Il family drama è uno dei generi cinematografici che permette più libertà creativa e nasconde, dunque, anche i maggiori rischi, ponendo al centro la narrazione il costrutto sociale più importante e più complesso, problematico e spietato delle nostre vite. Teatro di un continuo rimescolamento di ruoli, poteri e rapporti in cui si giocano emozioni ed affetti fondamentali per la costruzione della identità di noi tutti. Tra i vantaggi che offre c’è quello di una narrazione possibile attraverso una notevole molteplicità di chiavi di lettura, anche se di recente quella sick e quella teen la stanno facendo da padroni per le nuove produzioni, non solo nostrane (in quel caso bisogna aggiungere una spruzzatina di mare).
Nella recensione di Mio fratello, mia sorella parliamo dell’opera seconda di Roberto Capucci (stavolta co-sceneggiata con Paola Mammini), ovvero la cronaca di un difficile passaggio da un road movie all’insegna dell’amicizia ad una pellicola molto più complessa, sia in termini del materiale che vuole affrontare (tanto e difficile da tenere insieme) sia per la natura produttiva molto sbilanciata con la quale cresce ed arriva al pubblico. Netflix è la casa fruitiva della pellicola, anche se l’anima strizza l’occhio a Mediaset, i due coproduttori insieme a Lotus Production – Leone Film Group.
Due coppie di fratelli e sorelle di due generazioni diverse, interpretate, rispettivamente, da Alessandro Preziosi e Claudia Pandolfi da una parte e Ludovica Martino e Francesco Cavallo (di recente visto anche ne La scuola cattolica, al centro delle cronache di questi giorni dopo la notizia della censura) dall’altra. In mezzo a loro vent’anni e tanti chilometri. Due vite diverse, ma la stessa casa.
Il tempo non esiste
Una delle più grandi fantasie e mire ingegneristiche dell’umanità è realizzare l’intento di riavvolgere il tempo. Tornare indietro per rivivere i momenti in cui si è stati bene, apprezzare il proprio aspetto quando ci si lamentava del proprio peso o dei propri capelli o fare esattamente tutte le mosse a cui si è pensato e ripensato più volte per fare bella figura con quel tipo o quella tipa. Oppure, per farci un po’ più seri(osi), riscoprire le sensazioni di avere un compagno di gioco, risentirsi bambini, affidarsi a qualcuno con la più completa e disincantata certezza che sapesse esattamente quello che stava facendo.
Bello eh? Peccato che la realtà sia diversa. Perché, vedete, le macchine del tempo esistono già, ma non hanno le fattezze di una DeLorean, bensì quelle di un fratello o di una sorella. Non importa quanto sia passato tra un incontro e l’altro, se nel frattempo siete diventati genitori o capi di stato, neanche se vi siete trasferiti su un altro pianeta, un fratello o una sorella hanno la capacità di mettere in dubbio lo scorrere del nastro. Nel bene e nel male.
Ora potete capire come si è sentita Tesla (Pandolfi) quando ha visto riaffacciarsi nella sua vita il fratello Nikola (Preziosi), in tenuta da spiaggia, dopo vent’anni di (secondo lei) colpevolissi(missi)ma assenza, al funerale del padre, famoso scienziato e figura genitoriale ambigua e ingombrante che ha segnato la vita di entrambi, unendoli al punto di far condividere loro persino il nome della sua più grande passione. La stessa persona che ancora, anche nella morte, prova a realizzare il suo intento, lasciando la casa in eredità a tutti e due ed esprimendo il desiderio che provino a convivere per un anno.
Tesla è però genitore single di due figli, l’esplosiva Carolina (Martino), già malata di ogni male di sua madre e alla continua ricerca di un padre che non si cura dell’effetto delle spunte blu, e Sebastiano (Cavallo), giovanissimo e talentuoso violoncellista affetto da schizofrenia e convinto di essere stato scelto per portare la musica su Marte. Alieno tra i terrestri, trova un suo simile proprio in Nikola, che piomba nella vita regolata da ansie e bigliettini del problematico trio, con la potenza di una detonazione nucleare, scoperchiando il vaso di Pandora di un equilibrio ormai non più gestibile, facile vittima delle fragilità rivelate dal neo ritrovato rapporto tra fratello e sorella.
Non è mai troppo tardi se il tempo non esiste.
Fisica familiare
La visione di Capucci del suo personalissimo dramma familiare è quella di una complicata equazione fisica, scritta nel tempo e nel dolore, in cui le variabili da considerare sono tantissime e il cui svisceramento totale svelerebbe una complessità che potrebbe facilmente mettere a repentaglio la credibilità del processo di costruzione della storia.
Ci si organizza quindi ponendo due poli fissi e facendo ruotare attorno ad essi tutti gli altri elementi. Uno è la figura paterna, apparente motivo della rottura tra Tesla e Nik e allo stesso tempo causa del loro riavvicinamento, mentre l’altro è la malattia di Sebastiano, riferimento principale della vita emotiva della famiglia e principale porta di accesso per il ritorno sulla scena dello zio.
Il regista e la sceneggiatrice lavorano in questo senso, costruendo uno schema essenziale, avendo cura di dare alla tempesta riconciliante dei due protagonisti modo di scatenarsi liberamente e affidandosi molto alla chimica fra gli attori, che si lasciano spesso andare gratuitamente al melodramma. Ci sono anche delle metafore efficienti per raccontare i vari stati del gruppo familiare, come la forma dell’appartamento motivo del contendere, diviso in due parti e con un spazio all’aperto al centro, unico luogo di condivisone reale in una casa in cui si litiga praticamente in ogni dove, o la partita a basket o, ancora, la comune passione musicale dei due marziani di casa. Al netto però di diverse debolezze nella sceneggiatura e di semplificazioni quasi strutturali per il tipo di linguaggio adottato (un po’ vecchiotto se permettete) che riconduce ad un'”iperverbosità illustrativa” tipica di un certo tipo di sceneggiato tutto nostro. In un film che dovrebbe fare il contrario.
Andando avanti quest’ultimo fattore soprattutto comincia a fagocitare il ritmo della pellicola, che perde il mordente dell’inizio, cedendo ad una emotività estremizzata, di cui la scrittura sembra quasi volersi scusare, diventando sempre più didascalica.
Ne è principale vittima il trattamento della schizofrenia, raccontata prettamente dal punto di vista di chi si ritrova a vivere con persone affette da questa patologia (prospettiva che lascia grande respiro anche al personaggio di Carolina), ma che, nonostante la percepibile preparazione della materia, risulta infine semplicistica e un po’ banalotta.
Concludiamo la recensione di Mio fratello, mia sorella con una postilla. La riconciliazione, in ogni tipo di rapporto, passa per un’assunzione di responsabilità, non solo per le colpe commesse nei confronti dell’altro, ma in primis per quelle commesse nei confronti di se stessi. Capucci e Mammini lo sanno bene e bene lo spiegano. Essa è evento catalizzante che da sempre è adoperato come tappa più importante per la crescita per un personaggio. Momento enfatico di per sé e che non ha bisogno di un riconoscimento ulteriore, per di più dal sapore premiante, il quale rischia di essere più ridondante che toccante. Neanche se professato per bocca di un ragazzo che vive su Marte.
Mio fratello, mia sorella sarà disponibile su Netflix dall’8 ottobre.
Mio fratello, mia sorella è la seconda opera di Roberto Capucci, produzione Netflix, Mediaset e Lotus Production - Leone Film Group, con protagonisti Claudia Pandolfi, Alessandro Preziosi, Ludovica Martino e Francesco Cavallo. Il racconto di un dramma familiare sbilanciato e un po' fuori tempo esplicitato attraverso la riconciliazione forzata di un fratello e di una sorella costretti a vivere sotto lo stesso tempo per volere di quello stesso padre che è stato motivo del contendere per tutta la loro vita. A questo difficile processo si somma la presenza della schizofrenia, il cui racconto, da ponderato ed ordinato, accusa presto l'eccessiva emotività che permea la pellicola tutta, scadendo in una didascalia eccessiva.
- Lo scheletro strutturale sul quale si poggia la costruzione familiare è solido.
- La sceneggiatura è a tratti debole.
- Andando avanti il film perde la sua organizzazione per lasciare spazio ad una emotività confusionaria.
- Il trattamento della schizofrenia è efficace, ma vittima principale dell'eccesiva didascalia.
- La scrittura dei personaggi e la messa in scena sono un po' fuori tempo.