È un 2021 speciale per Marco Bellocchio, uno dei maestri indiscussi del nostro cinema, lo hanno ricordato anche durante l’Incontro Ravvicinato che lo ha visto come protagonista alla 16esima Festa del Cinema di Roma. Premio alla Carriera a Cannes78, dove è stato presentato il suo ultimo, splendido, lavoro, Marx può aspettare, documentario sentito, potente e molto intimo, in cui il cineasta si è raccontato come mai prima d’ora.

Il 2021 è anche il 40esimo anno dalla scomparsa di Aldo Moro, che Bellocchio raccontò in Buongiorno, notte nel 2003 e sulla cui vicenda sta di nuovo lavorando con l’imminente serie tv Esterno, notte, prodotta da Lorenzo Mieli di The Apartment, Kavac Film in co-produzione con Arte France e in collaborazione con Rai Fiction. Nel cast Fabrizio Gifuni, Margherita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi, Daniela Marra e Gabriel Montesi e le penne sono di Bellocchio, Stefano Bises , Ludovica Rampoldi e Davide Serino.

Prima di arrivare all’ultimo capitolo (per ora) della sua carriera, il regista è partito da quando si spostò a Roma per frequentare il Centro Sperimentale, non imparare regia, ma bensì recitazione. Tra coloro che lo portarono a più miti consigli, ci fu persino Andrea Camilleri, allora docente del CSC.

Arrivai a Roma alla fine degli anni ’50, periodo d’oro per il cinema italiano. La Dolce Vita, L’Avventura, Accattone e via dicendo. Pellicole straordinarie di meravigliosi registi. All’epoca per i giovani che si approcciavano al mestiere c’erano due scuole: quella italiana, forte dei titoli sopracitati e di tanti altri, e quella francese, la Nouvelle Vague. Soprattutto nella persona di Godard, all’epoca era pieno di godardiana puristi e assolutisti. La mie fonti principali di formazione sono state però il cinema italiano, soprattutto Visconti, che era un esponente di quel realismo che amavo, e l’opera. Si viveva ancora in un mondo democristiano, in cui le sinistre erano ancora all’opposizione e, per citare Monicelli, “i registi andavano ancora in autobus.”

Dopo il diploma (e “non la laurea, come ora”, sottolinea divertito Bellocchio) il regista si spostò a Londra, dove venne a contatto con il nuovo cinema inglese, il free cinema, rimanendo molto colpito da The Loneliness of the Long Distance Runner, pellicola del 1962 diretta da Tony Richardson e arrivata da noi come Gioventù, amore e rabbia.

I pugni in tasca

Sollecitato su quali fossero gli attori che lo ispirassero prima del cambio di corso, Bellocchio cita Marlon Brando e James Dean e denuncia una certa diffidenza per il cosiddetto poker d’assi della commedia italiana: Tognazzi, Manfredi, Sordi e Mastroianni, anche andando contro il suo interesse, perché lavorare con uno di loro sarebbe stata una garanzia, quanto meno di produzione, per le sue pellicole.

Ho sempre avuto una provinciale diffidenza nei confronti di queste star da box office.

Anche se con Mastroianni in realtà lavorò sul set dell’Enrico IV.

In quel momento Mastroianni non era particolarmente in auge e noi eravamo reduci da Gli occhi, la bocca, che non andò per niente bene, e allora proponemmo il film a lui, che accettò a condizione per noi abbordabili. Lo ricordo come un uomo molto triste, sempre con la sua Nazionale tra le dita, ma professionalmente impeccabile.

Sempre sugli attori e sul suo rapporto con loro Bellocchio si sofferma:

Nel caso dell’interprete de I pugni in tasca, io e il produttore fummo ispirati da un giovane (Lou Castel) che stava a mangiare con noi nella mensa del CSC, per il suo volto e dal fatto che era del Nord, ma non bobbiese. Quando si fanno i film spesso gli attori si trovano all’ultimo. Iniziai a lavorare con Michel Piccoli per un ritardo che impedì a Philippe Noiret di partecipare a Salto nel vuoto.

Come uso del format degli Incontri Ravvicinati, vengono poi proiettate le clip tratte dai film dell’ospite per ripercorrerne la carriera.

La prima non può che essere tratta da I pugni in tasca (1965), debutto folgorante di Bellocchio, in cui introduce il tema del melodramma, uno dei suoi topoi filmici e che infatti è forte anche in Vincere, nonostante i 40 anni di differenza tra le due pellicole, nel quale il racconto della storia di Ida Dasler si lega alla vicenda di Mussolini.

Mi affascinava molto il percorso di Benito Mussolini, che dall’essere un radicale, rivoluzionario, ateo e di estrema sinistra, nel giro di 10 anni si trasforma nel dittatore che poi è passato alla storia.

La parola “ateo” accende un dibattito sulla religiosità di Bellocchio, stuzzicato nonostante la sua nonchalance nell’allontanare qualsiasi sospetto di fede celata, soprattutto citando L’ora di religione, non proprio un film di un autore ateo.

Io sono un miscredente, ma in me c’è un fondo di religiosità.

Vincere

Si arriva, infine, all’anteprima di Esterno, notte, la serie tv attualmente in produzione tratta dal suo film del 2003, Buongiorno notte, a sua volta ispirato al libro Il prigioniero del 1998, scritto dalla ex brigatista Anna Lura Braghetti.

Forse la prima e ultima serie, perdonate la battuta lugubre, sono ancora efficiente, ma ormai ho un’età anche io.

Alla Festa del Cinema sono state proiettate 3 scene, che ci mostrano un bravissimo Fabrizio Gifuni, ormai esperto trasformista, nei panni di Aldo Moro e anche una breve sequenza in cui possiamo vedere Toni Servillo nei panni di Papa Paolo VI.

L’idea della serie è nata in occasione dei 40 anni della morte di Aldo Moro. Lo spunto che mi ha convinto a farla è stata una sua foto scattata su una spiaggia di Torvajanica, che lo ritraeva in doppio petto, impassibile, circondata da bambini in costume da bagno, tra cui sua figlia.

Spiega Bellocchio.

Volevo ribaltare il campo rispetto a Buongiorno, notte, spostando la mia attenzione verso i personaggi che hanno vissuto dall’esterno la prigionia di Moro, come Cossiga, Zaccagnini, Andreotti, la moglie Eleonora e i brigatisti. Sempre partendo dalla strage e sempre terminando con l’epilogo che tutti conosciamo.

Alla domanda se ci sia un Italia prima e dopo il rapimento di Moro, il regista risponde così:

Così dicono molti storici, che dopo i tragici eventi la classe politica sia entrata in una crisi tale da portare anche i partiti sull’orlo del baratro, anche se poi non c’è stato l’insediamento di nessun governo autoritario. Ho raccontato anche in Marx può aspettare dei miei ricordi infantili riguardo le accese campagne elettorali e i comizi a Piacenza, dove venivano Togliatti o De Gasperi. Allora i partiti erano delle macchine formidabili ed è possibile che dopo la vicenda Moro la storia italiana abbia cambiato direzione. Tra noi giovani c’era la speranza che Moro venisse liberato e ci siamo molto stupiti che ciò non sia avvenuto.