The Harder They Fall, la recensione: rinascita e tradizione

Jonathan Majors e Zazie Beetz

Va bene, spesso è vero che un artista non nato come professionista cinematografico non fa una grande figura quando si presenta con un suo lavoro per la sala, che sia uno youtuber, un regista teatrale (anche se questi in realtà si integrano molto meglio) o un musicista. Ci sono delle eccezioni ovviamente, come Florian Zeller, che ha appena vinto un Oscar alla sceneggiatura per The Father, pellicola tratta dalla sua omonima piece teatrale, o come, banalmente, Jared Leto, attore dalla carriera di grande prestigio. Anche se da queste parti non leggerete mai dei particolari encomi alle sue doti recitative, mi spiace, cito molto più volentieri lo spaccato cinematografico di David Bowie. I musicisti che diventano registi invece sono delle creature particolari, ultimo a tentare il connubio fu RZA con il fiacchissimo L’uomo con i pugni di ferro, ma magari aveva solo sbagliato genere, perché se è vero il classico adagio “il western non muore mai”, guardando il nuovo originale Netflix ci sarebbe quasi da dire “il western dà una possibilità a tutti”.

Nella recensione di The Harder They Fall vi parliamo del primo lungometraggio come regista (e scrittore) di Jeymes Samuel (il cantante The Bullitts), conseguenza naturale, ma soprattutto ragionata e meritata per la sua forma finale, del mediometraggio They Die by Dawn (lo trovate su YouTube), suo debutto alla regia. La pellicola, presentata al London Film Festival, è prodotta insieme a Shawn Carter, quel Jay-Z partner in law a cui Samuel dedicò la sua seconda fatica e autore anche di un brano della ricchissima colonna sonora del film.

Il cast all-black è di grandissimo prestigio e vanta i nomi di Idris ElbaJonathan Majors, Zazie Beetz, Regina King, Lakeith Stanfield, RJ Cyler, Danielle Deadwyler, Edi Gathegi, Deon Cole e sua maestà Delroy Lindo. La seconda penna sulla sceneggiatura è di tale Boaz Yakin, già mente dietro a film di grande successo come Now You See Me.

Quella proposta da Samuel è una variazione sul tema, inaugurata con il suo titolo primo, cercando di costruire una pellicola di genere immersa nel contemporaneo, riempiendola di citazioni a pellicole passate e dandole un significato meta in grado di ridare dignità alla presenza afroamericana nell’universo western, proponendo in un contesto di fantasia nomi realmente esistiti.

“Love is the only thing worth dying for”

Nat Love (Majors) è il fuorilegge che ruba ai fuorilegge (lo si riconosce dalla croce incisa sulla fronte, primo omaggio), orfano di un amore genitoriale che gli è stato violentemente strappato quando aveva circa 10 anni, ma circondato da quello della sua banda e, soprattutto, della sua Mary (Beetz), bellissima donna, imprenditrice di successo e proprietaria di diversi saloon in giro per lo Stato.

La mano, anzi la pistola (dorata), che ha cambiato per sempre la vita di Love è quella del diavolo, Rufus Buck (Elba), leggendario fuorilegge da qualche anno imprigionato a Yuma, ma in procinto di tornare in libertà. Sotto di lui una delle più letali bande di assassini che si siano mai viste sulla faccia della Terra, capitanate dai suoi due luogotenenti Cherokee Bill (Stanfield) e Trudy Smith (King).

The Harder They Fall

Sono loro il chiodo fisso di Love, sono le loro le facce che vede quando chiude gli occhi la notte e sono loro che vede quando li riapre la mattina. Soprattutto quella di Buck, la cui prigionia aveva in qualche modo placato l’animo vendicativo del giovane, in una sorte di precario stato di quiescenza, molto precario a dir la verità.

Fatto sta che, nonostante le sue buone intenzione di appendere il cinturone al chiodo e finalmente passare il resto della sua vita con Mary, la notizia della grazia concessa alla sua tanto odiata nemesi lo scuote come mai prima d’ora, convincendolo a lasciare da parte tutti i suoi cari e partire con il marshal Bass Reeves (Lindo) alla volta di Redwood, la comunità costruita e protetta da Buck e la sua gang. Peccato che Love non abbia fatto i conti con i suoi compagni, disposti a morire per lui pur di non lasciarlo solo nell’impresa.

Il demonio è bianco

Il primo western in cui è presente un attore afroamericano (il veterano Woody Strode) fu I dannati e gli eroi di John Ford (1960), mentre il primo con un protagonista di colore fu Non predicare… spara! nel 1972, diretto e interpretato da Sidney Poltier. Capite quindi che ciò che rende “speciale” il film Samuel non è il cast all-black, il suo è più un tentativo di una nuova rinascita sulla scia della blaxploitation degli anni ’70. Essa fu un movimento molto in voga che produsse, tra le altre, la trilogia dedicata al personaggio di Nigger Charley e, guarda un po’, Più duro è, più forte cade o The Harder They Come (somigliante vero?), diretto da Perry Henzell e con il musicista giamaicano Jimmy Cliff, passato alla storia per la sua particolarissima colonna sonora che sdoganò il raggae nel cinema di genere.

Insomma un’operazione simile a quella fatta da Tarantino, prima con Jackie Brown e poi, più recentemente, con Django Unchained.

Un titolo citato non a caso, visto che nella pellicola originale Netflix c’è molto del cinema di Sergio Corbucci e in generale dello spaghetti western, tra cui tanto Sergio Leone, che infatti in C’era una volta nel West riservò un ruolo di grande rilevanza ad un personaggio di colore, interpretato sempre da lui, Woody Strode, presente anche in Pronti a morire di Sam Raimi, un altro titolo a cui questo film si ispira un bel po’.

Regina King

Non è inedita neanche (ormai non lo è quasi niente dopotutto, scusate la scelta del termine) l’idea di proporre sullo schermo dei personaggi provenienti da quell’epoca realmente esistiti, pensate ad Harriet di Kasi Lemmons del 2019, biopic dedicato ad Harriet Tubman.

La trovata vera è quella dichiarata ad inizio pellicola, cioè riuscire a (ri)dare visibilità a nomi afroamericani noti e poi dimenticati come Nat Love, “Stagecoach” Mary, Rufus Buck, Cherokee Bill, Bill Pickett, Jim Beckwourth e lo stesso Bass Reeves, senza rinunciare a proporre un film di pura fiction. Questo è quello crea lo “strano” clima della pellicola, che propone dei momenti estemporanei in cui si avverte la suggestione che tutti i personaggi sappiano che quello che sta accadendo non è reale fino in fondo.

Un film politico, attuale e fortemente femminista (ci sta una cosettina nel finale…), che non dimentica mai come il nemico sia l’uomo bianco: “The Devil is White” dice il Reeves di Delroy Lindo, scacciando la nomea dal volto di Buck.

Il demonio è l’uomo bianco e vive a White Town. Egli è buono solo per essere messo in ridicolo ed assecondare i neri mentre, giustamente, lo derubano. Incapace di fare del bene ai suoi, di essere onesto e nobile, anche se dalla parte della legge, ma non più di dimenticare, almeno finché ci sarà questo tipo di cinema a ricordare.

Frontiera contemporanea

La pellicola si diverte notevolmente nel miscelare citazioni provenienti sia dalla tradizione western, ricca come poche altre nell’industria d’intrattenimento nordamericana, che, direttamente, da autori del black cinema, uno fra tutti Spike Lee. Guardate lo scopo e la forma di 5 Bloods, senza dove andare troppo indietro nel tempo.

Le pianure sperdute diventano il Bronx, gli outlaws diventano bros o nigga, parola che può essere detta solo da chi nigga lo è, altrimenti sono dolori, e gli shoots diventano bang bang. Il western però rimane tale, con tutti i suoi topoi ricorrenti, come il sogno della frontiera e di vivere al di fuori della legge per crearsi il proprio paradiso sulla Terra. Un orizzonte che ha ispirato tanti uomini dell’epoca, nostalgici di un’età precedente all’avvento a quella tecnologia che cominciò a rendere accessibile ogni punto della mappa, composta in precedenza solo da terre selvagge.

The Harder They Fall

Il pregio del film di Samuel è quello di riuscire a piegare per i suoi fini il genere principe del feroce revisionismo storico operato dall’industria cinematografica nordamericana, ma mai snaturandone lo spirito originario.

Il linguaggio è aggiornato, i registri linguistici spaziano dallo splatter al fumettistico passando il musical, le soluzioni visive sono ricercate, la caratterizzazione è efficace, la scrittura e l’intreccio reggono bene la pellicola, i personaggi sono tutti belli e sono tutti ben interpretati, legati e inquadrati in una regia che vive tanto dei loro primi piani. Un cinema divertente che non si prende, in apparenza, sul serio, ma che, sotto sotto vuole fare tanto.

Ecco, in conclusione della recensione di The Harder They Fall, possiamo dire che forse l’unico, reale, difetto della pellicola è quello di voler fare troppo, sia dal punto di vista contenutistico che puramente estetico, rischiando di non arrivare da nessuna parte specifica e, cosa ben più grave, di detronizzare la potenza di alcune trovate più caratterizzanti di altre, strette e costrette a condividere toni e atmosfere che rischiano di confonderle.

 

The Harder They Fall è disponibile su Netflix dal 3 novembre.

70
The Harder They Fall
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

The Harder They Fall, western all-black originale Netflix, è il primo lungometraggio diretto da Jeymes Samuel (il cantante The Bullitts), prodotto da Jay-Z e con un cast di grande prestigio composto da Idris Elba, Jonathan Majors, Zazie Beetz, Regina King, Lakeith Stanfield e Delroy Lindo. La pellicola, piena di citazioni e riferimenti ai classici cinematografici, si pone sulla scia della blaxploitation degli anni '70, proponendo personaggi afroamericani realmente esistiti in una storia di finzione. Una trovata che le permette un'originale libertà dal punto di vista contenutistico e formale, ma che rischia di renderla inoffensiva e meno incisiva, nonostante la generale, ottima, riuscita.

ME GUSTA
  • La pellicola si pone come una nuova esponente delle pellicole provenienti dalla blaxploitation degli anni '70.
  • La regia e la fotografia sono ottimamente integrate e propongono soluzioni originali e divertenti.
  • Le prove attoriali sono tutte molto efficaci.
  • Ben integrato il registro linguistico moderno con i topoi classici del genere western.
FAIL
  • La pellicola al fine può essere stata mortificata dalla voglia di fare un po' troppo.
  • La libertà di spaziare rischia di appiattire l'acutezza di alcune trovate.
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