem Dafoe, Jason Schwartzman, Saoirse Ronan. Un cast impressionante per fama e talento: tutti sono perfettamente in parte, anche se hanno scene brevissime. Sono come tante figurine che il regista colleziona in questo suo album delle meraviglie, in cui tutto è possibile e niente ordinario, perché filtrato dagli occhi di persone che sanno abbandonarsi alla fantasia.

The French Dispatch: quando la forma diventa sostanza

È vero, forse più che in tutti i suoi altri film The French Dispatch porta l’amore per l’immagine e l’estetica a livelli esponenziali. Anche l’amore per le parole non conosce freni: i dialoghi sono onniprsenti e velocissimi, alternandosi a lunghi monologhi, giocando con lingue e accenti. Tra tante parole e tanta ricchezza di immagini si può rimanere frastornati. Se invece si abbraccia questa voglia di esagerare e straboccare di Anderson ci si può riempire occhi e cuore, perché dietro ogni giacca di velluto indossata con disinvoltura, dietro ogni capello scompigliato ad arte di Timothée Chalamet c’è un’ansia di vivere, di riempire il vuoto, di circondarsi di bellezza perché altrimenti si intravede la morte.

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L’estetica per Wes Anderson è sempre più sostanza: lo si capisce anche dai suoi interessi recenti. Ha curato l’interior design del Bar Luce per Fondazione Prada, che si trova a Milano. Ha disegnato il vagone di lusso, la carrozza Cygnus, fiore all’occhiello del treno British Pullman, per Belmond (parte da London Victoria e gira tutta la campagna inglese). È chiaro che in quelle geometrie perfette, in quei legni lucidi, nelle vetrine illuminate alla perfezione Wes Anderson ha racchiuso il suo modo di stare al mondo. Potrà non piacere, potrà sembrare superficiale e lezioso. Ma quanto sarebbe bello vivere in un film, o una rivista, di Wes Anderson anche soltanto per poche ore.

 

The French Dispatch è in sala dall’11 Novembre

80
The French Dispatch
Recensione di Valentina Ariete

Come scritto nella recensione di The French Dispatch, Wes Anderson porta la sua estetica all'estremo, facendoci letteralmente vedere come sarebbe sfogliare le storie contenute in una rivista. I suoi amati colori pastello si alternano al bianco e nero e ogni episodio si lega all'altro grazie ai racconti dei giornalisti della testata che dà il titolo al film. Il cast è ricchissimo e davvero stellare: da Bill Murray a Timothée Chalamet, passando per Tilda Swinton e Frances McDormand. La forma diventa sostanza in un film che è andersoniano al cubo.

ME GUSTA
  • Wes Anderson si diverte come un matto.
  • Il cast è stellare e di livello altissimo.
  • Le sequenze animate.
  • L'estetica andersoniana portata all'estremo.
FAIL
  • Chi non ama i film molto verbosi potrebbe rimanere travolto.
  • Chi si ferma alla forma potrebbe bollarlo come un "semplice" esercizio di sitle.
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