Madres, la recensione: la paura dell’altro

Madres

Welcome to Blumhouse, il format nato dal sodalizio tra la casa di produzione di mr. Blum e Amazon, è tornato a “deliziarci” per il secondo anno tra l’ultima settimana di settembre e la prima di ottobre, riproponendo su Prime Video nuovi quattro freschissimi titoli horror low budget, frutto della mente di autori di belle speranze, tra giovani alla prima opera e altri già abbastanza conosciuti nell’ambiente. La realtà è però purtroppo a volte un’altra cosa.

Con la recensione di Madres, primo lungometraggio di Ryan Zaragoza, raccontiamo una delle due pellicole che completa la seconda settimana del ciclo del format, unica tra quelle proposte a basarsi su fatti reali tragici, molto tragici, e che è molto importante conoscere. Il che, al netto di evidenti limiti nella lavorazione e nella concezione della pellicola, eleva la statura dell’intenzione del regista, che non si approfitta mai del materiale da cui trae spunto, cercando sempre di andare per una strada sua. Correndo però il rischio concreto di mortificarlo.

Quella messa in piedi dal regista americano è una storia dalla struttura molto classica, che parte da un presupposto che lo è altrettanto, ribadito all’inizio della pellicola da una frase del libro Con gli occhi dell’occidente di Joseph Conrad, ovvero come spesso l’orrore più grande non è di natura sovrannaturale, ma appartiene a questo mondo.

Una didascalia fin troppo esplicita, che da sola taglia le gambe alla componente di sorpresa che la pellicola può riservare allo spettatore, aiutata in gran parte nel suo intento anche dallo svolgimento, prevedibile per ogni spettatore minimamente frequentatore del genere. Tolta la rivelazione finale.

Benvenuti a Golden Town

Beto (Tenoch Huerta) e Diana (Ariana Guerra) sono una giovane coppia di immigrati messicani di seconda generazione, che nonostante il sentimento forte che la anima, ha il vizio di indugiare molto più sulle cose che la dividono piuttosto che di quelle che la rendono unita (per carità, nulla di eccezionale). Persino la decisione di trasferirsi dalla metropoli ad un paesino di campagna, Golden Town, è stata frutto di uno sforzo mai pienamente condiviso. I due coniugi sono di estrazioni sociali differenti (un contadino divenuto manager supervisore e una ex giornalista, laureata con lode e ora provetta romanziera) e, cosa più importante, i loro modi di vivere le proprie origini sono pressoché agli antipodi, poiché laddove lui cerca una casa reale per la sua famiglia, cercando di riallacciare un filo con una realtà di appartenenza che percepisce come più vicina, lei non riesce neppure a convincersi ad imparare lo spagnolo, anche a costo di non integrarsi in una comunità che non parla inglese.

Ariana Guerra

Questo difficile cambio di vita arriva dunque in un clima piuttosto teso, coperto però dalla gravidanza di lei, evento gioioso e atteso per entrambi più di tutto, ma pronto a riesplodere al primo cenno di difficoltà. In questo caso neanche una difficoltà qualunque. Tira infatti una strana aria in questo apparentemente tranquillo paesino, dovuta alla massiccia presenza di donne con la voglia di avere dei bambini, senza che di questi, a parte uno, vi sia traccia alcuna. Le motivazioni non vengono più neanche ricercate dagli abitanti, da tempo rassegnati alla situazione e completamente devoti ad una santona del loco, punto di riferimento della comunità. È l’incontro con lei a mettere sull’attenti Diana, rimasta colpita dai suoi modi misteriosi e dai continui riferimenti all’inquilina precedente l’abitazione che ora occupa insieme al marito e, cosa più importante, futuro nido per il nascituro.

A minare la sua serenità rimasta ci pensa quel brivido lungo la schiena che sale quando si ha la sensazione che nella casa dove si sta passando l’ultimo periodo della propria gravidanza ci sia qualcuno, o qualcosa, che sta lì ad osservare.

Dove guardare?

Zaragoza prende i topoi tipici del cinema horror (villaggio sconosciuto, mistero avvolto nel silenzio degli abitanti, difficoltà di integrazione) e adotta il punto di vista della sua protagonista, fragile perché incinta, mettendola in una posizione di solitudine assoluta perché unica spettatrice degli eventi sovrannaturali apparentemente minacciosi e quindi sola implicata in una ricerca della verità, che la porterà inevitabilmente allo scontro con il marito, colui che l’ha trascinata lì e che ora è suo cieco avversario nelle discussioni.

Con questo presupposto viene recuperato l’elemento fantasy, la cui natura viene ampiamente anticipata non solo dalla frase citata ad inizio articolo, ma sottolineata anche da un frammento onirico facente funzione di una sorta di flashforward, che nel suo volere depistare non fa altro che sottolineare ancora meglio dove il titolo vuole andare a parare. La costruzione dell’indagine occupa la parte centrale della pellicola, che nel suo affannarsi a costruire una struttura dalla forma logica e credibile comincia a svelare tutte le criticità del film. Un simbolismo piuttosto insistito, ma mai realmente consistente (c’è solo una trovata veramente significativa), che dovrebbe dare allo spettatore modo di leggere (un altro po’) la natura dell’elemento orrorifico, che è paradossalmente la parte più debole, sia nell’uso, visto e rivisto, che nella resa, limitata a dei jumpscare ampliamente prevedibili e veramente poco altro.

Tenoch Huerta

La regia risulta scolastica e dozzinale quando va bene, quando va male invece si lascia andare a trovate stilistiche che, al limite, possono dare un po’ di colore. La fotografia è ancora peggio, piatta e monopasso, per non parlare degli ambienti, tra cui segnaliamo un ospedale con delle luci da motel di terza classe. La scrittura dei personaggi è povera e limitata alla creazione di due figure stereotipate, approfondite nella misura in cui possono risultare appena credibili per la funzione che devono assolvere all’interno della storia. Dei mezzi per un fine, che ben poco hanno di personalità e che talvolta si concedono il lusso di risultare poco coinvolgenti.

Alla conclusione della recensione di Madres parliamo della parte più interessante, riservandoci un accenno più concreto al finale(quindi SPOILER). Il titolo del film dovrebbe già dare un indizio. La maternità, per chi la desidera, è probabilmente il dono più grande, ne consegue che la violenza più grande è la sua stessa negazione. Un orrore, “l’orrore“, sempre pensando ad una citazione di Conrad, attuato per attuare un controllo coercitivo. Zaragoza parla di questo e coglie l’occasione di farlo mettendolo in relazione alla paura di stampo razziale, che purtroppo ancora si verifica. Un male di questo mondo da denunciare e su cui bisogna sempre riflettere. Peccato per il film con cui si intende farlo. Animo puro, resa sciatta.

 

Madres è disponibile dall’8 ottobre su Prime Video.

50
Madres
Recensione di Jacopo Fioretti Raponi

Madres, opera prima di Ryan Zaragoza, è una delle due pellicole che vanno a completare la seconda stagione di Welcome to Blumhouse, il format nato dal sodalizio tra la casa di produzione e Amazon. Il film trae ispirazione da dei fatti reali e porta con sé l’onere di rendergli giustizia, offrendo però loro un palcoscenico all’altezza perché, sebbene sia apprezzabile il coraggio di attuare questa intenzione cercando di trovare una propria strada, la resa risulta molto limitata da tutti i punti di vista.

ME GUSTA
  • L’intenzione è senza dubbio nobile.
FAIL
  • Regia, fotografia e scrittura sono dozzinali, piatti e monopasso.
  • L’impianto è classico e i risvolti horror sono malresi.
  • Il film rivela troppo presto le sue intenzioni.
  • L’uso della componente sovrannaturale è già vista.
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